CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 29 maggio 2013, n. 13312
Sconto e detrazione d’imposta versata sulla nota di variazione – Premio o bonus – Differenze
Ritenuto in fatto
Con sentenza del 14 novembre 2006 la CTR-Veneto rigetta l’appello proposto dalla Soc. A. nei confronti dell’Agenzia delle entrate confermando l’avviso di accertamento che, relativamente all’anno d’imposta 1998, ha recuperato maggiore IVA per effetto sia del disconoscimento fiscale degli sconti accordati dalla contribuente ai clienti affiliati (non soci), sia della rettifica della minor aliquota erroneamente applicata ai clienti stessi per “contributi spese” integrativi del prezzo di acquisto di prodotti agricoli.
Il giudice d’appello osserva che gli sconti di fine anno, accordati a soggetti affiliati (diversi dai soci), devono essere qualificati come premi d’incentivazione non soggetti a IVA (art. 2 e.3 d.iva) e non suscettibili di essere considerati con note di variazione degli imponibili e dell’imposta dovuta (art. 26 d.iva). Rileva, inoltre, che la differenza tra il prezzo di acquisto e quello di rivendita costituisce provvigione per l’attività d’intermediazione svolta dalla contribuente a fini commerciali e non mutualistici; sicché detto compenso è soggetto all’aliquota fiscale ordinaria e non a quella ridotta prevista per i corrispettivi dei prodotti agricoli.
Propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi e memoria, la Soc. A.. l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso; invece la compagine ministeriale, pure intimata, non svolge attività difensiva.
Considerato in diritto
(I) In rito, preliminarmente, si rileva la carenza di legittimazione processuale dell’altro soggetto evocato dinanzi a questa Corte, il Ministero dell’economia e delle finanze, che non è stato parte nel giudizio di agenzie fiscali. La chiamata ministeriale in cassazione è, dunque, inammissibile e il ricorso della contribuente va esaminato unicamente riguardo all’Agenzia delle entrate, che è la sola a essere legittimamente intimata.
(II) Nel merito, con il primo motivo, denunciando vizio di ultrapetizione, la ricorrente sostiene che – considerando gli sconti concessi ai clienti affiliati (ma non soci) come premi d’incentivazione e i rimborsi spese riscossi come provvigioni – il giudice d’appello viola il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, atteso che tali qualificazioni, estranee all’atto impositivo, non rientrano nell’oggetto del contendere.
Il motivo non è fondato.
Ove sia denunciato “error in procedendo”, qual è il vizio di ultra o extrapetizione, questa Corte è sì giudice del fatto processuale e ha sì il potere/dovere di esaminare direttamente gli atti di causa, però l’esercizio di tale potere/dovere necessita che la parte ricorrente specifichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame. Sicché il corrispondente motivo deve contenere, per il principio di autonoma specificità del ricorso per cassazione, tutte le precisazioni e i riferimenti indispensabili per individuare la dedotta violazione processuale (Sez.5, Sentenza n.1170 del 23/01/2004, Rv.569603).
Nulla di quanto necessario è leggibile nel ricorso, riguardo al primo mezzo, né valgono in supplenza le ulteriori allegazioni (anche documentali) fatte dalla ricorrente con la memoria illustrativa di cui all’art. 378 c.p.c. (Sez. L, Sentenza n.21379 del 04/11/2005, Rv.584674; Sez.3, Sentenza n.7260 del 07/04/2005, Rv.581456 Sez.2, Sentenza n.13483 del 10/10/2000, Rv.540918).
Di contro, la difesa erariale evidenzia, con opportune trascrizioni, da un lato, che è proprio la società contribuente a introdurre nel ricorso di prime cure la questione dei “premi concessi a chiusura dell’esercizio” e ad affermare che “nella prassi commerciale vanno sotto il nome di ristorno differito o premio di fedeltà”, dall’altro, che nell’atto impositivo si parla del rimborso spese come “unica fonte di ricavo per la società” e del fatto che “la società … svolge attività di intermediazione di prodotti agricoli tra i clienti soci e affiliati e i propri fornitori curando la raccolta”.
(III) Passando agli altri due mezzi, con la prima censura del secondo motivo e con il terzo motivo, la ricorrente denuncia vizio motivazionale e violazione dell’art. 26 d.iva, per avere il giudice d’appello erroneamente qualificato come premi – e non come sconti – gli abbuoni accordati a fine anno ai clienti affiliati, mercé ripartizione dei vantaggi accordati dalle ditte fornitrici alla Soc. A. per il raggiungimento di determinati livelli di acquisti.
