Con il D.L. 26 ottobre 2019, n. 124, convertito con modificazioni dalla L. 19 dicembre 2019, n. 157, è stato introdotto l’articolo 25-quinquiesdecies al D.Lgs. n. 231/2001 con cui si è estesa la responsabilità amministrativa delle presone giuridiche (società ed associazioni) per i reati tributari. Inoltre l’art. 39, comma 3) del d.l. n. 124/2019, in ordine alla efficacia dell’art. 25-quinquiesdecies, prevede che “Le disposizioni di cui ai commi 1 a 2 hanno efficacia dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della legge di conversione del presente decreto”
L’articolo 25-quinquiesdecies dispone che “… 1. In relazione alla commissione dei delitti previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, si applicano all’ente le seguenti sanzioni pecuniarie:
a) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’articolo 2, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
b) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’articolo 2, comma 2-bis, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
c) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, previsto dall’articolo 3, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
d) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’articolo 8, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
e) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’articolo 8, comma 2-bis, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
f) per il delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili, previsto dall’articolo 10, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
g) per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, previsto dall’articolo 11, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote.
1-bis. In relazione alla commissione dei delitti previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, ((quando sono commessi al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto nell’ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri connessi al territorio di almeno un altro Stato membro dell’Unione europea, da cui consegua o possa conseguire un danno complessivo pari o superiore)) a dieci milioni di euro, si applicano all’ente le seguenti sanzioni pecuniarie:
a) per il delitto di dichiarazione infedele previsto dall’articolo 4, la sanzione pecuniaria fino a trecento quote;
b) per il delitto di omessa dichiarazione previsto dall’articolo 5, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
c) per il delitto di indebita compensazione previsto dall’articolo 10-quater, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote.
2. Se, in seguito alla commissione dei delitti indicati ai commi 1 e 1-bis, l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria e’ aumentata di un terzo.
3. Nei casi previsti dai commi 1, 1-bis e 2, si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, lettere c), d) ed e). …”
Per l’applicazione della responsabilità amministrativa della persona giuridica e/o associazione occorre verificare se sussisto i presupposti. L’art. 5 del D.Lgs. n. 231/2001 detta le condizioni per la responsabilità dell’ente. Infatti i reati presupposti devono essere commessi :
a) da persone che hanno la rappresentanza, l’amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità’ organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che di fatto abbiano la gestione ed il controllo dell’ente;
b) da persone che sono sottoposte alla direzione o vigilanza delle persone di cui al punto precedente;
c) nell’interesse oppure a vantaggio dell’ente .
Il d.lgs. n. 231/2001 prevede, nei casi in cui sia riconosciuta la responsabilità dell’ente, alla sezione II un sistema sanzionatorio ed in particolare gli art. 9 e 10. L’articolo prevede per l’ente riconosciuto responsabile degli illeciti le seguenti sanzioni (amministrative ed interdittive):
a) la sanzione pecuniaria;
b) le sanzioni interdittive;
c) la confisca;
d) la pubblicazione della sentenza.
Oltre alle sanzioni interdittive di seguito elencate:
a) l’interdizione dall’esercizio dell’attività;
b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito;
c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;
d) l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi;
e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
L’articolo 10 dispone sulla sanzione amministrativa pecuniaria. Infatti dispone che la sanzione pecuniaria viene applicata per quote in un numero non inferiore a cento ne’ superiore a mille e l’importo di una quota va da un minimo di lire cinquecentomila ad un massimo di lire tre milioni. Infine è vietato il pagamento in misura ridotta.
Per gli illeciti dell’ente aventi come presupposti i reati tributari e lo stesso articolo 25-quinquiesdecies che prevede la misura massima della sanzione pecuniaria.
Problematica del “ne bis in idem” tra le sanzioni di cui al d.lgs. n. 231/2001 e l’art. 7 D.L. 269/2003
Il Decreto Legge n. 269/2003, convertito con modificazione dalla legge n. 326/2003, con il comma 1 dell’art. 7 ha introdotto il principio per cui “Le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica”.
Per cui sono potenzialmente rinvenibili criticità tra il sistema sanzionatori di cui al d.l. n. 269/2003 e del d.lgs. n. 231/2001 in ordine ai reati tributari.
