CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 05 aprile 2019, n. 9630
Imposte indirette – IVA – Accertamento – Versamento – PVC – Contenzioso tributario
Svolgimento del processo
La A. SrL proponeva ricorso nei confronti della Agenzia delle Dogane di Napoli contro l’invito di pagamento, notificato il 7.10.2011, che, sulla base delle risultanze del processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza di Bari, aveva accertato che la predetta società aveva effettuato, in violazione dell’art. 50 bis del D.L. n. 331 del 1993, convertito dalla legge n. 427 del 1993, contrariamente a quanto dichiarato con le bollette doganali, sette operazione di importazione di merce che non risultava essere mai stata custodita e/o gestita dal deposito IVA gestito da S.A. Spa, atteso che il predetto deposito veniva in realtà utilizzato in maniera puramente “virtuale” essendo la merce di fatto già nella disponibilità della ditta acquirente fin dal momento dell’importazione ed aveva in consguenza accertato l’omesso versamento dell’IVA ai sensi dell’art. 70 del DPR n. 663 del 1972 ed irrogato le conseguenti sanzioni. La Guardia di Finanza aveva infatti riscontrato, attraverso le dichiarazioni verbalizzate del trasportatore, quelle del legale rappresentante della società e le fatture emesse, che avevano consentito di ricostruire analiticamente il percorso seguito dalla merce dalla dogana sino alla destinazione finale, non solo che la merce non era mai transitata, custodita o estratta nel deposito doganale o in luoghi limitrofi o adiacenti, ma che era stata consegnata direttamente all’importatore presso i suoi magazzini, il che rendeva evidente che la documentazione di quella che appariva una immissione di merci nei depositi IVA era stata tenuta con intento evasivo al solo scopo di evitare l’assoggettamento ad IVA della merce importata.
Con sentenza n. 503/17/2012 la Commissione Tributaria Provinciale di Napoli, per quanto ancora interessa, accoglieva il ricorso della società A., incentrato su vizi formali e sostanziali dell’atto impugnato, per il rilievo, ritenuto assorbente, che la Amministrazione Finanziaria non aveva fornito adeguata prova circa la mancata effettuazione delle operazioni di deposito da parte della Spa S.A. anche perché la legge non fissava alcun termine per il mantenimento in deposito della merce.
Investita dall’appello dell’Ufficio delle Dogane di Napoli 1 che aveva lamentato l’errata applicazione da parte del primo giudice della normativa in materia di IVA — cui la società A. aveva opposto sul punto che l’art. 16 comma 5 bis del DL n. 185 del 2008 aveva risolto tutte le questioni dibattute in causa in presenza della regolare tenuta del registro “deposito IVA” -, la Commissione Tributaria Regionale della Campania, con sentenza n. 4227/33/2014, depositata il 6.5.2014, accoglieva l’appello dell’Ufficio, ritenendo che, ai fini della applicazione della disciplina agevolativa di cui all’art. 50 bis del D.L. n. 331 del 1993, convertito dalla legge n. 427 del 1993, in virtù del quale il regime del deposito IVA consentiva di effettuare tutte le operazioni relative ai beni ad esso vincolati senza assoggettamento ad IVA, imponesse la introduzione materiale e non soltanto documentale della merce, sia pure con riguardo anche agli spazi adiacenti o limitrofi del deposito nella disponibilità del gestore che poteva esercitarvi un potere di custodia e di manipolazione usuale e che ciò fosse stato ribadito anche dalle successive disposizioni di cui all’art. 16, comma 5 bis, del dl. n. 185 del 2008, convertito dalla legge n. 2/2009 e al d.l. n. 179 del 2012 coordinato con la legge di conversione n. 221 del 2012 che, estendendo il concetto di deposito agli spazi limitrofi, avevano rafforzato il convincimento che non fosse possibile alcuna sospensione dell’imposta sui beni introdotti nel territorio dello stato senza il previo passaggio nei depositi doganali, dovendovi invece essere sempre lo stoccaggio, pur breve, ma controllato e reale, da realizzarsi mediante consegna delle merci al depositario; con la conseguenza che nella specie doveva essere confermato l’invito di pagamento impugnato, essendo rimasto provato che erano mancati gli adempimenti a carico del depositario, mentre vi era, al contrario, la prova che le merci, avvenuto lo sbarco, erano state trasportate direttamente nei magazzini dell’importatore sulla base degli elementi probatori raccolti attraverso le verifiche della Guardia di Finanza confluite nel processo verbale di constatazione, alla luce in particolare delle dichiarazioni del trasportatore che erano caratterizzate dalla spontaneità a fronte dei rischi annessi rispetto al loro contenuto, confortate dalle risultanze delle fatture e dalle stesse dichiarazioni del legale rappresentante della società ricorrente, nonché dal rilievo che la pretesa data di estrazione della merce dal deposito risultava essere stata effettuata addirittura in periodo antecedenti alla data di trasporto.
