CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, ordinanza n. 2668 depositata il 29 gennaio 2024
Lavoro – Licenziamento – Giusta causa – Giustificatezza in tema di recedibilità – Lavoro dirigenziale – Inammissibilità
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Bologna, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado con cui era stata respinta – per quanto qui ancora rileva – l’impugnativa del licenziamento intimato da S. – (…) S.r.l. al dirigente A.V.;
2. La Corte, in estrema sintesi, premessa la distinzione tra giusta causa e giustificatezza in tema di recedibilità dal rapporto di lavoro dirigenziale, ha ritenuto che, alla luce delle risultanze sia documentali che testimoniali, dovesse ritenersi comprovata la contestata negligenza nella gestione del portafoglio ordini da parte del V., per cui, “anche escludendo le residue due condotte valorizzate dal primo giudice”, il recesso non poteva considerarsi ingiustificato;
3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il soccombente con due motivi; ha resistito con controricorso la società, che ha anche comunicato memoria;
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
Considerato che
1. il primo motivo di ricorso denuncia: “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia”; si lamenta, testualmente, che la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto che “le condotte ritenute utili alla base della nozione di giustificatezza erano assolutamente non comprovate se non attraverso testi che dipendono a tutt’oggi lavorativamente e quindi economicamente da S. Srl che su di loro detiene senz’altro una posizione dominante”;
il motivo è inammissibile;
esso viene formulato secondo un tenore testuale dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non più vigente e, soprattutto, senza tenere conto degli enunciati posti, nell’interpretazione di tale disposizione, dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014, evocando un sindacato di merito sulla sentenza impugnata del tutto estraneo ai poteri del giudice di legittimità; ciò viene fatto, peraltro, in una ipotesi preclusa dalla ricorrenza di una cd. “doppia conforme” (cfr. art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., in seguito art. 360, comma 4, c.p.c., per le modifiche introdotte dall’art. 3, commi 26 e 27, d. lgs. n. 149 del 2022), non avendo la parte ricorrente indicato nel motivo le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (v. Cass. n. 26774 del 2016; conf. Cass. n. 20944 del 2019);
2. col secondo motivo si denuncia la “violazione ed errata applicazione” dell’art. 7, commi 2 e 3, della l. n. 300 del 1970, lamentando che la Corte bolognese avrebbe “ritenuto legittimo il licenziamento intimato al dirigente nonostante la violazione delle garanzie procedimentali dettate dallo Statuto dei Lavoratori, violazione rilevabile peraltro d’ufficio trattandosi di nullità del recesso”; si sostiene che “la procedura fu assolutamente arbitraria e non fu dato modo al dirigente di difendere le proprie posizioni e i propri diritti”;
anche tale censura è inammissibile;
come noto, il vizio di violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012); in realtà il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione (che può concernere soltanto una questione di fatto e mai di diritto) posta dal giudice a fondamento della decisione, per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma, della cui esatta interpretazione non si controverte (in caso positivo vertendosi in controversia sulla “lettura” della norma stessa), non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (Cass. n. 26307 del 2014; Cass. n. 22348 del 2007); sicché il processo di sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c. che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti;
nella specie, nonostante l’invocazione solo formale di una violazione o falsa applicazione dell’art. 7 l. n. 300 del 1970, non si specifica adeguatamente quale sia stata l’eccepita violazione procedimentale non considerata dalla Corte territoriale, ma nella sostanza la censura investe apprezzamenti di merito non suscettibile di sindacato in questa sede di legittimità;
3. pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con le spese che seguono la soccombenza, liquidate come da dispositivo;
non può trovare accoglimento, invece, la richiesta di condanna per responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., formulata dalla controricorrente; come noto detta disposizione prevede una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata previste dai commi 1 e 2 dello stesso articolo, volta alla repressione dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’avere agito o resistito pretestuosamente (Cass. n. 20018 del 2020 e Cass. n. 3830 del 2021), presupposti che il Collegio non ravvisa nella specie;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 10.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.