Corte di Cassazione sentenza n. 167 del 07 gennaio 2013
PROCEDIMENTO CIVILE – PROCEDIMENTO IN MATERIA DI LAVORO E DI PREVIDENZA – DISPOSITIVO DELLA SENTENZA – ATTO AVENTE RILEVANZA ESTERNA – EFFETTI
massima
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Nel rito del lavoro il dispositivo della sentenza non è – come nel rito ordinario – un atto puramente interno, modificabile dallo stesso giudice fino a quando la sentenza non venga pubblicata, ma è atto di rilevanza esterna, che racchiude gli elementi del comando giudiziale i quali non possono essere mutati in sede di redazione della motivazione, atteso che la sua lettura in udienza fissa in maniera immodificabile tale comando portandolo ad immediata conoscenza delle parti.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
G. F., dipendente di T. S.p.A., il 16 agosto 2000 è stato licenziato dal datore di lavoro ex art. 2119 c.c. Ha contestato il licenziamento con ricorso al Tribunale di Roma e il giudice adito ha accolto la domanda, dichiarando illegittimo il recesso e reintegrandolo nel posto di lavoro.
Tale decisione è stata impugnata da T. S. p.A. e la Corte di Appello di Roma, in accoglimento del gravame, con sentenza del 4 novembre 2005 ha dichiarato legittimo il licenziamento, rigettando l’originaria domanda proposta dal lavoratore.
In ottemperanza a tale sentenza, T. S.p.A. – che, in forza della sentenza di primo grado aveva reintegrato il lavoratore nel posto di lavoro -comunicava al lavoratore la cessazione del rapporto di lavoro con effetto immediato.
Il lavoratore, ritenendo che tale comunicazione configurasse un nuovo licenziamento, risultando dalla stessa che il recesso era stato intimato non solo in relazione alla sentenza della Corte di Appello del 4 novembre 2005, ma “anche”per altre ragioni, promuoveva altro giudizio nei confronti di T. S.p.A., chiedendo dichiararsi illegittimo il secondo licenziamento e di essere reintegrato nel posto di lavoro.
Il Tribunale adito rigettava il ricorso e tale decisione veniva confermata dalla Corte di Appello di Roma con sentenza del 5 marzo 2010, oggetto del presente giudizio.
Ha osservato la Corte territoriale che era passata in giudicato la sentenza della Corte di Appello del 4 novembre 2005 che aveva accertato la legittimità del licenziamento; che la comunicazione di T. al lavoratore di cessazione del rapporto non costituiva un autonomo licenziamento, ma una presa d’atto della avvenuta riforma della sentenza di primo grado che aveva ritenuto illegittimo il recesso; che, una volta accertata la legittimità del licenziamento, correttamente il datore di lavoro in data 10 novembre 2005 aveva comunicato al lavoratore la definitiva cessazione del rapporto, atteso che la sentenza di appello che aveva rigettato la domanda del lavoratore si era sostituita immediatamente, ex art. 336, comma 2, c.p.c., a quella di primo grado sulla scorta della sola lettura del dispositivo, senza che fosse necessario attendere il deposito della motivazione.
Per la riforma di tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore sulla base di tre motivi. La società T. ha resistito con controricorso. Le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione degli articoli 24, comma 2, Cost., 1362 e seguenti c.c., 2118, 2119, 2697 c.c., 115, 116 c.p.c., 2, commi 2 e 3, e 5 della legge 15 luglio 1966 n. 604, 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300, in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 3 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio in relazione al n. 5 dello stesso articolo, il ricorrente deduce che dal tenore della comunicazione di T. del 10 novembre 2005 (“Anche in relazione a quanto disposto dalla Corte di Appello di Roma in data 04 novembre u.s. con la presente la scrivente Società Le comunica la propria intenzione di voler cessare con effetto immediato il rapporto di lavoro con Ella intercorrente”) ed in particolare dalla presenza della congiunzione “anche” in apertura, non erano desumibili i motivi che avevano determinato la cessazione del rapporto di lavoro. Non era stato infatti precisato il contenuto della statuizione della Corte di Appello di Roma né era stata indicata “una riaffermata validità del licenziamento del 16.08.2000”.
Secondo le regole di ermeneutica contrattuale era pertanto logico e coerente ritenere che il recesso fosse inefficace perché non sorretto da alcun motivo. In ogni caso era stato vulnerato il diritto di difesa del lavoratore, non essendo stato il medesimo posto in grado di approntare alcuna difesa.
2. Con il secondo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione degli articoli 431, 475 c.p.c., 153 disp. att. c.p.c., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio nonché illogicità della motivazione, in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 3 e 5 c.p.c., il ricorrente deduce che è errata l’affermazione della Corte territoriale secondo cui, una volta accertata in appello, in riforma della sentenza di primo grado, la legittimità del licenziamento, questo riacquista ex tunc la sua efficacia, per cui il datore di lavoro non ha altro onere se non quello di comunicare la definitiva cessazione del rapporto di lavoro per effetto della pronuncia giudiziale.
