CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 aprile 2020, n. 7697
Responsabile della comunicazione – Diritto alla qualifica dirigenziale – Dequalificazione – Opere dell’ingegno
Rilevato
che la Corte di appello di Firenze, con sentenza n. 790 del 2014, ha confermato la sentenza del Tribunale di Siena, del 28 febbraio 2011, con la quale era stata rigettata la domanda proposta dal B. nei confronti di B.M.P.S. S.p.A., volta alla condanna della datrice di lavoro al superiore inquadramento quale “Responsabile della comunicazione” del Gruppo bancario, al risarcimento del danno da dequalificazione, nonché la subordinata domanda di compenso per la paternità di opere dell’ingegno (produzioni video e composizione della base musicale dello “spot P.”);
che a fondamento del decisum, la Corte territoriale ha ritenuto che il ricorrente non avesse diritto alla qualifica dirigenziale, sulla base delle stesse affermazioni da questi rese in primo grado, nel corso dell’interrogatorio, quando dichiarò che la sua autonomia si risolveva “in margini operativi propri della funzione” mentre le decisioni sull’an delle iniziative di comunicazioni promozionali erano assunte dai vertici aziendali, i quali si limitavano a chiedere il suo parere; la corte ha, altresì, ritenuto infondata la domanda risarcitoria per dequalificazione dal momento che tale domanda derivava dall’affermazione del diritto alla qualifica dirigenziale, esclusa da entrambi i giudici di merito; il B., ancora, avrebbe smentito la dequalificazione ammettendo di aver continuato svolgere sempre le stesse funzioni, che prima svolgeva in diversa organizzazione e di aver sempre riferito ai suoi sovraordinati e di aver lavorato in un clima di cordialità e apprezzamento;
quanto infine al compenso per le invenzioni, la corte ha evidenziato, sulla scorta dell’art. 64 del d.lgs. n. 30/2005, applicabile ratione temporis, che oltre al diritto ad essere riconosciuto autore delle produzioni video, nessun ulteriore compenso spettasse al ricorrente, tenuto conto della inerenza delle stesse, destinate a circolare all’interno dell’organizzazione aziendale, alle funzioni assegnate; del pari, per la composizione della base musicale dello “spot P.”, la corte ha escluso il diritto del B. a separato compenso, argomentando dalle dichiarazioni del ricorrente rese in sede stragiudiziale e di interrogatorio libero, ove egli aveva confessato di aver svolto l’opera gratuitamente rinunciando anche ai diritti di autore, che avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione M. B., affidato a quattro motivi; che B.M.P. spa ha resistito con controricorso; che il P.G. non ha formulato richieste scritte.
Considerato che
con il ricorso per cassazione, in sintesi, si censura:
1) ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, la omessa valutazione di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in cui sarebbe incorsa la corte territoriale fondando la propria decisione solo sull’interrogatorio formale del ricorrente, e quindi omettendo di pronunciarsi sulla richiesta di ammissione dei mezzi di prova, già proposta in primo grado e reiterata in appello; per tal via, nella prospettazione difensiva la corte avrebbe omesso la motivazione su un punto decisivo della controversia, relativo alla prova delle funzioni effettivamente svolte dal ricorrente all’interno dell’istituto, quale unico reale responsabile della comunicazione (anche quando formalmente altre persone risultavano a capo del settore) e relativo alla prova del demansionamento, subito dal ricorrente a partire dalla metà del 2002, quando fu privato del ruolo di responsabile della comunicazione e relegato a una posizione marginale fino alla cessazione dal servizio;
2) ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, l’omessa valutazione di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione ossia la esatta collocazione temporale dei fatti riferiti dal ricorrente in sede di interrogatorio formale; la corte, secondo il ricorrente, non avrebbe contestualizzato correttamente le dichiarazioni del lavoratore in sede di interrogatorio (di aver continuato svolgere le stesse funzioni che prima svolgeva all’interno della diversa organizzazione, di aver lavorato in clima di cordialità e apprezzamento, di aver sempre riferito ai suoi sovra-ordinati) che non erano certo relative al periodo della dedotta dequalificazione professionale (ossia dalla metà dell’anno 2002 al 31/12/2005, data di cessazione del rapporto di lavoro) non considerando altre dichiarazioni del B. in cui riferisce di non aver fatto niente per quel periodo;
3) ai sensi dell’articolo 360 co. 1 n. 5 c.p.c., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, e cioè quello in punto di insussistenza di margini di autonomia operativa per il ricorrente che potessero comportare il conseguimento della qualifica dirigenziale; avrebbe errato la corte decidendo sulla base del mero interrogatorio formale, non ammettendo i mezzi di prova che avrebbero condotto all’accoglimento della domanda; avrebbe del pari errato nel ritenere che dall’interrogatorio formale del lavoratore non emergessero elementi rilevanti al riguardo, non considerando le dichiarazioni nella loro interezza, omettendo di considerare la rilevanza di un documento di provenienza aziendale (il doc. 10 del fascicolo di parte di primo grado) da cui si dovevano desumere le elevate mansioni del ricorrent, di cui fu poi privato;
In particolare il ricorrente aveva chiesto di provare come il suo ruolo fosse importante in quanto egli si occupava della comunicazione e della partecipazione della banca a tutti gli eventi in cui partecipava il maestro L. P., intrattenendo delicatissimi rapporti con i mezzi di comunicazione tanto che poi la banca aveva creato una figura dirigenziale riguardo alla comunicazione, non attribuendo tale qualifica al ricorrente che pure svolgeva tale ruolo;
