CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 novembre 2020, n. 25414
Tributi – IRPEF – Accertamento sintetico – Redditometro – Incrementi patrimoniali incongruenti con il reddito dichiarato – Onere di prova contraria
Rilevato che
1. L’Agenzia delle Entrate ha notificato a G.S., casalinga, tre avvisi di accertamento di maggior reddito, relativi agli anni d’imposta 2001 (per euro 77.838,29), 2002 (per euro 78.766,13) e 2003 (per euro78.766,13), emessi ai sensi dell’art. 38, quarto comma, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e fondati sull’acquisto, da parte della contribuente, in data 20 maggio 2005, al prezzo di euro 300.000,00, di un appartamento sito in Milano, che le è stato venduto dalla T. di G.S. e C. s.a.s., della quale la medesima acquirente era socia accomandataria.
3. La contribuente ha impugnato, dinnanzi la Commissione tributaria provinciale di Milano, gli avvisi di accertamento con tre distinti ricorsi, eccependo, per quanto qui ancora d’interesse, di non aver effettivamente versato la somma costituente il prezzo della compravendita dell’immobile in questione, del cui adempimento dava invece atto il relativo contratto, redatto tra le parti nella forma dell’atto pubblico. Infatti, a detta della contribuente, con tale negozio era stata in realtà soltanto regolarizzata, al fine di evitare maggiori oneri fiscali in capo alla predetta s.a.s., la precedente e persistente situazione di godimento, da parte sua, dello stesso immobile alienato, che costituiva la sua abitazione e del quale di fatto già disponeva liberamente a titolo personale. Pertanto, l’acquisto dell’immobile de quo, a detta della contribuente, non avrebbe potuto costituire, ai fini degli accertamenti sintetici in questione, un incremento patrimoniale concretamente sintomatico di un reddito non già dichiarato.
Inoltre, secondo la ricorrente, gli accertamenti non avevano considerato che la contestata disponibilità di risorse economiche impiegate per l’incremento patrimoniale avrebbe potuto comunque trovare giustificazione nell’effettivo disinvestimento compiuto, da parte sua, con l’atto pubblico del 30 marzo 2005, con il quale aveva alienato ad un terzo un diverso immobile, al prezzo di euro 190.000,00.
L’adita CTP, riuniti i ricorsi, con sentenza n. 95/16/2010 del 26 gennaio li ha rigettati, compensando le spese.
5. La contribuente ha allora impugnato la sentenza di primo grado dinnanzi la Commissione tributaria regionale della Lombardia, proponendo altresì istanza di sospensione della decisione impugnata. L’Ufficio si è costituito ed ha contestato le deduzioni della contribuente, opponendosi all’accoglimento dell’istanza di sospensione.
L’adita CTR, procedendo alla trattazione della sospensione congiuntamente al merito, con la sentenza n. 203/1/11, depositata il 14 novembre 2011, ha accolto l’appello della contribuente limitatamente alla domanda di riduzione delle sanzioni comminate con gli atti d’accertamento, rigettandolo per il resto.
8. La contribuente ha proposto ricorso per la cassazione della predetta sentenza d’appello, affidandolo a tre motivi.
9. L’Ufficio si è costituito al solo fine della partecipazione all’eventuale pubblica udienza.
10. La ricorrente ha depositato memoria.
Considerato che
1. Con il primo motivo la contribuente, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., lamenta la violazione degli art. 32 e 47, commi secondo, quarto, sesto e settimo, d. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546; dell’art. 101, primo comma, e dell’art. 156, secondo comma, cod. proc. civ.; nonché dell’art. 24, secondo comma, Cost.
La ricorrente assume infatti che il giudice a quo avrebbe commesso un error in procedendo, per non aver trattato, preliminarmente rispetto al merito e separatamente da quest’ultimo, l’istanza di sospensione della decisione di primo grado appellata, nonostante l’opposizione alla trattazione congiunta, formulata dal difensore della contribuente nel verbale dell’unica udienza fissata e celebrata.
