Corte di Cassazione sentenza n. 18480 del 26 ottobre 2012
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – ESTINZIONE DEL RAPPORTO – LICENZIAMENTO INDIVIDUALE – RINNOVAZIONE IN BASE AGLI STESSI MOTIVI DEL PRECEDENTE NULLO O INEFFICACE – AMMISSIBILITA’ – FONDAMENTO – FATTISPECIE – IMPUGNAZIONE STRAGIUDIZIALE NEL TERMINE EX ART. 6 LEGGE N. 604 DEL 1966 – SUCCESSIVA AZIONE DI ANNULLAMENTO DEL LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO – TERMINE QUINQUENNALE EX ART. 1442 C.C. – DECORRENZA – DIES A QUO – INDIVIDUAZIONE
massima
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La rinnovazione del licenziamento, in base ai motivi posti a fondamento di un precedente licenziamento inficiato di nullità o comunque inefficace, non è in linea generale preclusa risolvendosi, detta rinnovazione, nel compimento di un negozio diverso dal precedente ed esulando l’ipotesi di inammissibilità della convalida del negozio nullo, ai sensi dell’art. 1423c.c., norma diretta ad impedire la sanatoria di un negozio nullo con effetti “ex tunc”, ma non a comprimere la libertà delle parti di reiterare la manifestazione della loro autonomia negoziale al fine di regolare i loro interessi.
In tema di impugnativa di licenziamento, una volta che, a mezzo di atto stragiudiziale, sia stata evitata la decadenza prevista dall’art. 6 della legge n. 604 del 1966, la successiva azione giudiziale di annullamento del licenziamento illegittimo deve essere in ogni caso proposta nel termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 1442 c.c., che decorre dal giorno di ricezione dell’atto di intimazione.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 26.9.2007, la Corte di Appello di Roma rigettava il gravame proposto da T.M.D. avverso la sentenza di primo grado che aveva ritenuto inammissibile la domanda principale rivolta ad ottenere l’attuazione della sentenza del 27.11.1992, con la quale era stato annullato il licenziamento per giustificato motivo intimatole il 25.2.1991 ed era stata disposta la sua reintegra nel posto di lavoro, sul rilievo che il titolo giudiziale costituito dalla sentenza passata in giudicato potesse essere azionato in altra sede. La pronunzia di primo grado aveva anche ritenuto l’infondatezza della domanda per essere stato intimato nuovo licenziamento in data 16.11.1992, con il quale il datore di lavoro aveva validamente rinnovato il licenziamento dichiarato nullo per motivi di forma, rilevando, in relazione a tale secondo recesso, l’avvenuta prescrizione della relativa azione di annullamento. La Corte del merito osservava che erano infondate le censure dell’appellante sia con riguardo alla interpretazione della comunicazione del licenziamento del 16.11.1992 come volontà di non dare esecuzione all’ordine del giudice, onde non poteva accedersi alla richiesta di reintegrazione e di risarcimento del danno sulla base della prima sentenza, sia con riguardo alla domanda subordinata di nullità del secondo licenziamento perché intimato per gli stessi motivi del primo, atteso che il primo licenziamento disciplinare era stato annullato per mancata osservanza della procedura di cui all’art. 7 l. 300/70, senza alcuna valutazione del merito, e che ne era ben possibile la rinnovazione. Rilevava che andasse escluso che la domanda potesse qualificarsi come azione di nullità, essendo la stessa da ritenere, piuttosto, in presenza dei presupposti per intimare un nuovo licenziamento, azione di annullamento, da esperire entro il termine di prescrizione di cui all’art. 1442 c.c., termine non interrotto dall’azione giudiziale avverso i precedenti e diversi licenziamenti intimati il 27.3.1991 ed il 25.2.1991, proposta in epoca antecedente al procedimento di licenziamento in questione e priva di idoneità interruttiva ai fini considerati.
Per la cassazione di tale decisione ricorre la T., affidando l’impugnazione a sei motivi, illustrati nella memoria depositata i sensi dell’art. 378 c.p.c.
Resiste con controricorso la P. s.p.a., che espone ulteriormente le proprie difese con memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, T. M. D. denunzia violazione e falsa applicazione di norme di legge, ed in particolare degli artt. 18 l. 300/70 e degli art. 1353, 1360, 1422, 2935, 2943, 2946, 2947 e 2948, n. 4, 2909 c.c., nonché l’erroneità della motivazione, perché omessa, insufficiente e contraddittoria, ai sensi dell’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.