4) ai sensi dell’articolo 360 comma uno numero tre, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’articolo 23 del R.D. 29 giugno 1939 numero 1127, dell’articolo 64 del decreto legislativo 10 febbraio 2005 n. 30 e dell’articolo 11 delle disposizioni della legge in generale;
avrebbe errato in particolare la corte d’appello a ritenere applicabile la più recente normativa del 2005, poiché all’invenzione del dipendente doveva applicarsi il R.D. del 39, in vigore all’epoca della realizzazione delle opere dell’ingegno relativamente alle quali era formulata la domanda del ricorrente; avrebbe errato in particolare la corte nell’escludere il diritto del ricorrente al riconoscimento dell’equo premio sul rilievo che le invenzioni sarebbero inerenti le funzioni assegnate al lavoratore; in particolare il ricorrente non avrebbe ricevuto alcuna retribuzione né per i filmati né per la composizione musicale e per le altre invenzioni realizzate (delle quali era pacifica la sua paternità), tutte non rientranti nell’oggetto dell’attività lavorativa svolta dal ricorrente che era stato assunto come semplice dipendente bancario;
avrebbe errato la sentenza di appello nel dedurre dall’interrogatorio e dagli altri documenti elementi in favore della gratuità di tale prestazione di attività, nel ritenere che le attività creative fossero conformi alle mansioni svolte, equivocando – inoltre – le dichiarazioni del ricorrente quanto alla gratuità, poiché esse erano state rese “joci causa”, come battuta scherzosa, senza realmente volere il ricorrente abdicare ai propri diritti;
che i motivi proposti, che per ragioni di connessione logicogiuridica possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili;
i motivi sono infatti tutti accomunati dal fatto che il ricorrente si duole che la corte, così come il giudice di primo grado, abbiano fondato il proprio convincimento solo sulle dichiarazioni del ricorrente, rese nell’interrogatorio libero e in quello formale del ricorrente, non dando ingresso al materiale probatorio che gli avrebbe consentito di provare le proprie ragioni (nei motivi nn. 1, 2 e 3) e comunque equivocando persino il tenore delle dichiarazioni medesime (ad. es. quanto al periodo, nel motivo n.2, non considerandole nella loro interezza, nel motivo n. 3, equivocandole, circa la gratuità nel motivo n. 4); in primo luogo va evidenziato, infatti, che il ricorrente non ha adempiuto al proprio onere di cd. localizzazione, che, nella interpretazione fornita da questa corte del n. 6 dell’art. 366 cod. proc. civ., si traduce non solo nella (integrale) trascrizione degli atti processuali, ma anche (in presenza di una puntuale riproduzione degli atti dei precedenti gradi di giudizio, posti a fondamento della censura) nella individuazione topografica del luogo processuale in cui gli stessi sono consultabili.
La giurisprudenza di questa corte ha da tempo evidenziato come “ai fini del rituale adempimento dell’onere, imposto al ricorrente dall’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ., di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, è necessario che, in ossequio al principio di autosufficienza, si provveda anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame” (Cass. 23 marzo 2010, n. 6937, e Cass. 16 marzo 2012, n. 4220, Secondo Cass. 9 aprile 2013, n. 8569).
Il ricorrente, infatti, non ha integralmente riportato l’interrogatorio formale (richiamato per stralci), né quello libero, e non li ha “localizzati”, rispetto alla produzione nel giudizio di cassazione, nel senso chiarito.
che, inoltre il nuovo testo dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, applicabile in causa ratione temporis, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Al compito assegnato alla Corte di Cassazione resta dunque estranea una verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle quaestiones facti che implichi un raffronto tra le ragioni del decidere espresse nella sentenza impugnata e le risultanze del materiale probatorio sottoposto al vaglio del giudice di merito.
Nel caso di specie, segnatamente, parte ricorrente, non si duole del mancato esame di un fatto storico ma, in sostanza, della valutazione di merito in ordine ai fatti esaminati in sentenza, non sindacabile – per quanto sopra detto – da questa Corte.
Egli, infatti, àncora le proprie doglianze alla valutazione, concordemente espressa dai giudici di merito, della superfluità della prova alla luce delle risultanze dell’interrogatorio.
Tuttavia, la gravata sentenza, ha dato conto delle dichiarazioni del ricorrente ove questi ha circostanziato il proprio ruolo di addetto alla comunicazione come mero “tramite” ed ha spiegato il proprio rapporto con i vertici e la propria mancanza di autonomia (v. pag. 2 primo capoverso della sentenza impugnata);
che non sono, pertanto, ravvisabili omessi esami di fatti storici, deducibili come vizio di motivazione della sentenza; che anche l’ultimo motivo, infine, è inammissibile non solo per l’omessa localizzazione dell’interrogatorio, dal quale erroneamente la corte avrebbe tratto la gratuità dell’attività di invenzione dell’accompagnamento musicale allo “spot P.”, ma anche perché parte ricorrente deduce un vizio di violazione di legge quanto alla valutazione dell’inerenza della invenzione del ricorrente alla prestazione oggetto del rapporto di lavoro, senza realmente prospettare una questione di interpretazione ed applicazione delle dedotte norme di legge, limitandosi, piuttosto, alla deduzione di una erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, unicamente sotto l’aspetto del vizio di motivazione; che alla stregua di quanto esposto il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente, secondo il principio della soccombenza, alla rifusione delle spese del presente giudizio di legittimità;
che, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, ove dovuto.
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