Corte di Cassazione sentenza n. 1153 del 27 gennaio 2012
ACCERTAMENTO – STUDI DI SETTORE – SI APPLICANO ANCHE IN PRESENZA DI CONCORRENZA SLEALE
massima
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Il contribuente che afferma di subire la concorrenza sleale da attività svolte abusivamente non sfugge ai parametri. Siffatta attività non può essere una giustificazione che esima dall’onere della prova. Se il contribuente nella fase anteriore al contenzioso non fornisce spiegazioni convincenti tali da smontare la pretesa del Fisco, l’onere probatorio ricade unicamente sul contribuente stesso. In particolare i parametri rappresentano una presunzione semplice, la cui gravità, precisione e concordanza nasce dall’esito del contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento stesso. In questa fase, infatti, il cittadino ha l’onere di provare senza alcuna limitazione di mezzi e di contenuto la sussistenza di condizioni che hanno portato a dichiarare un reddito diverso da quello previsto dai parametri per quella determinata attività.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – MOTIVI DELLA DECISIONE
1. P.F.A. e C.R. propongono ricorso per cassazione nei confronti dell’Agenzia delle Entrate (che resiste con controricorso) e avverso la sentenza con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento di maggiori ricavi ai fini Irpef e Ilor per l’anno 1996, la C.T.R. Calabria, in accoglimento dell’appello dell’Ufficio, riformava la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso introduttivo.
2, Preliminarmente deve essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto da C.R. che dalla sentenza impugnata non risulta essere stata parte nei precedenti gradi di giudizio.
Col primo motivo di ricorso, deducendo violazione dell’art. 2697 c.c., il P. si duole del fatto che l’amministrazione non abbia motivato in sede provvedimentale nè provato in sede processuale le ragioni della applicabilità alla fattispecie dei parametri invocati, pur gravando su di essa l’onere di provare la pretesa tributaria, e conclude il motivo col seguente quesito:
“laddove, come nel caso in questione, l’accertamento è effettuato a carico di chi opera in un sistema economico a prezzi amministrati e/o in un contesto socio-economico caratterizzato dalla diffusa concorrenza di similari attività svolte abusivamente e/o con un valore reale dei beni strumentali basso (come si evince dal rapporto tra le immobilizzazioni cartolari e le bassissime quote di ammortamento), utilizzando gli schemi previsti dai D.P.C.M. del 29.01.1996 e del 27.03.1997, l’Autorità Finanziaria è tenuta a motivare adeguatamente il provvedimento di avviso e, in fase processuale, a sopportare il preciso onere probatorio fissato dall’art. 2697 c.c. (onde dimostrare la presunta evasione fiscale) ovvero a dedurre indizi gravi, precisi e concordanti che giustificano il ricorso alle presunzioni semplici?”.
Premesso che, secondo la giurisprudenza di legittimità, la sci azione ex art. 380 bis c.p.c., è priva di valore vincolante e ben può essere disattesa dall’organo giudicante, ossia dal collegio in camera di consiglio, che mantiene pieno potere decisorio (v. SU n. 7433 del 2009), il collegio ritiene la censura in parte infondata e in parte inammissibile. Infatti, anche prescindendo dalla inadeguatezza del quesito (dal quale non risulta envincibile quale sia stata la ratio decidendi espressa dai giudici d’appello e quale sia la regula iuris applicabile secondo il ricorrente), è innanzitutto da rilevare che la censura, per la parte riguardante la motivazione dell’avviso opposto, difetta di autosufficienza, non essendo stato riportato in ricorso il testo integrale dell’avviso suddetto ed essendo appena il caso di sottolineare che la adeguatezza della motivazione di un atto deve essere valutata sulla base del tenore complessivo del medesimo atto.
Quanto alla censura concernente l’asserita erronea applicazione dei principi in materia di onere della prova, occorre rilevare che le SU di questa Corte, con sentenza n. 26635 del 2009, hanno affermato che la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza, pur non essendo ex lege determinata dal mero scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati, “nasce in esito al contraddittorio, da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente, il quale, in tale sede, ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame”. Tanto premesso, occorre evidenziare che, secondo quanto si legge nella sentenza impugnata (non specificamente censurata sul punto), “l’Ufficio, in considerazione del fatto che i ricavi dichiarati erano inferiori a quelli calcolati, ha invitato il contribuente ad esporre e documentare i fatti e le circostanze idonee a giustificare lo scostamento dei ricavi dichiarati da quelli determinati con l’applicazione dei parametri. A fronte di tale formale invito l’appellato non ha fornito alcun elemento idoneo a giustificare lo scostamento rilevato”, ed occorre altresì rilevare che dalla suddetta sentenza non risulta che il contribuente abbia in alcun modo allegato e provato, neanche in sede contenziosa, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame.
Il secondo motivo del ricorso proposto dal P. (col quale, deducendo violazione di legge, il ricorrente, premesso l’avviso opposto era fondato sui parametri previsti dal D.P.C.M. 29 gennaio 1996, si duole che i giudici d’appello non abbiano disapplicato il suddetto D.P.C.M. e quello successivo del 1997 benché adottati in violazione del procedimento previsto dalla L. n. 400 del 1988, art. 17, in particolare senza il preventivo parere del Consiglio di Stato) deve essere esaminato prioritariamente per ragioni logiche. Esso è infondato alla luce della giurisprudenza di questo giudice di legittimità secondo la quale il D.P.C.M. 29 gennaio 1996, (sulla “Elaborazione dei parametri per la determinazione di ricavi, compensi e volume d’affari sulla base delle caratteristiche e delle condizioni di esercizio sull’attività svolta”, determinati ai sensi della L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, comma 181) non viola la L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, per essere stato emanato senza il parere preventivo del Consiglio di Stato, in quanto non è un atto di natura regolamentare – né attuativo di legge, ai sensi del primo comma, nè delegificante, ai sensi del comma 2 -, non essendo espressione di una potestà normativa, secondaria rispetto a quella legislativa, attribuita all’amministrazione, e non disciplina in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una regolazione attuativa o integrativa della legge, ma è solo un provvedimento amministrativo a carattere generale, in quanto espressione di una semplice potestà amministrativa, essendo rivolto alla cura concreta di interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari non necessariamente determinati nel provvedimento, ma determinabili (v. Cass. n. 16055 del 2010 e n. 27656 del 2008).
Alla luce di quanto sopra esposto, deve essere dichiarato inammissibile il ricorso proposto da C.R. e deve essere rigettato il ricorso proposto da P.F.A.
Considerato lo sviluppo processuale della vicenda, e l’intervento della citata sentenza delle Sezioni Unite in epoca posteriore alla proposizione del ricorso, si dispone la compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso proposto da C.R. e rigetta il ricorso proposto da P.F.A.
Compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
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