Il motivo è infondato.
Occorre premettere che l’art. 49 d.P.R. n. 546 del 1992, nella versione applicabile ratione temporis, escludeva espressamente l’applicabilità, nelle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie, dell’ art. 337 cod. proc. civ., relativo alla possibilità di sospendere l’esecutività della sentenza di primo grado appellata. Né, peraltro, ha inciso su tale previsione la sentenza – menzionata dalla ricorrente- della Corte costituzionale 17 giugno 2010, n. 217, che ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale di tale norma, sollevata sul presupposto che essa escludesse l’applicabilità anche delle disposizioni menzionate dal predetto art. 337 cod. proc. civ., ed in particolare l’art. 373 cod. proc. civ. Infatti, la richiamata pronuncia del giudice delle leggi, nella motivazione, senza attingere l’art. 49 d.P.R. n. 546 del 1992, nella parte in cui escludeva espressamente l’applicabilità dell’art. 337 cod. proc. civ. al processo tributario, ha piuttosto negato che tale esclusione comportasse necessariamente anche l’inapplicabilità dell’ art. 373 cod. proc. civ., ovvero della possibilità di sospendere ope iudicis l’esecuzione della sentenza di appello impugnata per cassazione, fattispecie legale astratta diversa da quella processuale sub iudice, che attiene invece la richiesta di sospensione della riscossione erariale all’esito della sentenza di primo grado, confermativa in parte degli atti impositivi impugnati dalla contribuente.
Era invece comunque consentita, ai sensi dell’art. 19, secondo comma, d.lgs. 8 dicembre 1997, n. 472, la sospensione dell’esecutività dei soli capi della sentenza di primo grado riguardanti le sanzioni.
Pertanto, premessi tale contesto normativo e la sua interpretazione, che trova riscontro nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. 31/03/2010, n. 7815; Cass. 30/07/2019, n. 20454), era quindi ammissibile, così come sostenuto dalla ricorrente, quanto meno relativamente alle sanzioni comminate dagli atti impositivi impugnati, la richiesta di sospensione dell’esecutività della sentenza di primo grado, proposta dalla stessa contribuente alla CTR adita con l’appello. La quale, infatti, non ne ha dichiarato l’inammissibilità, ma ha ritenuto di trattarla unitamente al merito, sollecitamente fissato, come ampiamente argomentato nel punto 1) della motivazione della sentenza impugnata.
La mancata trattazione anticipata rispetto al merito, e separata quindi rispetto alla trattazione di quest’ultimo, dell’istanza di sospensione non determina di per sé sola, alcun pregiudizio del diritto di difesa del ricorrente, come questa Corte ha già più volte chiarito, rilevando che: « In tema di contenzioso tributario, non viola il diritto di difesa del contribuente il giudice che, senza ritardo, decida il merito della causa senza pronunciarsi sull’istanza di sospensione dell’atto impugnato, in quanto l’art. 47, comma 7, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 prevede che “gli effetti della sospensione cessano alla data di pubblicazione della sentenza di primo grado”, sicché non è ipotizzabile alcun pregiudizio per la mancata decisione sull’istanza cautelare che, pur se favorevole, sarebbe comunque travolta dalla decisione di merito.» (Cass. 09/04/2010, n. 8510; conformi Cass. 28/06/2017, n. 16116; Cass. 07/07/2017, n. 16774; Cass., 30/07/2019, n. 20454, cit.). Tanto meno, poi, la trattazione congiunta dell’istanza di sospensione e del merito ha, nel caso di specie, determinato un pregiudizio per le facoltà processuali concesse dall’ordinamento alla contribuente nel contesto del giudizio di merito d’appello (sulla questione cfr. Cass., 30/07/2019, n.20454, cit., in motivazione).