Una siffatta affermazione è, ad avviso del ricorrente, illogica perché confonde il procedimento disciplinare con il procedimento giudiziale che non prevede, per ottemperare ad una sentenza, “una semplice comunicazione ma necessita dell’esperimento di una serie di procedure previste e regolamentate da precise regole a tutela dei diritti ed interessi coinvolti”.
Peraltro, nella specie la sentenza di riforma nulla disponeva in ordine agli effetti già prodottisi, onde era necessaria una statuizione specifica per l’allontanamento del ricorrente dal servizio.
Deduce infine profili di contraddittorietà nella motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui viene dato rilievo, ai fini della caducazione immediata della sentenza riformata, ora alla lettura del dispositivo in udienza ora alla pubblicazione della sentenza.
3. Con il terzo motivo, denunziando ex art. 360, primo comma, n. 3 e 5, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cost., 132, 327, 431 c.p.c., 119 disp. att. c.p.c. omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, nonché illogicità della motivazione, il ricorrente deduce che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale, nelle controversie di lavoro la decisione non acquista valore di sentenza sulla base del solo dispositivo letto in udienza, dovendo esso essere integrato dalla motivazione che, giusta il dettato dell’art. 111 Cost., deve accompagnare tutti i provvedimenti giudiziali.
4. Il primo motivo non è fondato.
È principio consolidato di questa Corte – che va qui ribadito – che nell’interpretazione degli atti unilaterali, il canone ermeneutico di cui all’art. 1362, primo comma, c.c., impone di accertare esclusivamente l’intento proprio del soggetto che ha posto in essere il negozio (v., fra le altre, Cass. 1 giugno 2002 n. 7973, Cass. 30 giugno 2005 n. 13970, Cass. 19 novembre 1998 n. 11712), rimanendo peraltro applicabile, in base al rinvio operato dall’art. 1324 c.c., il criterio dell’interpretazione complessiva dell’atto e non potendo aversi riguardo alla comune intenzione delle parti, che non esiste, né farsi ricorso alla valutazione del comportamento dei destinatari dell’atto stesso (Cass. 20 gennaio 2009 n. 1387).
Nella fattispecie in esame la Corte territoriale, dopo aver premesso che la sentenza della Corte di Appello del 4 novembre 2005 che aveva accertato la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore il 16 agosto 2000, era passata in giudicato, ha affermato che la missiva del 10 novembre 2005 era da interpretare come una mera presa d’atto della riacquistata idoneità del recesso a produrre i suoi effetti per effetto della riforma della sentenza di primo grado, senza che al termine “anche” potesse essere attribuito il significato di ulteriori ragioni non dichiarate.
Trattasi di interpretazione riservata al giudice di merito, la quale può essere sindacata in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale oppure per vizi di motivazione, elementi questi non ricorrenti nella specie, dovendo escludersi la violazione di detti criteri ed essendo la motivazione adeguata, logica ed immune da vizi o contraddizioni.
5. Anche il secondo motivo è infondato.
Questa Corte ha più volte affermato che, in ipotesi di ordine di reintegrazione nel posto di lavoro emesso a seguito di accertamento della illegittimità del licenziamento, l’obbligo del datore di lavoro di reintegrare il lavoratore (o di pagargli la retribuzione) trova il suo fondamento genetico nella lex contractus e nella giuridica continuità del rapporto sostanziale, non interrotto dal licenziamento illegittimo; ne consegue che, una volta intervenuti in appello la riforma della prima sentenza e l’accertamento della legittimità dell’originario licenziamento, l’estromissione del lavoratore dall’azienda non è configurabile come nuovo licenziamento, bensì come mera comunicazione della definitiva cessazione del rapporto per effetto della riconosciuta legittimità del precedente licenziamento e quindi della sua riacquistata idoneità a determinare ex tunc il suddetto effetto.
È stato inoltre precisato che l’art. 336 c.p.c., nella nuova formulazione introdotta dalla legge n. 353 del 1990, non subordina più al passaggio in giudicato della sentenza di riforma i cosiddetti effetti espansivi esterni, comportando perciò non soltanto la caducazione immediata della sentenza riformata (le cui statuizioni vengono sostituite automaticamente da quelle della sentenza di riforma), ma altresì l’immediata propagazione delle conseguenze della sentenza di riforma agli atti dipendenti dalla sentenza impugnata; ne consegue che la riforma in appello della sentenza che abbia accertato l’illegittimità di un licenziamento e ordinato la reintegrazione del lavoratore comporta non soltanto la caducazione dell’accertamento e dell’ordine ripristinatorio, ma altresì il venir meno della ricostituzione del rapporto di lavoro provvisoriamente riaffermata da quell’ordine e la restituzione al licenziamento della sua piena efficacia estintiva fin dalla data della sua intimazione (cfr., per tutti tali principi, Cass. 27 giugno 2000 n. 8745; Cass. 14 gennaio 2005 n. 637; Cass. 19 luglio 2005 n. 15220; Cass. 5 marzo 2009 n. 5323).