Asserisce che il giudicato relativo al licenziamento dichiarato nullo per difetto della procedura di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori abbia coperto anche il merito relativo ai motivi sostanziali del licenziamento disciplinare, onde non era possibile il riesame della questione e formula quesito con il quale domanda se il giudicato sulla nullità ed illegittimità di un licenziamento copra tanto gli aspetti formali quanto quelli sostanziali dedotti.
Con il secondo motivo, assume che ha errato il giudice del gravame ad affermare che non si tratti nella specie di azione di nullità ed a ritenere applicabile la prescrizione quinquennale e formula quesito domandando “se l’azione per la dichiarazione di nullità del licenziamento è imprescrittibile”.
Con il terzo motivo, la ricorrente osserva, poi, che l’illegittimo licenziamento operato dalla società è fonte di responsabilità contrattuale e che la relativa azione, intesa alla reintegra ed al risarcimento del danno, soggiace al termine di prescrizione decennale. Formula quesito con il quale chiede affermarsi che l’azione per la nullità ed illegittimità del licenziamento è fonte di responsabilità contrattuale e che il diritto alla reintegra nel posto di lavoro ed al risarcimento resta assoggettato all’ordinaria prescrizione decennale.
In ogni caso – rileva con il quarto motivo – il termine di prescrizione è stato interrotto con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado conclusosi con sentenza del Pretore di Roma sino al passaggio in giudicato di tale sentenza (16.9.2000) e tale giudizio riguardava lo stesso licenziamento, gli stessi fatti e le stesse contestazioni, onde, durante la pendenza dello stesso, non poteva decorrere la prescrizione relativamente al diritto azionato con il secondo procedimento. Trattandosi di rinnovazione dello stesso licenziamento dichiarato nullo, in virtù degli artt. 2943 e 2945 c.c., la prescrizione di quel diritto è interrotta e permane l’effetto sospensivo sino al passaggio in giudicato della sentenza. Unico onere – assolto da essa ricorrente – era quello di impugnare il secondo licenziamento per evitare la decadenza di cui all’art. 6 l. 604/66. Con quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., la T. domanda se, in ipotesi di rinnovazione dello stesso licenziamento, decorra il termine di prescrizione per l’azione di nullità e/o illegittimità dello stesso, mentre pende il giudizio instaurato in relazione all’originario recesso.
Con il quinto motivo, la ricorrente deduce che lo stesso datore di lavoro, nella lettera del 16.11.1992, aveva subordinato il licenziamento alla conferma nei successivi gradi della decisione del Pretore di Roma che aveva ritenuto nullo il primo licenziamento intimato per i medesimi fatti, nonché illegittimo quello per giustificato motivo oggettivo del 25.2.1991, onde il passaggio in giudicato di detta sentenza costituiva condizione sospensiva, con la conseguenza che il corso della prescrizione era impedito anche a norma dell’art. 2935 c.c. sino all’avverarsi di tale condizione.
Con il sesto motivo, la T. censura l’affermazione che la ricorrente avrebbe potuto azionare in altra sede la sentenza già dopo la emissione del dispositivo di primo grado senza attendere l’esito del giudizio di appello, rilevando che le lettere del 3.11.1992 e 16.11.1192, in quanto redatte dopo la decisione del Pretore di Roma, costituivano manifesta comunicazione della volontà datoriale di non dare attuazione all’ordine esecutivo di reintegra ed erano da ritenere improduttive di effetti solutori. Con specifico quesito, domanda se, in presenza di giudicato sui diritti ex art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, sia possibile azionare la mancata attuazione del giudicato con nuovo ricorso ex art. 414 c.p.c.
Il ricorso è infondato.