Infatti, la ricorrente – così come risulta dallo stesso verbale dell’udienza del giudizio d’appello, come trascritto nel ricorso (pagg. 30 e 31) per cui si procede- non ha lamentato specificamente, nel giudizio a quo, che, a seguito della ricevuta comunicazione della fissazione dell’udienza dinnanzi alla CTR per la trattazione del merito della controversia, fosse stato violato il termine di cui agli art. 61 e 31 d.lgs. n. 546 del 1992, o comunque fosse stata lesa concretamente alcuni delle facoltà che le erano concesse dagli artt. 61 e 32 d.lgs. n. 546 del 1992.
Pertanto, ogni ipotetico vizio relativo all’ instaurazione del contraddittorio ed alla tutela del diritto di difesa è stato comunque sanato dalla partecipazione del difensore della parte all’udienza di discussione, ai sensi dell’art. 156, ultimo comma, cod. proc. civ., applicabile al processo tributario in virtù del rinvio contenuto nell’art. 1, secondo comma, d.lgs. n. 546 del 1992, così come ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte, finanche nelle ipotesi in cui il difensore presente all’udienza di trattazione si sia limitato alla mera formulazione dell’eccezione di nullità (cfr., in motivazione, Cass. 28/06/2017, n. 16116, cit., e Cass. 07/07/2017, n. 16774, cit., nonché giurisprudenza da entrambe citata).
Non contrasta con quanto sinora argomentato il recente precedente di legittimità (Cass. 08/10/2019, n. 25094) invocato dalla contribuente nella memoria, che ha per oggetto la diversa fattispecie processuale, nella quale la sentenza d’appello sia stata pronunciata dalla CTR all’esito della sola camera di consiglio fissata ai sensi dell’art. 47 d.lgs. n. 546 del 1992, pertanto senza fissare l’udienza per la discussione e quindi senza consentire alle parti di esercitare il loro diritto di difesa in tale sede e di beneficiare del termine per produrre documenti, ex art. 32 d.Lgs. n. 546 del 1992, fino a venti giorni liberi prima della stessa udienza di merito. Il caso appena descritto, nel quale è stata emessa la sentenza dopo aver trattato unicamente l’istanza di sospensione nell’apposita camera di consiglio, è infatti differente da quello sub iudice, nel quale è stata invece fissata l’udienza di discussione del merito, all’interno della quale è stata trattata anche l’istanza cautelare ed all’esito della quale è stata emessa la sentenza, per cui tale (rapida) conclusione del giudizio a cognizione piena ha interamente assorbito la richiesta di sospensione e l’interesse ad una pronuncia anticipata su di essa.
Fermo restando quanto premesso in ordine alla sanatoria, nel giudizio a quo, di ogni ipotetico vizio processuale conseguente alla trattazione congiunta della sospensione e del merito dell’appello, deve pure rilevarsi che il motivo in decisione è comunque anche inammissibile nella parte in cui individua, in questa sede, quale specifica lesione del diritto di difesa della contribuente nel giudizio d’appello, l’impossibilità, per quest’ultima, di produrre nuovamente documenti che erano stati già prodotti in primo grado, ma che non erano presenti tra gli atti del procedimento d’appello.
Al riguardo, infatti, la ricorrente richiama la motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ( a pag. 9, nella nota 2), con riferimento agli «atti di vendita in data 2005 e 1998 di due appartamenti nello stesso stabile», annota: « Atti che si assumono prodotti ma non figurano indicati tra le produzioni e non si rinvengono in atti.» Ebbene, a differenza di quanto sostiene la ricorrente, tale annotazione non equivale alla mera constatazione della mancata presenza materiale in atti di documenti già prodotti ritualmente dalla parte privata, ma comporta invece l’accertamento che gli stessi atti, che la contribuente «assume prodotti», «non figurano indicati tra le produzioni», ovvero non sono stati prodotti. Pertanto, da un lato il motivo, in parte qua, è inammissibile perché non attinge la ratio decidendi della sentenza impugnata sulla questione; dall’altro, comunque, l’ipotetico errore percettivo della CTR, in ordine invece all’eventuale effettiva produzione in giudizio dei predetti documenti, avrebbe dovuto essere oggetto di revocazione e non ne è comunque ammissibile la denuncia in questa sede. Infatti, come questa Corte ha già avuto modo di rilevare, «Il vizio di omesso esame di un documento decisivo non è deducibile in cassazione se il giudice di merito ha accertato che quel documento non è stato prodotto in giudizio, non essendo configurabile un difetto di attività del giudice circa l’efficacia determinante, ai fini della decisione della causa, di un documento non portato alla cognizione del giudice stesso. Se la parte assume, invece, che il giudice abbia errato nel ritenere non prodotto in giudizio il documento decisivo, può far valere tale preteso errore soltanto in sede di revocazione, ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c., sempre che ne ricorrano le condizioni.» (Cass. 11/06/2018, n. 15043; conformi Cass. 01/06/2007, n. 12904 e Cass. 15/07/1988, n. 4658).
