CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 giugno 2019, n. 15639
Tributi – Dazi – Importazioni – Merce soggetta a dazi antidumping – Errata dichiarazione in dogana – Accertamento per il recupero del cd. dazio esteso e della maggiore Iva – Responsabilità solidale del legale rappresentante della società – Esclusione
Rilevato che
– l’Agenzia delle dogane contestava a R.G., quale responsabile solidale nella qualità di legale rappresentante della società I. Srl, la non corretta dichiarazione della merce importata per gli anni 2009 e 2010 (parti metalliche di biciclette), sottratta all’applicazione del dazio antidumping, ed emetteva avvisi di accertamento per il recupero del cd. dazio esteso e della maggiore Iva;
– il contribuente, in particolare, lamentava la nullità degli avvisi per mancanza di motivazione, l’inesistenza di una obbligazione solidale a suo carico e, comunque, l’infondatezza della pretesa;
– l’impugnazione, rigettata dal giudice di primo grado, era accolta dalla CTR della Lombardia;
– l’Agenzia delle dogane ricorre per cassazione con un motivo, cui resiste il contribuente con controricorso;
Considerato che
– va esaminata, preliminarmente, l’eccezione di giudicato interno in relazione alla dedotta declaratoria, da parte della CTR, della nullità degli atti per vizio di motivazione, che è infondata;
– la sentenza impugnata, infatti, si limita a rilevare, dapprima, che «il fatto che sia stata fatta segnalazione … alla Procura della Repubblica non implica automaticamente che vi sia colpevolezza e che quindi siano legittimi gli atti impugnati» per precisare, poi, che delle asserite segnalazioni alla Procura della Repubblica per il reato di contrabbando manca ogni riferimento negli avvisi di accertamento, univocamente incentrati sull’art. 201 CDC;
– reputa, inoltre, che tale richiamo, rispetto alle asserite violazioni penali, non fosse «di per sé sufficiente a rendere legittimo l’atto notificato, mancando di una chiara motivazione che consenta al contribuente di difendersi adeguatamente», concludendo, peraltro, che «soprattutto» mancava «quella prova di conoscenza dei dati inseriti in dichiarazione di cui all’articolo stesso»;
– non vi è, dunque, una statuizione di nullità degli avvisi di accertamento, ma, più semplicemente, una ricognizione della contestazione operata e dei fatti effettivamente a fondamento della stessa, seguita da una valutazione di infondatezza della pretesa;
– l’unico motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, identificato nella gestione da parte del contribuente, in qualità di presidente del consiglio di amministrazione, della società “impartendo le direttive necessarie per il raggiungimento dell’oggetto sociale, coordinando, altresì, l’attività dell’ufficio Commerciale”;
– il motivo è infondato;
– occorre premettere che, in relazione al nuovo testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014), l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; la parte ricorrente è tenuta ad indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c., e art. 369, secondo comma, n. 4, c.p.c. – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso;
– orbene, nella vicenda in esame il fatto storico è costituito dall’esistenza del potere di gestione del consiglio di amministrazione della società da parte del contribuente e dei relativi poteri che ne derivavano rispetto alla fornitura di dati erronei poi confluiti nelle dichiarazioni doganali;
– tale fatto, peraltro, è stato espressamente considerato dalla CTR che sul punto ha motivato che l’Ufficio «non ha fornito alcuna prova che dia atto che il sig. R. abbia trasmesso i dati poi risultati sbagliati o che avrebbe dovuto sapere della loro erroneità, posto che nell’ambito societario non è compito del rappresentante legale fornire i dati per la compilazione delle dichiarazioni in dogana»,
– gli elementi dedotti, inoltre, sono carenti di decisività atteso che, come risulta dall’Allegato al pvc riprodotto per autosufficienza, la documentazione invocata si limita a precisare che «il Presidente del Consiglio di Amministrazione … impartisce le direttive unitamente al Consiglio di amministrazione» e, inoltre, che «l’attività dell’Ufficio Commerciale è coordinata dal Presidente del Consiglio di Amministrazione che si avvale dell’ausilio … di dipendenti con proprie mansioni» e, dunque, è del tutto generica, sicché non incide sull’affermata carenza di prova, ma si limita, suggestivamente, a non condividere il percorso motivazionale adottato dal giudice di merito sulla base del materiale probatorio disponibile e a sollecitare una nuova valutazione delle risultanze di fatto;
– il ricorso va pertanto rigettato e le spese liquidate, come in dispositivo, per soccombenza;
– non sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato ex art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 nei confronti dell’Agenzia delle dogane in quanto Amministrazione dello Stato che opera con il meccanismo della prenotazione a debito;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna l’Agenzia delle dogane al pagamento delle spese a favore del ricorrente, che liquida in complessivi € 5.000,00, oltre 15% per spese generali ed accessori di legge.
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