Contro la sentenza di appello, non notificata, ha proposto ricorso il contribuente.
La Agenzia delle Dogane si è costituita tardivamente al solo fine della eventuale partecipazione alla udienza di discussione della causa.
Ragioni della decisione
1. Con un unico motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art.. 50 bis del D.L. n. 331 del 1993, convertito dalla legge n. 427 del 1993 e dell’art. 16 comma 5 bis del D.L. n. 185 del 2008, nonché violazione del principio di neutralità dell’IVA, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per avere la sentenza impugnata erroneamente ritenuto che la mancata introduzione “fisica” delle merci importate dalla società ricorrente nel deposito fiscale comportasse una evasione dell’IVA e la richiesta del nuovo versamento attraverso l’invito di pagamento formulato dalla Agenzia delle Dogane, benché non vi fosse stata sottrazione dell’IVA, poiché, al momento della immissione nel consumo, la società aveva provveduto al pagamento dell’IVA mediante autofatturazione, avvalendosi del meccanismo della “inversione contabile”. La sentenza impugnata aveva fatto in proposito erronea applicazione della norma di interpretazione autentica contenuta nel comma 5 bis dell’art. 16 del D.L. n. 185 del 2008, nella versione da ultimo modificata dall’art. 44 del D.L. n. 179 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 221 del 2012, per cui non erano soggette alla imposta tutte le prestazioni di servizio indicate alla lettera h del comma 4 dell’art. 50 bis anche se rese negli spazi limitrofi, ma anche dell’art. 50 bis, comma 6, del D.L. n. 331 del 1993 che stabiliva che l’IVA sugli acquisti di merce importata, destinata all’introduzione in deposito IVA, anche se “virtuale” (ancorchè irrituale), sconta l’imposta all’atto della estrazione, come d’altronde stabilito da alcune sentenze della Corte di Giustizia con riguardo alla equiparazione del metodo della inversione contabile a quello dell’assolvimento dell’imposta e da successive sentenze della Corte di Cassazione per cui, se l’imposta è stata assolta al momento della estrazione dei beni dal deposito doganale anziché all’atto della emissione della bolletta doganale di importazione, si tratterebbe comunque di IVA tardivamente assolta in sede di emissione della autofattura, cosicché evi l’atto impugnato si sarebbe posto in violazione del principio di neutralità dell’IVA.
2. Il motivo è fondato nei limiti che seguono.
3. La questione dell’applicazione del regime di cui all’art. 50 bis comma 4 lett.b) d.l.n.331/1993 alle ipotesi di immissione di beni extra UE in libera pratica senza la materiale introduzione della merce nel deposito fiscale ha trovato risposta nella giurisprudenza di questa Corte, che ha ritenuto che l’introduzione della merce d’importazione nel deposito IVA costituisca il presupposto per l’esenzione dall’IVA all’importazione su merci comunitarie, parificate dal Reg. Cee 2932/92 a merci non comunitarie immagazzinate (art. 98, lett. a) e b), codice doganale comunitario), fruenti dell’esenzione daziaria perché vincolate al regime del deposito doganale, stabilito nell’autorizzazione. Ragion per cui, essendo il presupposto per fruire di tale esenzione da dazi ed IVA costituito proprio da quell’immagazzinamento, consegue che, in difetto del presupposto, l’IVA all’importazione è dovuta (cfr. Cass.n.12581/2010 e le successive sentenze, depositate tra il 19 ed il 21 maggio 2010, nn. 12262, 12275, 12579, 12580). Si è poi aggiunto che tale conclusione non risulta modificata dall’art. 16, comma 5-bis, del D.L. n. 185/2008, come convertito dalla legge n. 2/2009, secondo cui «l’art. 50-bis, comma 4, lett. h), del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 ottobre 1993, n. 427. Ciò perché “…considerare non incidenti sulla introduzione in deposito le prestazioni di servizi (comprese le operazioni di perfezionamento e le manipolazioni usuali) non interferisce sulla introduzione medesima, propriamente intesa: in locali limitrofi possono eseguirsi attività accessorie – senza incidenza negativa sull’introduzione -, ma non è dato equiparare ad essa una sistemazione «in locali limitrofi ai depositi IVA» …, perché ciò equivarrebbe ad eliminare una seria e coerente nozione di deposito IVA” (v, in particolare, Cass. n.12581/2010).