Assume, in particolare, che la sentenza impugnata trascura la circostanza – pur documentata – che la scontistica sarebbe specificamente regolata nei rapporti contrattuali tra la Soc. A. e i clienti affiliati. I mezzi non fondati.
Va data ulteriormente continuità al principio (Sez.5, Sentenza n.26513 del 12/12/2011, Rv.620845) secondo cui il ricorso alla procedura di variazione prevista dall’art. 26 c. 2 d.iva per l’applicazione di abbuoni o sconti, con la connessa riduzione dell’ammontare imponibile, richiede una duplice condizione:
– che sia praticato al cessionario o committente, dal cedente o dal prestatore, uno sconto sul prezzo della vendita effettuato;
– che la riduzione del corrispettivo al cliente sia il frutto di un accordo, il quale può essere documentale, o verbale, e persino successivo, purché del medesimo sia fornita la prova, da parte dei soggetti interessati, mediante la trasfusione del patto stesso in note di accredito, emesse da una parte a favore dell’altra, con l’allegazione della causale che, volta per volta, abbia giustificato gli sconti medesimi.
Invero, l’art. 26 espressamente prevede che la riduzione dell’ammontare imponibile possa aver luogo, fra l’altro, “in conseguenza dell’applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente”.
Ne consegue che quando il giudice di merito escluda la dimostrazione di una qualsivoglia previsione contrattuale in tal senso, è illegittimo il ricorso alla procedura di variazione (Sez.5, Sentenza n.318 dell’11/ 01/2006, Rv.586264).
E’, infatti, preciso onere della parte contribuente fornire elementi certi dai quali desumere che oggetto della pattuizione siano degli sconti e non “un premio di fine anno”, che non dà diritto a detrazione, trattandosi non di componente che incide direttamente sul prezzo della merce, ma di contributo autonomamente riconosciuto a fine esercizio al cliente in base al raggiungimento di un determinato fatturato, e quale incentivo per future operazioni (Sez. 5, Sentenza n. 6475 del 19/03/2007, Rv.597030).
Perciò si è ritenuto che lo sconto o abbuono praticato sul prezzo di fornitura, che attribuisce al cedente, ai sensi degli artt. 19 e 26 d.iva, il diritto di portare in detrazione l’imposta versata sulla nota di variazione, previa registrazione della stessa, si deve necessariamente distinguere dal premio o “bonus” riconosciuto ai cessionari, periodicamente o a fine rapporto, in funzione del conseguimento di specifici obiettivi o risultati contrattualmente predeterminati, al quale si applica un diverso regime fiscale.
Infatti, come si è detto, lo sconto è componente che incide direttamente sul prezzo della merce o del servizio, riducendone l’ammontare dovuto per le singole operazioni poste in essere, mentre il premio è un contributo autonomo riconosciuto indistintamente a fine esercizio al cliente al raggiungimento di un fatturato determinato o per incentivarlo a futuri acquisti (Sez. 6-5, Ordinanza n. 5208 del 30/03/2012, Rv. 621734). Gli approdi della giurisprudenza nazionale sopra riassunti trovano riscontro implicito anche nella giurisprudenza comunitaria, che si sofferma sulla necessaria correlazione tra sconto o abbuono concesso all’acquirente finale dal dettagliante e l’operazione imponibile originaria tra il fornitore e il dettagliante (CGCE, 24/10/1996, C-217/94, E. s.r.l., in tema buoni-rimborso).
Nella specie, si ammette in ricorso che i vantaggi accordati dai fornitori alla Soc. A. – e da questa ripartiti tra gli affiliati – siano incentivi al raggiungimento di determinati obiettivi di acquisto. Infatti, è la stessa ricorrente ad affermare – pag. 9-che nei contratti con gli affiliati v’è “…l’impegno da parte della società A. s.r.l. di riversare anche ai clienti non soci o affiliati gli sconti o gli abbuoni ottenuti al fine di ogni campagna agraria per effetto del cumulo di acquisti realizzato”.
Dunque, quello riversato agli acquirenti affiliati altro non è che la quota parte del contributo autonomo riconosciuto indistintamente a fine esercizio alla soc. A. dai suoi fornitori quale premio di fine anno per il raggiungimento di determinati livelli di fatturato.
Il riconoscimento – anche se contrattuale – ai clienti affiliati alla soc. A. della rispettiva quota parte di tale contributo autonomo non incide, dunque, direttamente sul prezzo delle singole merci compravendute, riducendone l’ammontare dovuto per le singole operazioni compiute, ma resta pur sempre un semplice “bonus” riconosciuto ai cessionari in funzione di obiettivi predeterminati.