Infine, la ricorrente, nel motivo, non ha comunque neppure dedotto puntualmente in quale fase e con quale atto i medesimi documenti, a differenza di quanto rilevato nella sentenza impugnata, sarebbero stati invece prodotti nel primo grado di giudizio.
2. Con il secondo motivo la contribuente lamenta – ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3, num. 4 e num. 5 cod. proc. civ.- la violazione e la falsa applicazione dell’art. 38, quarto comma, d.P.R. n 600 del 1973, dell’art. 1417 cod. civ. e dell’art. 7 d. lgs. n. 546 del 1992; nonché l’omessa o insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo del giudizio.
La ricorrente lamenta infatti che la CTR avrebbe erroneamente applicato la normativa appena richiamata, o comunque avrebbe omesso di motivare, o avrebbe motivato in maniera insufficiente, in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, rappresentato dalla circostanza che il prezzo di euro 300.000,00, dichiarato dalle stessa contribuente nell’ atto con il quale ha acquistato l’immobile de quo, non sarebbe mai stato effettivamente corrisposto, come risulterebbe da due dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, rilasciate da terzi e prodotte dalla stessa parte privata nel giudizio di merito, oltre che dalle scritture contabili della società venditrice, nelle quali il versamento della somma di euro 300.000 non risulterebbe contabilizzata.
Secondo la ricorrente, la CTR avrebbe erroneamente escluso la rilevanza probatoria delle predette dichiarazioni dei terzi, sia a priori, per la natura di tali mezzi istruttori; sia, comunque, per l’erronea applicazione dell’art. 1417, secondo comma, cod. civ., che preclude alle parti del contratto simulato la prova per testimoni – e quindi anche quella per presunzioni semplici, ai sensi dell’art. 2729, secondo comma, cod. civ.- della simulazione della compravendita immobiliare nei confronti del terzo, rappresentato dal Fisco, essendo piuttosto necessaria, ai sensi dell’art. 2722 cod. civ., la prova documentale di un accordo dissimulato, di contenuto contrario al contratto che si assume simulato, di formazione anteriore o contemporanea a quest’ultimo.
Nel caso di specie, assume la ricorrente, la contribuente non aveva proposto domanda di simulazione del negozio, né quest’ultima era necessaria allo scopo di dimostrare che l’acquisto dell’immobile non era sintomo di una reale maggiore capacità reddituale non dichiarata dalla stessa parte.
Il motivo è inammissibile.
Infatti, in esso vengono contemporaneamente prospettate le diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, primo comma, num. 3, num. 4 e num. 5, cod. proc. civ. – e, con riferimento a quest’ultimo, anche due fattispecie, l’omessa e l’insufficiente motivazione sul medesimo fatto, tra loro in contraddizione logica- e la lettura dell’intero corpo del relativo mezzo d’impugnazione evidenzia una sostanziale mescolanza e sovrapposizione di censure, che comporta l’inammissibile prospettazione della medesima questione sotto profili incompatibili (Cass. 23/10/2018, n. 26874; Cass. 23/09/2011, n. 19443; Cass. 11/04/2008, n. 9470), non risultando specificamente separati la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto sostanziali appropriate alla fattispecie e processuali, ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto ( Cass. 11/04/2018, n. 8915; Cass. 23/04/2013, n. 9793).
