CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 novembre 2018, n. 28465
Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato – Mansioni di impiegata e responsabile amministrativo – Presunzione di gratuità – Superamento
Rilevato che
1.1. con ricorso al Tribunale di La Spezia C.B. conveniva in giudizio la M.P. di V.S. c. s.n.c., esercente attività di pesca, lavorazione e commercio dei relativi prodotti, al fine di ottenerne la condanna al pagamento delle retribuzioni non corrisposte dall’1/1/2003 al 30/9/2009 sul presupposto dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato ed in particolare dello svolgimento delle mansioni di impiegata e responsabile amministrativo;
1.2. il Tribunale respingeva la domanda;
1.3. la decisione era confermata dalla Corte d’appello di Genova;
riteneva la Corte territoriale, come già il Tribunale, che l’espletata istruttoria non fosse tale da superare la presunzione di gratuità derivante dall’essere stata, nelle specie, l’attività prestata in favore del legale rappresentante dell’appellata società di persone, con il quale C.B. per tutto il periodo controverso aveva vissuto more uxorio partecipando del tenore di vita garantitole dal partner;
rilevava, in particolare, che era rimasta incerta la dimensione quantitativa e qualitativa della prestazione e che non erano emersi elementi probatori univoci per ritenere che, a dispetto dell’instaurato menage familiare, l’attività svolta dalla B. avesse assunto le forme proprie del lavoro subordinato, non essendo risultata riscontrata la dedotta affermazione dello svolgimento di una prestazione lavorativa per cinque giorni alla settimana e per sei ore al giorno (deduzione che, peraltro, risultava anche prima facie del tutto inverosimile atteso che la società gestiva una sola imbarcazione impiegata nella pesca, che era disarmata per diversi mesi e che, in ogni caso, anche nel periodo del disarmo l’attività amministrativa era svolta dal legale rappresentante);
evidenziava che l’appellante nessuna specifica doglianza aveva mosso finché era durata la convivenza (pure protrattasi per diversi anni) e che la stessa asserita prestazione di lavoro era cessata contemporaneamente alla cessazione delle convivenza, il che era significativo della stretta correlazione ed interdipendenza tra l’attività dedotta e il menage familiare instaurato tra le parti, rafforzativa del convincimento circa la gratuità dell’opera;
2. avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale C.B. propone ricorso per cassazione fondato su due motivi;
3. la M.P. di V.S. c. s.n.c. resiste con controricorso;
4. non sono state depositate memorie.
Considerato che
1.1. con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ. in relazione alla violazione degli artt. 143 e ss. cod. civ., 230 bis cod. civ. nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 n. 5 ed ancora illogicità manifesta e violazione dell’art. 36 della Costituzione;
ad avviso della ricorrente la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto sussistente tra la B. e il legale rappresentante della società un rapporto anche solo similare a quello di coniugio laddove, nella specie, non vi era stata alcuna comunanza di vita e di interessi, ma una semplice convivenza, peraltro non spontanea e volontaria e senza alcuna partecipazione effettiva ed equa della convivente alle risorse della famiglia di fatto;
sostiene la B. che l’indifferenziato richiamo alla solidarietà familiare non possa costituire lo strumento per privare di ogni tutela il lavoro prestato in favore di persone legate da vincoli affettivi, favorendo così situazioni di ingiusto sfruttamento del lavoro all’interno del nucleo familiare, parimenti violando il dettato costituzionale;
assume, altresì, che trattandosi di prestazione resa nell’interesse di un’impresa familiare ex art. 230 bis cod. civ. non operi la presunzione di gratuità della prestazione medesima;
1.2. con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ. in relazione alla violazione dell’art. 2094 cod. civ., 230 bis cod. civ. nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 n. 5 ed illogicità manifesta;
sostiene che, se la dimostrazione della necessaria gratuità della prestazione era nel caso di specie del tutto mancata, viceversa era stato adempiuto da parte della ricorrente all’onere di provare gli elementi di cui all’art. 2094 cod. civ. ed in particolare il vincolo di soggezione al potere direttivo del legale rappresentante della società;
2. entrambi i motivi, da trattarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi, non meritano accoglimento;