(IV) Passando agli altri mezzi, con la seconda censura del secondo motivo e con il quarto motivo, la ricorrente denuncia vizio di motivazione e violazione degli artt. 12-13 d.iva, assumendo che – contrariamente all’assunto del giudice d’appello – i cd. “contributi spese” devono essere assoggettati alle stesse aliquote relative alle cessioni dei prodotti agricoli, “giacché trattasi di somme dovute per prestazioni accessorie non autonome rispetto alla prestazione principale e comunque concorrenti a formare l’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti dai clienti in forza di esplicite clausole contrattuali”. I mezzi sono fondati.
Premesso che la contribuente parla di un corrispettivo di rivendita “maggiorato di una percentuale concordata annualmente prima dell’inizio delle forniture” (ric. pag.10) e “descritto in fattura come <contributo spese>” (ric. pag.15), il giudice d’appello ritiene che detto contributo vada trattato, ai fini IVA, quale separata “provvigione per l’attività commerciale svolta”, a sua volta, soggetta ad aliquota autonoma e maggiore. Tale conclusione, invece, trascura il nesso di accessorietà previsto dall’art. 12 d.iva e – soprattutto – la nozione di prestazione unitaria scaturente dall’art. 11 c. 2 (lett. b) della sesta direttiva.
La norma comunitaria, infatti, fa rientrare nella medesima base imponibile le spese accessorie addebitate all’acquirente da parte del cedente, riguardo a prestazioni che non costituiscono per il cliente un fine a sé stante, bensì il mezzo per fruire nelle migliori condizioni della prestazione principale (CGCE, 05/06/1997, C-2/95, Sparekassernes Datacenter; 11/06/2009, C-572/07, RLRE Telmer Property), in regime cioè di dipendenza funzionale (CGCE, 01/12/2005, C-394/04 e C-395/04), onde ottenere una prestazione economica unica, indissociabile e solo artificiosamente scomponibile (CGCE, 11/02/2010, C-88/09), qual è appunto – nelle specie – la rivendita di merci a prezzo maggiorato mediante “contributo spese”.
Inoltre, l’art.13 d.iva afferma al comma 1 che “la base imponibile delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi è costituita dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali, compresi gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione e i debiti o altri oneri verso terzi accollati al cessionario o al committente, aumentato delle integrazioni direttamente connesse con i corrispettivi dovuti da altri soggetti”.
Mentre al comma 2 precisa che “agli effetti del comma 1 i corrispettivi sono costituiti … b) per i passaggi di beni dal committente al commissionario o dal commissionario ai committente, di cui all’art. 2, comma 2, n. 3 rispettivamente dal prezzo di vendita pattuito dal commissionario, diminuito della provvigione, e dal prezzo di acquisto pattuito dal commissionario, aumentato della provvigione”.
Dunque, “per i passaggi di beni dal committente al commissionario o dal commissionario al committente” la provvigione – spettante a chi “agisce in nome proprio ma nell’interesse di altro soggetto” e deve essere considerato quale “operatore in proprio” (Sez.5 n.11267 del 27/08/2001) – rappresenta una componente da aggiungere al prezzo di fornitura (cfr. art. 6 §4 sesta direttiva).
Ne deriva che anche per l’art. 13 il corrispettivo di vendita pattuito con il committente va considerato globalmente e integralmente come prezzo dell’operazione economica (Sez. 5, Sentenza n. 14780 del 05/07/2011, Rv. 618480).
Dunque, la filiera commerciale [fornitore -> rivenditore -> acquirente finale] non si discosta neppure dallo schema divisato dall’art. 13 d.iva e dell’art. 6 della sesta direttiva nell’individuare il prezzo imponibile come comprensivo delle spese di produzione del servizio.
In conclusione, rigettati gli altri mezzi, si deve accogliere parzialmente il ricorso nei sensi di cui in motivazione sub § IV, e, cassata la sentenza d’appello “in parte qua”, si deve accogliere nel merito (art. 384 c.p.c.) il ricorso della contribuente limitatamente al capo di domanda sull’aliquota per “contributi spese”. La spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo; l’evolversi della vicenda processuale fa stimar equa la compensazione delle spese dei gradi di merito. Nessuna pronunzia va adottata riguardo al Ministero, che, erroneamente intimato, non svolge attività difensiva.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso nei confronti del Ministero intimato e lo accoglie parzialmente, nei sensi di cui in motivazione, verso l’Agenzia controricorrente.
Cassa nei limiti dell’accolto la sentenza d’appello e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo della contribuente limitatamente alla ripresa sui “contributi spese”.
Condanna la controricorrente alle spese del giudizio di legittimità liquidate in complessivi € 6500 (di cui € 200 per esborsi), oltre agli oneri di legge; compensa le spese dei gradi di merito.
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