Sul punto la Corte di Cassazione, sezione penale, con la sentenza n. 8785 depositata il 4 marzo 2020 ha affermato che “… l’irrogazione per il medesimo fatto sia di una sanzione penale che di una sanzione amministrativa definitiva – ai sensi degli artt. 185 e 187-ter, d.lgs. 24 febbraio 1998, n.58 – non determina la violazione del principio del ne bis in idem, a condizione che il cumulo delle sanzioni risulti proporzionale alla gravità del fatto commesso, in conformità ai principi di cui agli artt. 49, 50 e 52 CDFUE, nonché 4 Prot. n. 7 CEDU, così come interpretati dalle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea C-524/15, Menci; C-537/16, Garlsson Real Estate, nonché dalla sentenza della Corte EDU del 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia (Sez. 5, n. 45829 del 16/07/2018 – dep. 10/10/2018, F, Rv. 274179-02; in senso conforme: Sez. 3, n. 6993 del 22/09/2017 – dep. 14/02/2018, Servello, Rv. 272588 – 01). …” (Cass. sentenza n. 39999 del 2018)
Per cui secondo il Supremo consesso per la valutazione del rispetto del principio “ne bis in idem” occorre procedere secondo il criterio della proporzionalità della sanzione punitiva complessiva irrogata rappresenta.
La dottrina nutre perplessità sulla compatibilità al principio “ne bis in idem”. Infatti l’esigenza di coordinare le sanzioni amministrative di cui al d.lgs. 231/2001 all’interno del divieto di bis in idem e del principio di proporzionalità, alla luce della natura ‘punitiva’ delle sanzioni tributarie d il regime sanzionatorio introdotto da ultimo anche dalla Direttiva PIF che ha introdotto numerose misure afflittive sostanzialmente omnicomprensivo, la cui legittimità è subordinata al rispetto del principio del ne bis in idem, in continuità con le conclusioni delineate nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea e della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Primi orientamenti giurisprudenziali
La Corte di Cassazione, sezione penale, con la sentenza n. 16302 depositata il 28 aprile 2022, in tema responsabilità ai sensi del D. Lgs. n. 231/2001 per i reati tributari, ha precisato che “… deve pertanto ritenersi che ricorrono, […], tutti i presupposti fattuali e giuridici della ipotizzata responsabilità della società ricorrente ai sensi dell’art. 25-quinquiesdecies d.lgs. n. 231 del 2001, […]. …”
La vicenda ha riguardato una società di capitale ricorrendo ad una somministrazione illecita di manodopera, aveva determinato una concorrenza sleale tra imprese, per la conseguente alterazione delle regole di mercato, comportando lo sfruttamento dei lavoratori e producendo evasioni fiscali e contributive, con particolare riferimento all’evasione IVA. Per cui i suddetti fatti era stata ritenuta colpevole la società contribuente nonché i vertici amministrativi della stessa, in quanto «ponevano in essere l’illecito penale di cui all’art. 2 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 nell’interesse e a vantaggio della società, che otteneva un vantaggio patrimoniale […]»
La suddetta sentenza è la prima che si occupa ed applica nei confronti di una società la responsabilità amministrativa ex D.Lgs. 231/20011 per la commissione di un reato tributario, nella specie per l’illecito amministrativo derivante dalla commissione del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti per illecita somministrazione di manodopera a mezzo finti contratti di appalto.
Gli Ermellini, a seguito del ricorso in cassazione da parte della società che ha impugnato l’ordinanza con la quale il tribunale del riesame ha confermato il decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP, hanno respinto il ricorso della società.
I giudici di legittimità hanno ribadito che “… in tema di interposizione di manodopera, affinché possa configurarsi un genuino appalto di opere o servizi ai sensi dell’art. 29, comma 1, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, è necessario verificare, specie nell’ipotesi di appalti ad alta intensità di manodopera (cd. “labour intensive”), che all’appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato in sé autonomo, da conseguire attraverso una effettiva e autonoma organizzazione del lavoro, con reale assoggettamento al potere direttivo e di controllo sui propri dipendenti, impiego di propri mezzi e assunzione da parte sua del rischio d’impresa, dovendosi invece ravvisare un’interposizione illecita di manodopera nel caso in cui il potere direttivo e organizzativo sia interamente affidato al formale committente (ex multis, Cass. civ., Sez. 6 – L, n. 12551 del 25/06/2020, Rv. 658115 – 01; nello stesso senso la giurisprudenza europea, v. Corte Giustizia 6 marzo 2014, causa C-458/12, Amatori, con riferimento al trasferimento di azienda o di ramo di azienda). …”
Pertanto per il Supremo consesso “… La corretta applicazione dell’Iva nell’interposizione di manodopera si ha solo quando, in conformità alla normativa che regola la materia, i rapporti tra il committente e l’agenzia interinale/appaltatore/datore di lavoro terzo esiste una “reale” interposizione di manodopera. In caso contrario, ossia in presenza, come nella specie, di un comportamento elusivo nell’interposizione di manodopera, l’Iva è applicata indebitamente e, dunque, non è detraibile.