Corretta è dunque la sentenza impugnata che, alla stregua di tali affermazioni, ha ritenuto che la sentenza di appello del 4 novembre 2005, riformando quella di primo grado che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento, si era sostituita immediatamente a quella di primo grado ed aveva determinato la caducazione automatica di tutte le statuizioni in essa contenute, essendo immediatamente efficace ex art. 336 c.p.c.
Quanto, poi, al rilievo che la sentenza di riforma nulla disponeva in ordine agli effetti della sentenza di primo grado già prodottisi, la questione è irrilevante nel presente giudizio, in cui si controverte sulla contrapposta interpretazione data dalle parti alla missiva del 10 novembre 2005: licenziamento, secondo l’assunto del ricorrente; mera presa d’atto della riacquistata idoneità del recesso a produrre i suoi effetti, secondo la società.
Non sussistono, infine, i profili di contraddittorietà della impugnata sentenza dedotti dal ricorrente, costituiti dall’avere questa dato rilievo, ai fini della caducazione immediata della sentenza riformata, ora alla lettura del dispositivo in udienza ora alla pubblicazione della sentenza, avendo la sentenza impugnata chiarito (pag. 5) che “nel rito del lavoro, poiché il dispositivo viene letto in udienza, con pubblicazione immediata e successivo deposito in cancelleria, lo stesso racchiude gli elementi del comando giudiziale che non possono essere mutati in sede di redazione della motivazione, sicché, nel giudizio di appello, la sua lettura fissa il termine iniziale di decorrenza della nuova decisione ormai inalterabile, con la conseguenza che da tale data cessano gli effetti della sentenza riformata”.
6. Infondato, infine, è il terzo motivo, con il quale il ricorrente censura l’affermazione della Corte di appello ora riportata, deducendo che anche nel rito del lavoro la decisione non acquista valore di sentenza sulla base del solo dispositivo letto in udienza, dovendo questo essere integrato dalla motivazione.
A sostegno del motivo il ricorrente ha richiamato la sentenza di questa Corte del 14 febbraio 1996 n. 1422, in cui, tra l’altro, è stato affermato che “anche nelle controversie di lavoro, in cui la decisione acquista valore non sulla base del solo dispositivo letto in udienza, ma a seguito del deposito della sentenza, la mancata sottoscrizione di quest’ultima da parte del giudice o, in caso di giudice collegiale, da parte del presidente o dell’estensore, ne determina la nullità insanabile ai sensi dell’art. 161, secondo comma, cod. proc. civ., che va rilevata anche d’ufficio dal giudice dell’impugnazione”.
Ma tale affermazione, estrapolata dalla motivazione della sentenza e, nei termini anzidetti, massimata, si inseriva in un ragionamento più ampio ed articolato ed atteneva ad una fattispecie del tutto diversa, in cui mancava la sottoscrizione di uno dei magistrati tenuti a sottoscrivere la sentenza (il giudice estensore).
Quel Collegio, in ragione di tale mancanza, ha affermato il principio che l’omessa sottoscrizione della sentenza da parte del giudice, o nel caso di sentenza emessa da un giudice collegiale, da parte di uno dei magistrati tenuti a sottoscriverla ai sensi dell’art. 132 c.p.c., determina (nel caso in cui l’impedimento del magistrato non risulti menzionato ai sensi del terzo comma dell’art. 132 c.p.c. cit.) la nullità insanabile della sentenza medesima, restando escluse l’applicabilità del procedimento di correzione degli errori materiali e la possibilità di distinguere tra omissione intenzionale ed omissione involontaria, provocata da errore o dimenticanza.
Il motivo in esame deve dunque essere respinto, ribadendosi qui il principio, enunciato da Cass. 21 marzo 2008 n. 7698, secondo cui nel rito del lavoro il dispositivo della sentenza non è – come nel rito ordinario – un atto puramente interno, modificabile dallo stesso giudice fino a quando la sentenza non venga pubblicata, ma è atto di rilevanza esterna, che racchiude gli elementi del comando giudiziale i quali non possono essere mutati in sede di redazione della motivazione, atteso che la sua lettura in udienza fissa in maniera immodificabile tale comando portandolo ad immediata conoscenza delle parti (negli stessi termini: Cass. 10575/90, Cass. 1374/91).
7. Alla stregua di tutto quanto precede, il ricorso deve essere rigettato, previa condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio, come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in euro 40,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compensi difensivi, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma in data 11 ottobre 2012.
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