CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 luglio 2020, n. 15107
Infortunio – Risarcimento del danno subito – Mansioni di autista – Nesso di causalità materiale tra l’inadempimento ed il danno
Ritenuto
che la Corte territoriale di Bologna, con sentenza pubblicata il 28.11.2014, ha respinto il gravame interposto da R.O., nei confronti di S.R. S.p.A. e di C. Soc. Coop P.A., avverso la pronunzia del Tribunale di Forlì n. 186/2012, resa il 28.9.2012, che aveva disatteso la domanda proposta dal dipendente, nei confronti della datrice di lavoro S. S.r.l. (ora S.R. S.p.A.), al fine di ottenere il risarcimento del danno subito a seguito dell’infortunio sul lavoro verificatosi in data 8.4.2007, <<mentre per conto ed ordine di S. S.r.l., di cui era dipendente con mansioni di autista, si trovava nel parcheggio di pertinenza di detta società nonché di C. Soc. Coop nell’atto di uscire dallo stesso, rimanendo intrappolato con la mano ed il polso nel cancello automatico dell’area, che si apriva senza consentire al predetto di estrarre la mano che aveva dovuto introdurre in mezzo alla cancellata, tra le sbarre, per potere così azionare il comando di apertura posto all’esterno, essendo assente (e, comunque, non funzionante) nella parte interna>>; che la Corte di merito, per quanto ancora in questa sede rileva, esaminati gli elementi delibatori posti dal primo giudice a fondamento della decisione gravata, ha reputato che <<non si ravvisa in atti prova da cui desumere che la società datrice di lavoro fosse stata resa edotta del malfunzionamento del cancello e della necessità da parte dei suoi dipendenti (appellante compreso) di eseguire la predetta manovra per potere aprire detto cancello e, quindi, uscire dal parcheggio>>; che per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso R.O. articolando due motivi;
che la C. Soc. Coop P.A. ha resistito con controricorso; che la S.R. S.p.A. (già A.V.M. S.r.l., già S. S.r.l.) non ha svolto attività difensiva;
che sono state depositate memorie, ai sensi dell’art. 380-bis del codice di rito, nell’interesse della Soc. Coop P.A. C.; che il P.G. non ha formulato richieste;
Considerato
che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione degli artt. 2087 c.c. e 35 del D.lgs. n. 626 del 1994, e si lamenta che la Corte di merito avrebbe ritenuto, del tutto erroneamente, di poter escludere la responsabilità della parte datoriale per il solo fatto che non era risultato provato che la stessa fosse stata informata dal ricorrente, o da altri, del guasto al cancello di accesso al parcheggio, senza, peraltro, svolgere alcuna indagine probatoria in ordine all’adempimento, da parte della società, degli obblighi di sicurezza a proprio carico; 2) in rifermento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione dell’art. 2697 c.c. in relazione agli artt. 1218 e 2087 c.c. e, più specificamente, alla normativa in materia di infortuni sul lavoro, e si deduce che, <<quantunque il motivo che precede abbia carattere assorbente, per mero tuziorismo, si rileva che ulteriore errore nel quale è incorsa la Corte d’Appello è ravvisabile>> nella non corretta applicazione della norma <<in punto di onere probatorio > ed in particolare, si afferma che risulterebbe evidente, dalle modalità di svolgimento dei fatti, che vi sia stata la violazione dell’art. 2087 c.c., che pone a carico dell’imprenditore l’obbligo di adottare, nell’esercizio dell’impresa, tutte le misure che si rendono necessarie per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei propri prestatori d’opera, nel rispetto dei fondamentali diritti alla salute ed all’integrità psicofisica costituzionalmente garantiti;
che i motivi – da trattare congiuntamente per ragioni di connessione (il secondo, peraltro, risulta formulato <<per mero tuziorismo, dato il carattere assorbente del primo motivo>) – non sono fondati, in quanto i giudici di secondo grado sono pervenuti alla decisione oggetto del presente giudizio uniformandosi ai consolidati arresti giurisprudenziali della Suprema Corte nella materia, condivisi da questo Collegio, che non ravvisa ragioni per discostarsene -ed ai quali, ai sensi dell’art. 118 Disp. att. c.p.c., fa espresso richiamo (cfr., in particolare e tra le molte, Cass. nn. 749/2018; 146/2018; 3366/2017; 17547/2010; 8386/2006)-, secondo cui il lavoratore che deduca di avere subito un danno in conseguenza