Tale principio è stato affermato più volte dalla Sezione tributaria della Corte di cassazione, la quale ha chiarito che, in caso di accertamento del carattere fraudolento dell’intermediazione di manodopera, l’IVA che il committente (nella specie) assume di avere pagato al preteso appaltatore per l’operazione soggettivamente inesistente – in quanto corrisposta ad un soggetto che non era legittimato ad operare la rivalsa in ragione del divieto di intermediazione e del carattere fraudolento dell’operazione negoziale – non è detraibile ai sensi del d.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, proprio per il fatto che l’alterazione del meccanismo di riscossione dell’imposta in questione, attraverso la realizzazione di comportamenti illeciti dei contribuenti, non consente il dispiegamento dell’ordinaria operatività del diritto alla detrazione dell’imposta sulle operazioni passive dell’imprenditore o del professionista (Cass. civ., Sez. 5, n. 16852 del 20/05/2013, non mass.; Cass. civ., Sez. 5, n. 10475 del 11/12/2013, dep. 2014, non mass.; Cass. civ., Sez. 5, n. 17805 del 18/07/2017, dep. 2018, non mass.). …”
Inoltre sul tema della detraibilità dell’IVA per operazioni finalizzate all’evasione “… anche la Corte di Giustizia europea ha, difatti, più volte affermato che il beneficio della detrazione non è accordabile, sia per il diritto comunitario che per il diritto interno che ad esso si conforma, qualora sia dimostrato che lo stesso beneficio sia invocato dal contribuente fraudolentemente o abusivamente. Secondo la Corte europea, invero, il diritto alla detrazione, previsto dagli artt. 167 e ss. della direttiva 2006/112, e costituente parte integrante del meccanismo di traslazione dell’imposta proprio dell’IVA in ambito comunitario, può essere negato solo quando risulti dimostrato da parte dell’amministrazione finanziaria, “alla luce di elementi oggettivi” che il soggetto passivo al quale siano stati forniti i beni o i servizi, posti a fondamento del diritto alla detrazione, “sapeva o avrebbe dovuto sapere che tale operazione si iscriveva in un’evasione commessa dal fornitore o da un altro operatore a monte”. …”
I giudici di piazza Cavour hanno precisato sulla base del proprio orientamento tra cui la “… Sez. 3, n. 31202 del 14/03/2019, Soave, non mass., ha riconosciuto corretta la qualificazione nei termini di configurabilità del delitto di frode fiscale nel caso della società utilizzatrice di fatture che, avendo quale oggetto sociale attività logistica nel settore dell’alta moda per noti marchi internazionali, aveva appaltato i servizi di facchinaggio e le prestazioni accessorie (quali pulizia, etichettatura dei capi, confezionamento ecc.) a vari consorzi che, a loro volta, avevano assegnato tali attività alle cooperative facenti parte dei primi che operavano nei magazzini della società utilizzatrice presenti nel territorio nazionale. […] Tale meccanismo, dunque, aveva permesso alla società utilizzatrice di impiegare la manodopera messa a disposizione delle cooperative instaurando di fatto – attraverso l’elusione delle norme imperative in materia giuslavoristica – un rapporto in tutto assimilabile a quello di lavoro dipendente; con la conseguenza, sotto il profilo fiscale, che le fatture emesse dalle società consorziate erano da qualificare come oggettivamente inesistenti «in quanto, pur essendo state emesse avuto riguardo ad una prestazione “reale” – e cioè quella collegata alla somministrazione del lavoro – nel caso di specie, non è prevista ab origine la fatturazione (in quanto vietata ai sensi dell’art. 18 del d.lgs. 276 del 2003), con la conseguenza che la società appaltante avrebbe inserito le relative fatture in contabilità, facendo figurare elementi passivi fittizi e detraendo IVA per tali operazioni».
Più in generale, sul tema dell’indetraibilità dell’Iva, la giurisprudenza penale di legittimità (ex multis, Sez. 3, n. 42994 del 07/07/2015, De Angelis, in motiv.), in conformità ai principi affermati dalla giurisprudenza tributaria, ha chiarito che, anche nel caso di emissione della fattura per operazioni soggettivamente inesistenti, viene a mancare lo stesso principale presupposto della detrazione dell’Iva, costituita dall’effettuazione di un’operazione, giacché questa (riferendosi il d.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 1, all’imposta relativa alle “operazioni effettuate”) deve ritenersi carente anche nel caso in cui i termini soggettivi dell’operazione non coincidano con quelli della fatturazione. …”
Pertanto per la Suprema Corte gli appalti c.d. “fittizi” determinano “l’inesistenza soggettiva delle fatture, comportando l’indetraibilità dell’IVA esposta in dichiarazione” ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. 74/2000, con conseguente responsabilità dell’ente coinvolto ai sensi dell’art. 25-quinquedecies del D.Lgs. 231/2001.
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