In ordine al primo motivo, deve premettersi che il nuovo licenziamento, che è successivo ad un precedente atto di recesso (quello del 27.3.1991) dichiarato nullo per l’irritualità della procedura disciplinare, pur avendo la stessa causa (violazione disciplinare), non sia inammissibile convalida del precedente ma abbia una propria autonomia strutturale (non esaurendosi in un mero richiamo per relationem) e funzionale (non essendo diretto a dare al primo un’efficacia ex tunc), onde costituisce un atto nuovo, e la sua validità deve essere valutata in relazione ai suoi presupposti ed alla sua struttura ed anche in relazione all’osservanza della procedura indicata dall’art. 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300. Diversamente da quanto affermato dalla ricorrente, la rinnovazione del licenziamento, in base ai motivi posti a fondamento di un precedente licenziamento inficiato di nullità o comunque inefficace, non è in linea generale preclusa, risolvendosi, detta rinnovazione, nel compimento di un negozio diverso dal precedente ed esulando l’ipotesi di inammissibilità della convalida del negozio nullo, ai sensi dell’art. 1423, norma diretta ad impedire la sanatoria di un negozio nullo con effetti “ex tunc”, ma non a comprimere la libertà delle parti di reiterare la manifestazione della loro autonomia negoziale al fine di regolare i loro interessi (cfr. Cass 6 novembre 2006 n. 23641). Con il motivo proposto la ricorrente, peraltro, non affronta specificamente la questione della possibilità di intimare il secondo licenziamento nelle more di un giudizio relativo alla domanda di annullamento del primo recesso, prospettando piuttosto un vizio di violazione del giudicato formatosi, sul presupposto che il secondo giudizio riguardi lo stesso licenziamento e che anche i profili di merito siano stati affrontati nel corso del primo giudizio.
Ritiene questa Corte che la prospettazione avanzata dalla ricorrente rivela, per le ragioni suesposte, la infondatezza della tesi sostenuta, che si fonda sul presupposto che oggetto del giudizio non sia altro che il provvedimento di recesso già esaminato nel precedente procedimento, laddove deve ritenersi, come già osservato, che il provvedimento successivo fosse atto nuovo suscettibile di autonoma impugnativa e di essere valutato in relazione a profili sostanziali che non avevano costituito oggetto di esame da parte della sentenza relativa all’impugnativa del licenziamento del 20.3.1991 e rispetto ai quali non può pertanto invocarsi alcun effetto preclusivo discendente da giudicato formatosi in relazione al precedente procedimento.
Il secondo, il terzo ed il quarto motivo attengono alla prescrizione, essendo stato rilevato dal giudice del merito il decorso del termine prescrizione di legge previsto in materia. La sentenza ha statuito in conformità al principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui, in tema di impugnativa di licenziamento, una volta che, a mezzo di atto stragiudiziale, sia stata evitata la decadenza prevista dall’art. 6 della legge n. 604 del 1966, la successiva azione giudiziale di annullamento del licenziamento illegittimo deve essere in ogni caso proposta nel termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 1442 c.c., che decorre dal giorno di ricezione dell’atto di intimazione (cfr., tra le altre, Cass. 1/12/2008 n. 28514, Cass. I dicembre 2010 n. 24366). Né può ritenersi ammissibile il quesito che chiede affermarsi l’imprescrittibilità dell’azione di nullità, laddove è pacifico che nella specie l’azione sia diretta all’annullamento dell’atto di recesso e che la relativa azione sia soggetta al termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 1442 c.c., valendo analogo principio anche nel caso di violazione dell’art. 7 della l. 300 del 1970, che non dà luogo a nullità del recesso ma lo rende ingiustificato, con la conseguenza che la medesima deve essere ricondotta alla previsione di annullabilità di cui all’art. 18 I comma della legge citata con soggezione anche della relativa azione di impugnazione alla prescrizione quinquennale (cfr. Cass. 13959/2000)
Infondato è pure il motivo con il quale si assume che l’illegittimità del licenziamento è fonte di responsabilità contrattuale e che la relativa azione soggiace all’ordinario termine di prescrizione decennale. Al riguardo è invero inconferente il richiamo a sentenze che affrontano unicamente la questione delle conseguenze risarcitone in relazione a domande limitate al pagamento delle retribuzioni maturate in dipendenza dell’illegittimità della revoca di incarichi o di licenziamento, nelle quali si afferma che l’illegittimo licenziamento è fonte di responsabilità contrattuale e non extracontrattuale, con la conseguenza che il diritto del lavoratore al risarcimento del danno resta assoggettato all’ordinaria prescrizione decennale, anziché a quella quinquennale. Nel caso considerato la prescrizione che viene in rilievo è quella dell’azione diretta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento e non quella relativa unicamente alle conseguenze della accertata violazione dell’obbligo contrattuale da parte del datore di lavoro.