3.1. Con il suddetto indirizzo giurisprudenziale era stata pure esclusa la dedotta duplicazione di imposta in relazione all’utilizzazione del meccanismo dell’autofatturazione in sede di estrazione dei beni virtualmente inseriti nel deposito IVA, non potendo l’avvenuto assolvimento con le modalità anzidette dell’IVA interna compensare il mancato pagamento dell’IVA all’importazione.
Ed in questa direzione era stata sottolineata la diversità del sistema di accertamento dei due tributi, poiché l’IVA all’importazione è diritto di confine che viene accertato e riscosso nel momento in cui si verifica il presupposto impositivo (importazione), con riversamento di una quota parte alla Comunità europea, mentre l’IVA nazionale viene autoliquidata e versata in relazione alla massa di operazioni attive e passive poste in essere dal contribuente ed inserite nella dichiarazione periodica. Per tali ragioni si era ritenuto che il richiamo al sistema della c.d. autofatturazione di cui al comma 6 dell’art. 50 bis non assumeva alcuna incidenza rispetto all’obbligo di pagamento dell’IVA all’importazione nell’ipotesi di mancato immagazzinamento della merce in deposito IVA, in quanto detto meccanismo integra una vera e propria << operazione “neutra”, di compensazione dell’IVA nazionale a debito con quella a credito. E poiché il presupposto per fruire di tale esenzione da dazi ed IVA era costituito proprio da quell’immagazzinamento…, conseguiva che, in difetto del presupposto, l’IVA all’importazione era dovuta>>.
3.2. Su tale orientamento si è innestata la decisione resa dalla Corte di giustizia il 17 luglio 2014 nel caso Equoland (causa C-272/13) che ha, in primo luogo, confermato la piena compatibilità della legislazione e della giurisprudenza interna in tema di obbligatorietà dell’inserimento effettivo della merce nel deposito IVA, riconoscendo ai singoli Stati la possibilità di determinare le modalità con le quali fare operare il sistema del deposito fiscale dal quale derivare il beneficio dell’esenzione del pagamento dell’IVA ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1, della sesta direttiva CEE.
3.3. Secondo la Corte di Giustizia “…spetta agli Stati membri determinare le formalità che il soggetto passivo deve adempiere al fine di poter beneficiare dell’esenzione dal pagamento dell’IVA in base alla suddetta disposizione.” Si è poi aggiunto che “…il legislatore italiano ha previsto che, al fine di poter beneficiare dell’esenzione dal pagamento dell’IVA all’importazione, il soggetto passivo abbia l’obbligo di introdurre fisicamente la merce importata nel deposito fiscale, poiché si presume che tale presenza fisica garantisca la successiva riscossione dell’imposta.“
Secondo la Corte di Giustizia l’obbligo di inserire le merci nel deposito fiscale ha “carattere formale”, ma non per questo lo stesso è privo di rilevanza, in quanto “…è atto a permettere di conseguire efficacemente gli obiettivi perseguiti, vale a dire garantire un’esatta riscossione dell’IVA nonché evitare l’evasione di tale imposta e, in quanto tale, non eccede quanto necessario per conseguire i suddetti obiettivi”. In conseguenza la Corte di Giustizia ha stabilito che “L’articolo 16, paragrafo 1, della sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme -, come modificata dalla direttiva 2006/18/CE del Consiglio, del 14 febbraio 2006, nella sua versione risultante dall’articolo 28 quater della sesta direttiva, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale che subordini la concessione dell’esenzione dal pagamento dell’imposta sul valore aggiunto all’importazione, prevista da tale normativa, alla condizione che le merci importate e destinate a un deposito fiscale ai fini di tale imposta siano fisicamente introdotte nel medesimo“.
