CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 25306 depositata il 25 agosto 2023
Lavoro – Fondo di garanzia – Pagamento ultime mensilità di retribuzione maturate – Preventiva domanda amministrativa – Improponibilità domanda giudiziaria – Nuovo regolamento delle spese processuali – Rigetto – non risultando trascritto nel ricorso per cassazione né il contenuto della domanda che sarebbe stata illo tempore presentata all’INPS né il contenuto del ricorso introduttivo del giudizio e della memoria di costituzione dell’INPS, sia pure nella parte necessaria a dare alla censura di violazione del principio di non contestazione un non opinabile fondamento fattuale
Fatti di causa
Con sentenza depositata l’11.11.2019, la Corte d’appello di Salerno, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato improponibile la domanda di A.D. volta a conseguire dall’INPS, quale gestore del Fondo di garanzia, il pagamento delle ultime tre mensilità di retribuzione maturate alle dipendenze del proprio ex datore di lavoro.
La Corte, in particolare, muovendo dal presupposto che la previa presentazione della domanda amministrativa costituisce condizione di proponibilità della domanda giudiziaria, rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, ha ritenuto che l’assicurato non avesse proposto rituale domanda amministrativa per il conseguimento delle ultime tre mensilità di retribuzione, disattendendo le ulteriori doglianze dell’INPS circa l’assenza, in specie, di un serio tentativo di esecuzione e confermando la sentenza impugnata in ordine alla riconosciuta spettanza del TFR.
Avverso tale pronuncia A.D. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo quattro motivi di censura, successivamente illustrati con memoria. L’INPS ha resistito con controricorso.
Il Pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione dell’art. 327 c.p.c. per avere la Corte di merito ritenuto che il termine per la proposizione dell’appello decorresse dal deposito della motivazione della sentenza di primo grado, invece che dalla lettura del dispositivo in udienza, e non aver conseguentemente dichiarato l’inammissibilità del gravame dell’INPS per intervenuto giudicato.
Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta omesso esame circa un fatto decisivo per non avere la Corte territoriale rilevato che l’INPS non aveva contestato l’avvenuta presentazione della domanda amministrativa concernente il pagamento da parte del Fondo di garanzia delle ultime tre mensilità della retribuzione.
Con il terzo motivo, il ricorrente si duole di violazione dell’art. 345 c.p.c. per non avere la Corte di merito rilevato la novità e la conseguente inammissibilità dell’eccezione concernente la mancata presentazione della domanda amministrativa volta al conseguimento della prestazione.
Con il quarto motivo, infine, il ricorrente deduce la conseguente violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., per avere la Corte territoriale riformato la pronuncia di primo grado anche in punto di spese e aver disposto la compensazione di queste ultime per entrambi i gradi di giudizio, nonostante la parziale conferma del dictum di prime cure.
Ciò posto, il primo motivo è infondato.
Per costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità, il potere di proporre impugnazione avverso la sentenza del giudice del lavoro non sorge in conseguenza della semplice lettura del dispositivo in udienza (salva l’eccezionale ipotesi prevista dall’art. 433, comma 2°, c.p.c., dell’appello con riserva dei motivi, che costituisce nondimeno facoltà e non obbligo per la parte soccombente), ma postula che la sentenza stessa sia stata depositata in cancelleria completa di motivazione, a norma degli artt. 430 e 438 c.p.c. (cfr. Cass. nn. 18162 del 2015, 7364 del 2022 e, da ult., 19775 del 2022), a meno che il giudizio non sia stato definito dando lettura del “dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”, ex art. 429, comma 1°, c.p.c., nel qual caso il termine c.d. lungo di decadenza per la proposizione della impugnazione, previsto dall’art. 327 c.p.c., deve essere individuato alla stessa data della udienza in cui è stato definito il giudizio, equivalendo tale lettura in udienza a pubblicazione della sentenza stessa (Cass. nn. 14724 del 2018 e 3394 del 2021). E poiché, nel caso di specie, è incontroverso che tanto non sia avvenuto, la stessa parte ricorrente riferendo che, a fronte del dispositivo letto all’udienza del 12.12.2017, la motivazione è stata depositata il 22.12.2017 (cfr. pag. 5 del ricorso per cassazione), il termine semestrale per l’impugnazione non poteva che decorrere da tale ultima data, con la conseguenza che affatto tempestivo doveva (e deve) ritenersi il gravame proposto dall’INPS in data 20.6.2018.