2.1. la denuncia di omesso esame, comune sia al primo sia al secondo motivo, è inammissibile poiché, a termini dell’orientamento già espresso da questa Corte ed al quale si intende dare seguito, nell’ipotesi di “doppia conforme” prevista dal quinto comma dell’art. 348 ter cod. proc. civ. (disposizione applicabile ratione temporis – ex art. 54, co.2, d.l. n. 83/2012 – nel presente giudizio giacché l’appello è stato depositato nel 2013), il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 10 marzo 2018, n. 5528; Cass. 27 settembre 2016, n. 19001; Cass. 22 dicembre 2016, n. 26774);
nel caso in esame la decisione della Corte di merito, nel confermare integralmente la sentenza del Tribunale, ha condiviso la valutazione sui fatti compiuta dal giudice di prime cure sia con riguardo alla sussistenza di una relazione sentimentale tra la ricorrente e il legale rappresentante della società e di una effettiva comunanza di affetti ed interessi sia con riguardo alla mancanza di elementi probatori per superare la presunzione di gratuità;
l’adesione del Giudice di appello rispetto al giudizio di fatto espresso dal Tribunale rende evidente come quest’ultimo costituisca il fondamento anche della decisione di rigetto di cui al secondo grado, rispetto alla quale non è stata formulata dalla ricorrente alcuna differente e opposta allegazione circa un’eventuale difformità di motivazione nei due gradi di merito;
2.2. i rilievi sono anche intrinsecamente contraddittori: da una parte la ricorrente esclude l’esistenza di una convivenza more uxorio intesa come comunanza di vita e di interessi e dall’altra pretende l’applicabilità dell’art. 230 bis cod. civ. richiamando la giurisprudenza di questa Corte che ritiene tale norma utilizzabile anche per le convivenze more uxorio;
2.3. inoltre la questione della sussistenza di un’impresa familiare (per l’incompatibilità dell’esercizio di un’impresa familiare con la disciplina societaria v. in ogni caso Cass., Sez. U., 6 novembre 2014, n. 23676) non risulta compresa nel thema decidendum del giudizio di appello; né la ricorrente ha allegato l’avvenuta sua deduzione dinanzi al giudice di merito, specificando in quale atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, il che rende la censura inammissibile per essere preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio (v. ex multis Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430; Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675); peraltro neppure si evince se la s.n.c. fosse costituita solo dai soggetti legati dal rapporto di convivenza more uxorio;
2.4. per il resto, ad onta delle denunciate violazioni di legge va osservato che i motivi tendono, in realtà, ad un riesame del merito; la Corte d’appello ha ritenuto condivisibile l’intero impianto argomentativo del Tribunale e dunque anche il passaggio in cui è evidenziato che era risultata provata una effettiva comunanza di vita e di interessi;
2.5. la dedotta violazione dell’art. 2094 cod. civ. in relazione alla ritenuta esclusione della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato sulla base di un’erronea ricognizione del materiale probatorio postula, poi, l’erronea mancata sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge, mediante specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla Corte regolatrice di adempiere al proprio compito istituzionale di verifica del fondamento della violazione denunziata (v. Cass. 12 gennaio 2016, n. 287; Cass. 10 dicembre 2014, n. 25419; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010);
ed allora il motivo che pretenda di desumere tale violazione dall’erronea valutazione del materiale probatorio è già in contrasto con le suddette indicazioni;
peraltro, la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro è censurabile in sede di legittimità soltanto limitatamente alla scelta dei parametri normativi di individuazione della natura subordinata o autonoma del rapporto, mentre l’accertamento degli elementi, che rivelino l’effettiva presenza del parametro stesso nel caso concreto attraverso la valutazione delle risultanze processuali e che sono idonei a ricondurre le prestazioni ad uno dei modelli, costituisce apprezzamento di fatto che, se immune da vizi giuridici e adeguatamente motivato, resta insindacabile in Cassazione (v. Cass. 27 luglio 2007, n. 16681; Cass. 23 giugno 2014, n. 14160);
nel caso in esame il percorso argomentativo della Corte territoriale a sostegno della ritenuta insussistenza di subordinazione è del tutto logico e coerente con le premesse in fatto, così da non meritare le censure che in questa sede vengono rivolte;
3. alla stregua di tali considerazioni, il ricorso va respinto;
4. le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza della ricorrente e si liquidano come da dispositivo;
5. va dato atto dell’applicabilità dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, co. 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13.
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