Pertanto, i distinti motivi di cui ai num. 3, 4 e 5 dell’art. 360, primo 3, comma 1, cod. proc. civ., cumulati formalmente nella rubrica del secondo motivo di ricorso, non risultano, nel contenuto di quest’ultimo, censure ontologicamente distinte dalla stessa ricorrente e quindi autonomamente individuabili senza la necessità di un’inammissibile intervento di selezione e ricostruzione del mezzo d’impugnazione da parte di questa Corte.
Tanto premesso, il motivo è altresì infondato.
Invero, nel caso in esame, l’Ufficio ha provveduto all’accertamento del maggior reddito della contribuente non dichiarato negli anni d’imposta mediante il ricorso al cosiddetto accertamento sintetico (“redditometro”) di cui all’art. 38, quarto comma, d.P.R. n 600 del 1973.
Questa Corte, in ordine al relativo onere probatorio gravante sull’Ufficio, ha affermato che «in tema di accertamento in rettifica sui redditi delle persone fisiche, la determinazione effettuata con metodo sintetico, sulla base degli indici previsti dai decreti ministeriali (redditometro), dispensa l’Amministrazione da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei fattori – indice della capacità contributiva, sicché è legittimo l’accertamento fondato su essi, restando a carico del contribuente, posto nella condizione di difendersi dalla contestazione dell’esistenza di quei fattori, l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore» (Cass. 27/02/2020, n.5340, ex plurimis).
L’Ufficio ha assolto al proprio onere probatorio rilevando l’acquisto, da parte della contribuente e sulla base di una dichiarazione resa da quest’ultima nel relativo atto pubblico, di un immobile del valore pari ad euro 300.000, che costituiva un investimento incongruo rispetto al reddito da essa dichiarato negli anni d’imposta presi in considerazione. Spettava quindi alla contribuente dimostrare che tale incremento non costituisse manifestazione di una reale capacità reddituale e contributiva maggiore di quella dichiarata.
In ordine alle modalità di assolvimento di tale onere di prova contraria, questa Corte ha già avuto modo di chiarire che essa « può consistere anche nella dimostrazione che i beni o gli importi contestati quali indici di capacità contributiva non siano effettivamente entrati nella sua disponibilità, in quanto derivanti da un atto simulato, che non ne implica la corrispondente e reale disponibilità economica.» (Cass. 10/10/2014, n. 21442); ovvero che, come si assume nel caso di specie, «il pagamento del prezzo non è avvenuto e, quindi, l’effettuata acquisizione di beni non denota una reale disponibilità economica, suscettibile di valutazione a fini fiscali, poiché il contratto stipulato, in ragione della sua natura simulata, ha una causa gratuita anziché quella onerosa apparente.» (Cass. 17/03/2006, n. 5991; conformi Cass. 17/06/2002, n. 8665; Cass. 16/09/2010, n. 19637; Cass. 10/10/2014, n. 21442; Cass., 26/05/2017, n. 13339; Cass. 16/01/2019, n. 872; Cass. 17/07/2019, n. 19192).
Con riferimento, poi, ai predetti limiti codicistici alla prova dell’accertamento della simulazione (relativa, nel caso di specie) che le parti del contratto simulato possono legittimamente fornire, questa Corte, in fattispecie similare a quella sub iudice, ne ha già escluso la rilevanza, argomentando che « la contribuente non ha esercitato, col ricorso alla commissione tributaria, un’azione diretta ad ottenere la dichiarazione di nullità del contratto simulato oppure a far valere gli effetti di quello dissimulato: azione inammissibile, secondo l’amministrazione ricorrente, nei confronti del terzo (quanto all’inapplicabilità, in caso di simulazione relativa, del limite posto dall’articolo 1415 c.c., comma 1, v. però Cass. n. 7470/1997); bensì ha inteso dimostrare – esercitando il proprio diritto di provare l’inconsistenza del dato presunto […] – l’infondatezza della pretesa fiscale, originata dalla constatazione di una capacità di spesa che la contribuente assume inesistente perché, a fronte degli atti di compravendita immobiliare stipulati, non avrebbe pagato alcun prezzo.» (Cass. 17/03/2006, n. 5991, in motivazione, § 6.4.2; cfr. altresì Cass. 17/06/2002, n. 8665).