dell’attività lavorativa svolta ha l’onere di provare il fatto che costituisce l’inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra tale inadempimento ed il danno; e la motivazione della Corte di Appello è del tutto in linea, come innanzi osservato, con l’indirizzo giurisprudenziale testé citato, in quanto la Corte ha premesso che, dall’istruttoria espletata, <<non risulta che il ricorrente abbia mai informato la società datrice di lavoro della impossibilità di apertura dall’interno del cancello automatico utilizzato dall’appellante per uscire dal parcheggio; né risulta che la stessa fosse venuta a conoscenza di detto malfunzionamento e della necessità per i suoi autisti di ricorrere alla manovra sopra ricordata per uscire dal parcheggio, anche perché si trattava di un malfunzionamento che riguardava solo il periodo notturno, atteso che il cancello durante la giornata rimaneva aperto>; inoltre, secondo la Corte territoriale, <<tale considerazione (che non risulta smentita da contrarie risultanze probatorie) costituisce elemento decisivo per escludere la sussistenza in capo alla S. (ora S.R.) dell’inadempimento contrattuale posto alla base della proposta domanda>>; e da ciò la stessa Corte ha tratto il convincimento che non si ravvisava un inadempimento della parte datoriale all’obbligo di sicurezza sulla stessa gravante e consistente – nel caso in esame – nell’obbligo di rimediare a detto malfunzionamento;
che, infatti, alla stregua delle pronunce giurisprudenziali di legittimità (cfr, ex plurimis, Cass. nn. 4225/2019; 749/2018, cit.; 146/2018, cit.), la natura sussidiaria della norma di cui all’art. 2087 c.c. e la sua interpretazione estensiva non possono spingersi sino al punto di configurare una responsabilità oggettiva del datore di lavoro per ogni infortunio occorso al dipendente, poiché la responsabilità datoriale deve essere ricollegabile ad un comportamento colpevole riconducibile alla violazione di uno specifico obbligo di sicurezza che, nella fattispecie, non sussisteva in termini preventivi: ed al riguardo, i giudici di seconda istanza hanno condivisibilmente valutato la distribuzione dell’onere della prova, facendo propri i termini applicati dal primo giudice, sul presupposto implicito (cfr., ancora, Cass. nn. 4225/2019; 749/2018, citt.) che, non potendo discendere dall’art. 2087 c.c. un obbligo per il datore di lavoro di impedire comportamenti anomali ed imprevedibili dei dipendenti, la mera verificazione di un danno non è di per sé sufficiente a fare scattare, a carico del datore medesimo, l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare l’evento. E la giurisprudenza di questa Suprema Corte è, altresì, costante nell’affermare che <<la condotta del lavoratore può comportare esonero totale dell’imprenditore da ogni responsabilità, quando presenti i caratteri di abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, così da porsi come causa esclusiva dell’evento> (cfr., tra le molte, Cass. nn. 4225/2019, cit., 19494/2009; 9698/2009): ipotesi, questa, che si è verificata nella fattispecie, in cui il lavoratore ha posto in essere una condotta esorbitante dai limiti del proprio lavoro, poiché, dopo avere concluso la giornata lavorativa, <<ha introdotto una mano nel cancello automatico, rimanendo impigliato tra le sbarre>> (come testualmente affermato nei motivi di ricorso);
che, pertanto, la descritta condotta configura una ipotesi di c.d. rischio elettivo da parte del lavoratore, idoneo ad interrompere ogni eventuale condotta colposa dell’imprenditore, poiché l’attività posta in essere dal lavoratore stesso esorbita dai limiti dello svolgimento del proprio lavoro (cfr. Cass. nn. 4225/2019, cit. ; 21694/2011);
che, per le osservazioni in precedenza svolte, il ricorso va rigettato;
che le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, in favore della C. Soc. Coop P.A., seguono la soccombenza;
che nulla va disposto in ordine alle spese nei confronti della S.R. S.p.A., rimasta intimata;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, come specificato in dispositivo
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate, nei confronti di C. Soc. Coop P.A., nella misura di Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge. Nulla spese nei confronti di S.R. S.p.A.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13.
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