Quanto alla censura avanzata con il quarto motivo, devono richiamarsi le considerazioni svolte in ordine all’autonoma portata del secondo licenziamento, soggetto ad autonomo termine di impugnazione, con decorrenza della prescrizione dell’azione per il suo annullamento dalla comunicazione dell’atto di recesso, non potendo ritenersi che la stessa abbia ad oggetto lo stesso diritto colpito dal pericolo di estinzione, per decorso del tempo, e potendo il suo titolare procedere all’instaurazione di un nuovo giudizio nell’ambito del quale, ricorrendone le condizioni, ben può avanzare istanza di sospensione in attesa della definizione del primo. Tale impostazione è coerente con la giurisprudenza di questa Corte di legittimità secondo cui il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo, con la conseguenza che entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente (cfr., in tali termini, Cass. 20 gennaio 2011 n. 1244). Tale principio è stato a più riprese affermato da questa Corte soprattutto con riferimento alla rinnovazione del licenziamento disciplinare in base agli stessi motivi sostanziali determinativi del precedente recesso, anche se la questione della validità formale del primo licenziamento sia ancora sub iudice, risolvendosi tale rinnovazione nel compimento di un negozio diverso dal precedente. Il collegamento tra le due cause deve ritenersi di mero fatto e non tale da potere rendere invocabili i principi sul rapporto tra diritto stipite e diritti derivati enunciati nella sentenza n. 18570/2008 della S.C., in quanto non può sostenersi che le conseguenze del secondo licenziamento siano collegate all’impugnativa del primo ed all’esito del relativo procedimento, che ha oggetto diverso.
In ordine al quinto motivo, va poi osservato che la impossibilità di decorrenza della prescrizione ai sensi dell’art. 2935 c.c., invocata dalla ricorrente, si riconnette ad una erronea ricostruzione della fattispecie, non essendo ravvisabile alcuna impossibilità legale di esercizio del diritto, che non può, per quanto detto, individuarsi nella pendenza di un giudizio relativo ad un precedente licenziamento. Quest’ultimo assume, invero, con riguardo al successivo, un rilievo di mero fatto, nel senso che l’accertamento della sua validità avrebbe potuto al più rendere privo di effetti il secondo, intimato per gli stessi rilievi disciplinari, senza peraltro precludere al lavoratore di procedere all’impugnazione autonoma dell’ulteriore atto di recesso, astrattamente idoneo, per essere preceduto da rituale procedura disciplinare, ad incidere sulla prosecuzione del rapporto di lavoro ove assistito da una giusta causa.
Infine, deve essere disatteso anche il rilievo formulato nell’ultimo motivo di impugnazione, ove si sostiene l’erroneità della decisione impugnata nella parte in cui afferma che la ricorrente avrebbe potuto azionare in sede esecutiva il titolo giudiziale già dopo la emissione del dispositivo di primo grado senza attendere l’esito del giudizio di appello. È infatti infondata la ricostruzione secondo cui le lettere del 3.11.1992 e 16.11.1992, in quanto redatte dopo la decisione del Pretore di Roma che aveva ritenuto invalido il licenziamento non preceduto da rituale procedimento disciplinare, dovevano ritenersi manifesta comunicazione della volontà di non dare attuazione all’ordine esecutivo di reintegra ed erano improduttive di effetti solutori. Ed invero, per le argomentazioni già svolte, deve ritenersi che non sia stata adeguatamente censurata la tesi ricostruttiva adottata dal giudice del gravame e che le critiche avanzate, peraltro neanche specificamente prospettate sub specie di deduzione di vizio di violazione di legge ovvero di vizio di motivazione, non siano idonee a confutare il percorso argomentativo posto a fondamento della decisione, che ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto enunciati e si rivela immune da vizi motivazionali di carattere logico-giuridico.
Per le esposte considerazioni, il ricorso va complessivamente respinto e le spese di lite del presente giudizio di legittimità cedono, per il principio della soccombenza, a carico della ricorrente nella misura di cui in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in euro 40,00 per esborsi, euro 3000,00 per compensi, oltre accessori di legge.
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