Non era quindi precluso alla ricorrente, ai fini della prova liberatoria in questione, anche il ricorso alle dichiarazioni rese da terzi al di fuori del giudizio, la cui rilevanza istruttoria è tuttavia meramente indiziaria.
Infatti, come già ritenuto da questa Corte, « anche al contribuente, oltre che all’amministrazione finanziaria, deve essere riconosciuta – in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti di cui al nuovo testo dell’art. 111 Cost. – la possibilità d’introdurre nel giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, e, quindi, anche dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, le quali hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e come tali devono essere valutate – non potendo costituire da sole il fondamento della decisione – nel contesto probatorio emergente dagli atti; ciò non comporta, tuttavia, il venir meno in capo al giudice tributario del potere-dovere di valutare l’attendibilità del contenuto delle dichiarazioni, comportando la corretta applicazione del principio della libera valutazione delle prove, l’obbligo di confrontare le propalazioni raccolte e di valutare la credibilità dei dichiaranti in base ad eleménti soggettivi ed oggettivi, quali la loro qualità e vicinanza alle parti, l’intrinseca congruenza di dette dichiarazioni e la convergenza di queste con eventuali altri elementi acquisiti». (Cass. 27/02/2020, n.5340, cit.; conformi Cass. 16/03/2018, n. 6616 e Cass. 21/01/2015, n. 960, ex plurimis). Tali documenti, e le risultanze da essi emergenti, al pari delle dichiarazioni di terzi raccolte e prodotte dall’Ufficio, rilevano quindi quali elementi indiziari che possono concorre a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice (cfr. Cass. 16/03/2018, n. 6616; Cass. 07/4/2017, n. 9080; Cass. 05/04/2013, n. 8639, ex plurimis).
Tutto ciò premesso, deve rilevarsi che nel caso di specie il giudice a quo, pur avendo negato l’ammissibilità processuale e sostanziale, al fine di «provare la simulazione dell’atto di vendita», delle predette dichiarazioni, tuttavia, con ulteriore ed autonoma valutazione, ne ha comunque anche espressamente apprezzato in fatto la rilevanza istruttoria rispetto all’assunta inesistenza della maggior disponibilità imputata alla contribuente per effetto dell’acquisto de quo, escludendola, sia in relazione al contenuto delle stesse dichiarazioni; sia per difetto di ulteriori elementi istruttori convergenti (in particolare relativamente alla contabilità della società alienante, della cui produzione e collocazione nei giudizi di merito la ricorrente non fornisce indicazioni specifiche).
Tale valutazione in fatto, anche ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., applicabile ratione temporis in relazione alla data di deposito della sentenza impugnata, non può essere sindacata in questa sede di legittimità.
3. Con il terzo motivo la contribuente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 38, quarto comma, d.P.R. n. 600 del 1973, nonché l’omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3 e num. 5 cod. proc, civ.
La CTR avrebbe infatti omesso di considerare che, negli anni d’imposta considerati ed anche nei periodi d’imposta precedenti, la contribuente avrebbe realizzato alcuni disinvestimenti, alienando immobili e ricavandone corrispettivi sufficienti a giustificare le spese sostenute, ove queste fossero state considerati reali, come risulterebbe da rogiti notarili da essa prodotti e da documentazioni bancarie.
