CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 marzo 2019, n. 7064
Licenziamento per giusta causa – Illegittimità – Accertamento giudiziale – Reintegrazione nel posto di lavoro
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Potenza, confermando la sentenza del Tribunale della medesima sede, ha – con sentenza n. 104 del 6.7.2017 – respinto la domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa intimato da F.M. s.r.l. (già S. s.p.a.), in data 30.4.2008, a A.F., addetto a mansioni di sorvegliante della struttura aziendale, per sottrazione dalla pompa di erogazione del distributore interno alla società di carburante caricato, in una tanica di circa 25 litri, sull’autovettura.
2. La Corte respingeva l’appello proposto dal lavoratore confermando la declaratoria di legittimità del licenziamento all’esito della prova testimoniale espletata avanti al Tribunale (dovendo ritenersi correttamente respinta l’eccezione di decadenza dall’escussione dei testimoni della società sollevata tardivamente dal lavoratore) e ritenuto ricostituito regolarmente il rapporto di lavoro – seppur mediante collocamento in cassa integrazione guadagni ordinaria – a seguito di un precedente licenziamento, dichiarato giudizialmente illegittimo.
3. Per la cassazione di tale sentenza il F. ha proposto ricorso affidato a tre motivi. La società ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione degli artt. 112, 250, 420 cod.proc.civ. nonché 103 e 104 disp.att. cod.proc.civ. e 2697 cod.civ. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che la società – nel corso del giudizio di primo grado – era incorsa in decadenza quanto all’escussione del proprio testimone, eccezione sollevata dalla difesa del lavoratore avanti al Tribunale all’udienza del 5.2.2013 (successiva all’udienza fissata per l’escussione dei testimoni di entrambe le parti) e non affrontata nella sentenza del Tribunale che si è avvalso della deposizione del suddetto testimone.
2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente ritenuto ricostituito il rapporto di lavoro (a seguito di pronuncia giudiziale di illegittimità, per vizi formali, di un precedente licenziamento) mediante riammissione del lavoratore in azienda e contestuale collocazione in cassa integrazione guadagni, dovendosi, invece, ritenere violato l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro per mancato conferimento delle medesime mansioni (di sorvegliante) svolte prima del recesso.
3. Con il terzo motivo si denunzia violazione dell’art. 92, comma 2, cod.proc.civ. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, provveduto ad una condanna alle spese di lite, ricorrendo, invece, gli estremi per una compensazione (alle condizioni introdotte dall’art. 13 del d.l. n. 132 del 2014, convertito in legge n. 162 del 2014), in quanto le questioni di diritto emerse nel corso del giudizio di secondo grado sicuramente presentavano un quid novi per l’appellante.
4. Il primo motivo è inammissibile.
La censura è prospettata con modalità non conformi al principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno, trascrivere nel ricorso il contenuto dei verbali delle udienze, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi solo così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del suddetto principio dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (Cass. 12 febbraio 2014, n. 3224; Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726).
Invero, la Corte distrettuale rileva l’inoperatività della decadenza dall’escussione dei testimoni ammessi considerato che alla “udienza in origine fissata per l’assunzione della prova le parti concordemente si limitano a chiedere, puramente e semplicemente, il rinvio della causa ad un’udienza successiva e il giudice accorda tale rinvio”.
Il ricorrente non ha trascritto (nemmeno per estratto) il contenuto dei verbali delle udienze del 17.7.2012 e del 5.2.2013 impedendo, pertanto, alla Corte di verificare il comportamento processuale delle parti ed il contenuto della eccezione di decadenza sollevata dalla difesa del lavoratore, tenuto altresì conto della previsione dell’interesse della controparte di escutere i testimoni della parte che non ha provveduto all’intimazione senza giustificato motivo, previsione contenuta nell’art. 104 disp.att. cod.proc.civ. (e degli artt. 208 e 255 cod.proc.civ.) e fondata sul principio dispositivo del processo.
Questa Corte ha, peraltro, già affermato che spetta esclusivamente al giudice del merito, in base al disposto degli art. 208 cod.proc.civ. e art. 104 disp. att. cod.proc.civ., valutare se sussistono giusti motivi per revocare l’ordinanza di decadenza della parte dal diritto di fare escutere i testi per mancata comparizione all’udienza all’uopo fissata, ovvero per mancata citazione degli stessi, esulando dai poteri della Corte di Cassazione accertare se l’esercizio di detto potere discrezionale sia avvenuto in modo opportuno e conveniente (Cass. n. 14098 del 2006, Cass. n. 5119 del 1990, 2745).
In ordine alla censura di omessa pronuncia in ordine all’eccezione di decadenza, va richiamato il principio di diritto ripetutamente affermato da questa Corte in base al quale non ricorre il vizio di omessa pronuncia quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte. (Cass. n. 20718 del 2018, Cass. n. 29191 del 2017).