4. Sotto tale primo profilo sono quindi erronee le censure rivolte con il ricorso in merito alla applicazione dell’art. 50 bis del dl. n. 331 del 1993 e della successiva norma interpretativa di cui all’art. 16 comma 5 bis del dl. n. 185 del 2008 (secondo cui “La lettera h) del comma 4 dell’articolo 50-bis del decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, si interpreta nel senso che le prestazioni di servizi ivi indicate, relative a beni consegnati al depositario, costituiscono ad ogni effetto introduzione nel deposito”) poiché anche la norma interpretativa non ha modificato la necessità della introduzione fisica nel deposito. E pure la Corte di Giustizia ha stabilito che la Sesta Direttiva sopra citata “deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che subordini la concessione dell’esenzione dal pagamento dell’imposta sul valore aggiunto all’importazione, prevista da tale normativa, alla condizione che le merci importate e destinate a un deposito fiscale ai fini di tale imposta siano fisicamente introdotte nel medesimo”.
4.1. Facendo applicazione dei superiori principi al caso di specie, è infatti senz’altro conforme a legge la statuizione della sentenza della CTR della Campania, impugnata nel presente giudizio, che ha statuito la necessità dell’effettivo inserimento della merce nel deposito IVA, risultante dallo spirito e dalle finalità del regime agevolativo introdotto dall’art.50 bis u.c., al cui interno il riferimento specifico alla consegna dei beni non può non reclamare l’effettiva consegna fisica della merce in sede di deposito, essa collegandosi ai concetti di custodia-comma 1-giacenza dei beni in deposito-comma 3- ed estrazione- comma 6-, così come confermato dalla pronuncia della Corte di Giustizia nella sentenza Equoland che ha riconosciuto la compatibilità della legislazione interna rispetto al quadro comunitario, nei termini sopra descritti e dall’indirizzo di questa Corte, sul tema della necessità di una custodia “reale” della merce nel deposito IVA. Ed invero, la necessità dell’esistenza di appositi spazi destinati alla custodia dei beni si desume, anzitutto, dall’esplicito riferimento ai locali contenuto nel comma 1 dell’art. 50-bis, nonché dalla necessità ivi prevista – comma 4, lett. a)- che i beni vengano materialmente introdotti nel deposito. Anche il comma 6, laddove descrive le operazioni di “estrazione” dei beni dal deposito IVA ai fini della loro utilizzazione presuppone ineludibilmente il materiale inserimento della merce in deposito. Solo in questo senso può essere interpretato detto comma laddove prende in considerazione gli acquisiti operati sui beni prima dell’estrazione “durante la giacenza fino al momento dell’estrazione”. E’ poi il comma 5 dell’art.50 bis a prevedere che i controlli doganali si effettuino attraverso la “vigilanza dell’impianto”.
4.2. Non è quindi sufficiente, come afferma la ricorrente, la mera presa in carico documentale della merce nell’apposito registro previsto dall’art. 50-bis, comma 3, mentre deve ritenersi che in caso di mancato immagazzinamento della merce si realizza una vera e propria sottrazione della merce dalla quale scaturisce l’immediata insorgenza dell’obbligazione fiscale concernente l’IVA all’importazione.
4.3. In mancanza della regolare introduzione nel deposito IVA, la merce non poteva quindi che considerarsi come oggetto di un’importazione definitiva ai sensi dell’art. 67 del D.P.R. n. 633/1972 giustificando l’operato dell’Ufficio doganale in punto di rettifica della dichiarazione di immissione in libera pratica. E non è persuasivo neppure il richiamo agli ulteriori interventi normativi che si sono susseguiti rispetto alle ius superveniens di cui all’art. 16, comma 5-bis, del D.L. n. 185/2008, come convertito dalla legge n. 2/2009- già preso in considerazione dalle sentenze del maggio 2010 di questa Corte per escludere che lo stesso avesse introdotto la figura del c.d. deposito virtuale, all’art. 8, comma 21 bis, D.L. n. 16/2012, inserito dalla legge di conversione n. 44/2012 e all’art. 34, comma 44, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, poiché, come ritenuto da questa Corte con orientamento ugualmente consolidato, l’innesto delle modifiche introdotte alla fine dell’anno 2012 non ha modificato il quadro dei principi giurisprudenziali resi da questa Corte sopra esposti, né consente di ritenere la rilevanza concreta della lett.h) del c.4 dell’art.50 bis cit. nel presente procedimento, ove la contestazione mossa dall’ufficio era stata quella del mancato immagazzinamento della merce nel deposito IVA, alla quale aveva resistito la ricorrente ritenendo sufficiente l’esistenza di un mero deposito “virtuale” collegato alla consegna formale della merce al depositario.