Il secondo e il terzo motivo possono invece esaminarsi congiuntamente, in considerazione dell’intima connessione delle censure svolte, e sono, considerati nel loro complesso, infondati.
Va premesso, al riguardo, che la costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha affermato che la preventiva presentazione della domanda amministrativa per il conseguimento di una data prestazione previdenziale costituisce un presupposto dell’azione, mancando il quale si determina l’improponibilità della domanda giudiziaria rilevabile anche d’ufficio in qualsiasi stato e grado del giudizio, salvo il giudicato interno (cfr. fra le numerosissime Cass. nn. 5149 del 2004, 20664 del 2011, 19767 del 2017, 6642 del 2020, 10745 del 2022), e ha ulteriormente precisato che, potendo rilevare il comportamento di non contestazione del convenuto solo nei riguardi dei fatti costitutivi della pretesa attorea, la mancanza della preventiva presentazione della domanda amministrativa deve sempre potersi rilevare d’ufficio, prescindendo dal comportamento processuale tenuto dall’ente previdenziale convenuto, atteso che la suddetta presentazione è configurabile come condizione di proponibilità della domanda giudiziaria e non quale elemento costitutivo della pretesa azionata in giudizio (v. in tal senso, tra le tante, Cass. nn. 11756 del 2004, 26146 del 2010, 4545 del 2018).
Vero è che un’isolata pronuncia di questa Corte ha sul punto operato una precisazione, affermando che, dovendosi distinguere la questione processuale della proponibilità della domanda giudiziale (rilevabile di ufficio) e le circostanze di fatto condizionanti la detta proponibilità, si dovrebbe piuttosto affermare che, ove il ricorrente abbia specificato la circostanza di aver presentato domanda amministrativa, precisando l’ente destinatario, la prestazione richiesta, la data e le modalità di presentazione, l’ente convenuto sarebbe certamente onerato della relativa contestazione, mancando la quale il fatto stesso dovrebbe ritenersi definitivamente comprovato, con conseguente irretrattabilità della questione concernente la proponibilità della domanda giudiziale (così Cass. n. 24103 del 2004); ma non è meno vero che, anche a voler dare continuità a tale (ripetesi, minoritario) indirizzo, la censura di parte ricorrente non meriterebbe ugualmente accoglimento, non risultando trascritto nel ricorso per cassazione né il contenuto della domanda che sarebbe stata illo tempore presentata all’INPS né il contenuto del ricorso introduttivo del giudizio e della memoria di costituzione dell’INPS, sia pure nella parte necessaria a dare alla censura di violazione del principio di non contestazione un non opinabile fondamento fattuale; e dovendo pertanto escludersi che la Corte di merito, rilevando il difetto di domanda amministrativa, sia incorsa in alcuna violazione del principio di non contestazione o del divieto di nova di cui all’art. 345 (rectius, 437, comma 2°) c.p.c., le censure di cui al secondo e al terzo motivo si rivelano infondate.
Del pari infondato è il quarto motivo: è sufficiente, sul punto, ricordare che il giudice di appello, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d’ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della lite, poiché la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale (cfr., fra le numerosissime, Cass. nn. 6259 del 2014, 11423 del 2016, 9064 del 2018, 27056 del 2021).
Il ricorso, conclusivamente, va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Tenuto conto del rigetto del ricorso, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in € 3.200,00, di cui € 3.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.