CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 giugno 2022, n. 18334
Lavoro – Addetto alla verifica dei titoli di viaggio -Alterazione del verbale di contravvenzione – Omessa annotazione della sanzione applicata alla passeggera – Licenziamento per giusta causa – Proporzionalità tra addebito e sanzione
Fatto
Con sentenza 16 ottobre 2019, la Corte d’appello di Genova ha rigettato il reclamo di M.C. avverso la sentenza di primo grado, di reiezione della sua opposizione all’ordinanza dello stesso Tribunale, che ne aveva rigettato l’impugnazione della destituzione per giusta causa intimatagli l’11 luglio 2017 dalla datrice A.M.T. s.p.a.
2. Come già il Tribunale, essa ha ritenuto l’infondatezza delle ragioni del lavoratore, relative alla tardività della contestazione (esclusa in relazione ai tempi e alle verifiche necessarie per l’acquisizione di una compiuta conoscenza datoriale del fatto da contestare, in applicazione del principio di cd. “immediatezza relativa”) e alla lesione del suo diritto di difesa (avendo egli potuto accedere ai documenti richiesti).
3. La Corte ligure ha quindi ribadito la colpevolezza del lavoratore in ordine all’inadempimento riguardante la redazione, nella sua qualità di addetto alla verifica dei titoli di viaggio, di un verbale di contravvenzione ad una passeggera, utilizzandone la copia di altro redatto il giorno prima nei confronti di cittadino extracomunitario, con alterazione dolosa dei dati anagrafici e dei documenti rilevati, appropriazione della somma di € 40,00 ricevuta dalla medesima passeggera per oblazionare la contravvenzione, senza annotare sul verbale la sanzione applicata. Ed essa ha pure ritenuto proporzionata la destituzione al fatto contestato, per gravità della condotta del lavoratore e suoi precedenti disciplinari.
4. Con atto notificato il 10 dicembre 2019, M.C. ha proposto ricorso per cassazione con due motivi, cui la società ha resistito con controricorso.
5. Il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte, a norma dell’art. 23, comma 8bis d.l. 137/20 inserito da l. conv. 176/20, nel senso del rigetto del rigetto del ricorso.
6. Entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione degli artt. 115, 116 c.p.c., 24 Cost., 2106 c.c., 7 l. 300/1970, 1375 c.c.ed omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’eccessiva durata del tempo (73 giorni) impiegato dalla società datrice per la contestazione, tale da pregiudicare il diritto di difesa del lavoratore alla luce del fatto addebitato, di cui ha offerto la ricostruzione.
2. Esso è inammissibile.
3. Giova premettere come, secondo il consolidato indirizzo di questa Corte in materia di licenziamento disciplinare, la tempestività della contestazione dell’addebito al lavoratore debba essere declinata in senso relativo, a motivo delle ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell’impresa, ferma la riserva di valutazione delle suddette circostanze al giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici (Cass. 12 gennaio 2016, n. 281; Cass. 26 giugno 2018, n. 16841; Cass. 20 settembre 2019, n. 23516).
3.1. Nel caso di specie, una tale valutazione è stata congruamente argomentata dalla Corte territoriale (dal secondo all’ultimo capoverso di pg. 9 della sentenza), in esatta applicazione del su enunciato principio di diritto (richiamato al primo capoverso di pg. 10 della sentenza) e il ricorrente ha ad essa contrapposto una propria valutazione alternativa, integrante non già l’error in iudicando formalmente denunciato, quanto piuttosto una diversa ricostruzione del fatto, indeducibile in sede di legittimità (Cass. 6 aprile 2011, n. 7921; Cass. 7 aprile 2017, n. 9097; Cass. 7 dicembre 2017, n. 29404).
4. Non si configura pertanto la violazione di norme di diritto solo apparentemente denunciata, in quanto non integrata dalla deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, implicante un problema interpretativo; posto che, nel caso di specie, si tratta piuttosto dell’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340), ovviamente nei limiti del novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., qui non ricorrente.
4.1. In particolare, ciò si verifica in riferimento all’art. 115 c.p.c., in difetto di quell’errore di percezione, tipicamente connotante la violazione, che cada sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, in contrasto con il divieto di fondare la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte (Cass. 12 aprile 2017, n. 9356); d’altro canto, neppure è configurabile una violazione dell’art. 116 c.p.c., ricorrente se si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato (in assenza di diversa indicazione normativa) secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisca ad una differente risultanza probatoria (ad esempio, di prova legale) oppure, se la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutarla secondo il suo prudente apprezzamento; quando invece si deduca che il giudice abbia soltanto male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. nei rigorosi limiti (qui, per le ragioni dette, non sussistenti) in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass. s.u. 30 settembre 2020, n. 20867);
5. il vizio di motivazione denunciato è poi palesemente inammissibile, neppure essendo deducibile, ricorrendo nel caso di specie un’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348ter, quinto comma c.p.c., applicabile ratione temporis, non avendo il ricorrente, come invece avrebbe dovuto per evitare appunto l’inammissibilità del motivo dedotto ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., indicato le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 22 dicembre 2016, n. 26774; Cass. 6 agosto 2019, n. 20994).
6. Il motivo si risolve pertanto in una sostanziale contestazione della valutazione probatoria sulla quale la Corte territoriale ha fondato l’accertamento operato, adeguatamente argomentato, insindacabile da questa Corte (Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 4 novembre 2013, n. 24679).
7. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce violazione degli artt. 2106 c.c., 7, 18 l. 300/1970, 1375 c.c., 41, 42, 45 Allegato A al r.d. 148/1931, per l’evidente sproporzione della sanzione della destituzione applicata al fatto come ricostruito, in assenza di un danno comportato dalla vicenda per il pronto versamento della somma ricevuta dalla passeggera, non appena resosi conto dell’errore: di ciò essendosi trattato e non di una deliberata volontà di falsificazione del verbale.
8. Esso è infondato.
9. In tema di licenziamento per giusta causa, deve essere ribadito che, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante in tal senso la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza; e che spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, attribuendo rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo (Cass. 13 dicembre 2012, n. 2013).
9.1. Ai fini della valutazione di proporzionalità è insufficiente, pertanto, un’indagine che si limiti a verificare se il fatto addebitato sia riconducibile alle disposizioni della contrattazione collettiva che consentono l’irrogazione del licenziamento, essendo sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza (Cass. 5 luglio 2019, n. 18195; Cass. 1 luglio 2020, n. 13411).
10. È noto che la valutazione di proporzionalità della sanzione disciplinare alla gravità dei fatti contestati, riguardante le ragioni che in sede di irrogazione della sanzione abbiano indotto il datore, nell’esercizio del suo potere disciplinare, a ritenere grave il comportamento del dipendente, appartenga al giudice del merito, il cui apprezzamento di legittimità e congruità della sanzione applicata, se sorretto da adeguata e logica argomentazione, si sottrae a censure in sede di legittimità (Cass. 8 gennaio 2008, n. 144; Cass. 26 gennaio 2011, n. 1788; Cass. 25 maggio 2012, n. 8293; 26 settembre 2018, n. 23046): come appunto nel caso di specie, per la valutazione congruatamente argomentata dalla Corte territoriale (dal penultimo capoverso di pg. 13 al primo periodo di pg. 14 della sentenza).
11. Dalle argomentazioni sopra svolte discende allora il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il lavoratore alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
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