5. Il secondo motivo di ricorso non è fondato.
L’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro presuppone la persistenza del rapporto e quindi l’inidoneità del licenziamento illegittimo (nella specie, inefficace per vizi di forma) a produrre il suo effetto estintivo. Invero, questa Corte ha ripetutamente affermato – con riguardo al testo dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 precedente la novella legislativa del 2012 – che il rapporto di lavoro si ricostituisce a seguito della pronuncia di illegittimità del licenziamento, mentre l’inottemperanza (o l’inesatto adempimento) all’ordine di reintegrazione, non essendo condotta coercibile, implica la scelta datoriale di non utilizzare le prestazioni del lavoratore e determina il diritto al risarcimento del danno (Cass. Sez. Un. n. 2925 del 1988, Cass. n. 4881 del 1998, Cass. n. 8745 del 2000). L’accertamento giudiziale dell’illegittimità del licenziamento ed il conseguente ordine di reintegrazione ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, comportano la ricostituzione “de iure” del rapporto di lavoro il quale va considerato, quindi, come mai risolto, a prescindere dal concreto ripristino del rapporto di lavoro (cfr. in materia di dies a quo per l’esercizio dell’opzione ex art. 18, comma 5, della legge n. 300, Cass. n. 25210 del 2006 e da ultimo Cass. n. 2139 del 2018).
6. Il terzo motivo di ricorso è infondato.
L’assetto normativo in materia di regolazione di spese di lite applicabile alla fattispecie de qua è quello risultante dall’art. 45, comma 11, della legge n. 69 del 2009, posto che il procedimento è stato introdotto in data 21.1.2011, dunque precedente all’11.12.2014 (data di entrata in vigore della modifica dell’art. 92 cod.proc.civ. per effetto dell’art. 13, comma 1, del d.l. n. 132 del 2014 convertito nella legge n. 162 del 2014).
Questa Corte ha già affermato che le «gravi ed eccezionali ragioni» previste dall’art. 92 comma 2 c.p.c. secondo la formulazione introdotta dalla l. n. 69 del 2009 riguardano specifiche circostanze e aspetti della questione decisa e tali non possono ritenersi né la posizione di debolezza del lavoratore – che è condizione interna alla maggior parte dei rapporti di lavoro, derivante da una disparità normalmente esistente sul piano economico-sociale e, in quanto tale, indipendente dal conflitto proprio della singola controversia -, né la buona fede nell’agire in giudizio, trattandosi di stato soggettivo che naturalmente assiste la determinazione di adire la via giudiziale, come è dato desumere dalla previsione di responsabilità aggravata (art. 96 c.p.c.) per il soggetto che, invece, agisca o resista in giudizio, con mala fede o colpa grave (Cass. n. 16581 del 2017). In particolare, ricorrono le «gravi ed eccezionali ragioni» quando la decisione sia stata assunta in base ad atti o argomentazioni esposti solo in sede contenziosa, a fronte della novità o dell’oggettiva incertezza delle questioni di fatto o di diritto rilevanti nel caso specifico, ovvero dell’assenza di un orientamento univoco o consolidato all’epoca della insorgenza della controversia, in presenza di modifiche normative o pronunce della Corte Costituzionale o della Corte di Giustizia dell’Unione Europea intervenute, dopo l’inizio del giudizio, sulla materia.
La Corte Costituzionale, recentemente intervenuta con pronuncia di illegittimità costituzionale del testo dell’art. 92 cod.proc.civ. come novellato dall’art. 13, comma 1, del d.l. n. 132 del 2014 convertito nella legge n. 162 del 2014, ha precisato – ampliando i casi suscettibili di compensazione delle spese di lite ad analoghe situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, parimenti riconducibili a «gravi ed eccezionali ragioni» – che si tratta di ipotesi di sopravvenuto mutamento dei termini della controversia senza che nulla possa addebitarsi alle parti: una norma di interpretazione autentica o più in generale uno ius superveniens, soprattutto se nella forma di norma con efficacia retroattiva; una pronuncia del giudice delle legge, in particolare se di illegittimità costituzionale; una decisione di una Corte europea; una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea; altre analoghe sopravvenienze. Insomma, la Corte Costituzionale ha ulteriormente chiarito che i casi che presentano i presupposti di “gravità” ed “eccezionalità” non sono iscrivibili in un rigido catalogo di ipotesi nominate, sono necessariamente rimessi alla prudente valutazione del giudice della controversia, e debbono integrare il carattere di un evento che si presenta di rado rispetto alla normalità e che abbia prodotto effetti concreti sull’esito del processo o sul suo svolgimento.
Nella presente fattispecie non ricorre alcuno dei requisiti innanzi indicati tali da consentire la compensazione delle spese di lite.
In ogni caso, questa Corte ha affermato che mentre l’esercizio del potere di disporre la compensazione è stato nel tempo sottoposto ad un controllo sempre più stringente – (dalla formulazione originaria dell’art. 92 c.p.c.; alla riforma contenuta nella L. 28 dicembre 2005, n. 263, “altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione”; a quella della L. 18 giugno 2009, n. 69, “altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione”; infine, a quella del d.l. n. 132 del 2014) – con conseguente sindacabilità della motivazione posta alla base dell’esercizio di quel potere, il mancato esercizio dello stesso non può essere dedotto quale motivo di illegittimità della pronuncia di merito che ha applicato il principio della soccombenza (Cass. n. 22224 del 2014).
7. In conclusione, il ricorso va respinto. Le spese di lite sono liquidate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ. con esclusione dell’importo di cui alla legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), in considerazione dell’ammissione del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
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