In particolare, la contribuente, nel periodo preso in considerazione ai fini dell’accertamento sintetico, e pochi mesi prima dell’acquisto sub iudice, ovvero il 30 marzo 2005, avrebbe alienato ad un terzo un diverso immobile, ricavandone il corrispettivo di euro 190.000,00, che dovrebbe pertanto giustificare, almeno prò quota, la disponibilità finanziaria manifestata dalla stessa contribuente con l’incremento patrimoniale controverso.
Avrebbe pertanto errato la CTR, che ha escluso la rilevanza, quale prova liberatoria della quale era onerata la contribuente, dell’alienazione immobiliare ad un terzo del 2005, ed anche di una ulteriore del 1998, sia perché non sarebbero stati prodotti in giudizio i relativi atti di compravendita; sia perché, comunque, anche gli immobili trasferiti a terzi erano di proprietà della T. s.a.s., e non della contribuente che di quest’ultima era accomandataria, e non risultava che i corrispettivi delle vendite, spettanti alla predetta s.a.s., si fossero tradotti in utili distribuiti ai soci, e quindi in una fonte di reddito personale della ricorrente.
Anche tale motivo è inammissibile, poiché pure in questo caso in esso vengono contemporaneamente prospettate le diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, primo comma, num. 3 e num. 5, cod. proc. civ. – e, con riferimento a quest’ultimo, anche due fattispecie, l’omessa e l’insufficiente motivazione sul medesimo fatto, tra loro in contraddizione logica- e la lettura dell’intero corpo del relativo mezzo d’impugnazione evidenzia una sostanziale mescolanza e sovrapposizione di censure, che comporta l’inammissibile prospettazione della medesima questione sotto profili incompatibili, non risultando specificamente separati la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto sostanziali appropriate alla fattispecie e processuali, ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto, per cui può richiamarsi quanto argomentato ante, comprese le citazioni giurisprudenziali, in sede di trattazione del secondo motivo.
Il motivo è inoltre inammissibile anche perché, come ante rilevato nella trattazione del primo motivo, la motivazione della sentenza impugnata, ( a pag. 9, nella nota 2), con riferimento agli «atti di vendita in data 2005 e 1998 di due appartamenti nello stesso stabile», annota: « Atti che si assumono prodotti ma non figurano indicati tra le produzioni e non si rinvengono in atti.». Come già rilevato, infatti, tale annotazione comporta l’accertamento che gli stessi atti «non figurano indicati tra le produzioni», ovvero non sono stati prodotti. Pertanto, da un lato il motivo, in parte qua, è inammissibile perché non attinge una delle ratio decidendi della sentenza impugnata sulla questione; dall’altro, comunque, l’ipotetico errore percettivo della CTR, in ordine invece all’eventuale effettiva produzione in giudizio dei predetti documenti, avrebbe dovuto essere oggetto di revocazione e non ne è comunque ammissibile la denuncia in questa sede.
Infatti, come questa Corte ha già avuto modo di rilevare, «Il vizio di omesso esame di un documento decisivo non è deducibile in cassazione se il giudice di merito ha accertato che quel documento non è stato prodotto in giudizio, non essendo configurabile un difetto di attività del giudice circa l’efficacia determinante, ai fini della decisione della causa, di un documento non portato alla cognizione del giudice stesso. Se la parte assume, invece, che il giudice abbia errato nel ritenere non prodotto in giudizio il documento decisivo, può far valere tale preteso errore soltanto in sede di revocazione, ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c., sempre che ne ricorrano le condizioni.» (Cass. 11/06/2018, n. 15043; conformi Cass. 01/06/2007, n. 12904 e Cass. 15/07/1988, n. 4658). Infine, la ricorrente, nel motivo, non ha comunque neppure dedotto puntualmente in quale fase e con quale atto i medesimi documenti (e la relativa documentazione bancaria), a differenza di quanto rilevato nella sentenza impugnata, sarebbero stati invece prodotti nel primo grado di giudizio.
4. Nulla deve essere deciso sulle spese di questo giudizio, non avendo svolto alcuna difesa l’Amministrazione resistente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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