5. Soluzione diversa merita invece l’esame del secondo profilo del motivo di ricorso, laddove la ricorrente invoca la violazione del principio di neutralità dell’IVA alla luce della interpretazione che ne ha dato la Corte di Giustizia poiché, in effetti, la sentenza Equoland, in merito alle ricadute prodotte dall’assolvimento dell’IVA con il sistema dell’autofatturazione che l’importatore e/o il titolare del deposito svolgevano dopo il passaggio virtuale in deposito all’atto dell’estrazione dei beni, è giunta a conclusioni opposte a quelle espresse in passato da questa Corte.
5.1. La Corte di Giustizia, con la sentenza Equoland più volte citata ha infatti ritenuto che l’Amministrazione finanziaria non può pretendere il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto all’importazione dal soggetto passivo che, non avendo materialmente immesso i beni nel deposito fiscale, si è illegittimamente avvalso del regime di sospensione di cui all’art. 50 bis, comma 4, lett. b), del dl. n. 331 del 1993, convertito, con modificazioni, nella legge n. 427 del 1993, qualora costui abbia già provveduto all’adempimento, sia pur tardivo, dell’obbligazione tributaria nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile mediante un’auto fatturazione ed una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite, atteso che la violazione del sistema del versamento dell’IVA, realizzata dall’importatore per effetto dell’immissione solo virtuale della merce nel deposito, ha natura formale e non può mettere, pertanto, in discussione il suo diritto alla detrazione. E di ciò ha preso atto questa Corte con le pronunce Sez. 6 – 5, Sentenza n. 17815 del 08/09/2015 Rv. 636442— 01; Sez. 6- 5, Decreto n. 10911 del 26/05/2016 Rv. 639994 — 01 e successive conformi.
6. Ne consegue che i principi espressi dal giudice di Lussemburgo, in relazione alla natura delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia, aventi efficacia erga omnes rispetto a vicende omogenee rispetto a quelle esaminate in sede di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE e alla rilevabilità anche ex officio delle questioni che involgono l’applicazione del diritto UE al fine di evitare possibili contrasti fra diritto interno e diritto sovranazionale (Cass. n. 13065/2006; Cass., 20 luglio 2007 n. 16130) impongono nella specie, dovendosi dare continuità all’indirizzo consolidato già affermato nelle sentenze sopra indicate, di fare applicazione del suddetto principio che non risulta preso in esame dalla sentenza di appello.
6.1. La sentenza impugnata, al contrario di quanto assume il ricorrente — che sostiene, a pagina 5 del ricorso, essere pacifico in causa che non vi è stata sottrazione dell’IVA perché al momento della immissione in consumo la società A. avrebbe provveduto al pagamento dell’IVA mediante autofatturazione, avvalendosi del meccanismo della inversione contabile — non ha infatti preso in esame tale questione e d’altronde lo stesso ricorso, a pagina 8, laddove riporta le difese dalla Agenzia nel giudizio di merito, sostiene che la Agenzia avrebbe addotto tesi contrastanti e cioè, da un lato, che l’IVA sarebbe stata evasa e dall’altro che l’IVA doveva essere anticipata.
7. Ciò impone la cassazione con rinvio della sentenza impugnata spettando al giudice del rinvio verificare se l’autofatturazione dell’IVA interna all’atto dell’estrazione della merce solo virtualmente inserita nel deposito IVA -con registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite del soggetto passivo- è effettivamente avvenuta ed è idonea a determinare l’assolvimento, sia pur tardivo, dell’IVA all’importazione, secondo quanto prescritto dalla Corte di Giustizia nella sentenza Equoland per come sopra riportata.
8. In conclusione, il motivo di ricorso va accolto per quanto di ragione e la sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altra sezione della CTR della Campania anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Decidendo sul ricorso proposto da A. s.r.l. Cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della CTR della Campania anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
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