CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 agosto 2013, n. 18627
Stranieri – Permesso di soggiorno – Giustizia e giurisdizioni – Processo del lavoro – Deposito di note difensive – Appello
Svolgimento del processo
In data 2.5.2007 la R. A. spa comunicò al proprio dipendente F. E., di nazionalità ghanese, “la impossibilità a mantenerla in servizio ai sensi dell’art. 22 comma 12 del T. U. 286/98 come sostituito dall’art. 18 legge n. 189/02. In conseguenza dì quanto sopra Ella viene sospeso dal servizio e dalla retribuzione dalla data odierna”; tale provvedimento era stato preceduto dalla comunicazione datoriale dell’avvenuta scadenza del permesso di soggiorno rilasciato al lavoratore e dalla risposta di quest’ultimo secondo cui si trattava di un problema burocratico, avendo già provveduto alla presentazione della domanda di rinnovo. Il F. convenne in giudizio la datrice di lavoro, chiedendo la riammissione in servizio e la condanna della convenuta al pagamento delle retribuzioni dal maggio 2007 all’ottobre 2008. Il Giudice adito, acquisite informazioni presso la Questura di Verona, la quale comunicò di avere emesso, in data 3.5.2007, un provvedimento di diniego dell’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno, rigettò il ricorso.
Con sentenza del 15.3 – 12.4.2011, la Corte d’Appello di Venezia, previa espunzione dal fascicolo processuale, siccome irrituale, di una memoria scritta e dell’allegata documentazione depositata in data 11.3.2011 dal lavoratore appellante, rigettò il gravame, osservando, a sostegno del decisum, quanto segue:
– non era condivisibile la censura secondo cui, poiché il provvedimento di diniego non risultava ancora notificato all’interessato, l’acquisita dichiarazione resa dalla Questura non poteva assumere alcun valore probatorio, assumendosi che nessun provvedimento che non esca dalla disponibilità dell’autorità che lo ha emesso può acquisire esistenza giuridica, sia per la sua provenienza, che per la sua efficacia; infatti doveva ritenersi che una mancata notifica (magari dipendente dalla difficoltà di individuare la sicura residenza del destinatario) non può comportare addirittura la giuridica inesistenza di un provvedimento di diniego, a cui era stata data giuridica pubblicità attraverso il già avvenuto deposito;
– la sola presentazione della domanda di rinnovo del permesso di soggiorno (pacificamente scaduto) non comportava un diritto soggettivo alla proroga, avendo dimenticato l’appellante che la parte datoriale, prima di procedere alla sospensione del rapporto, aveva atteso il decorso di ben un anno, dal momento della presentazione della domanda di rinnovo, per ottenere notizie (che sarebbe stato onere del lavoratore fornire) sull’esito della domanda stessa, attuando un comportamento la cui validità era stata enunciata dalla richiamata giurisprudenza di legittimità.
Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, F. E. ha proposto ricorso per cassazione fondato su quattro motivi e illustrato con memoria.
L’intimata R. A. spa ha resistito con controricorso, illustrato con memoria.
Motivi della decisione
1. Il controricorso è stato notificato al ricorrente “…E. F., al suo domicilio eletto presso lo Studio dell’Avv. M, in Roma, V. …”; l’avv. M. T. è uno dei difensori del ricorrente e presso il suo studio quest’ultimo ha eletto domicilio in Roma (cfr il ricorso e la procura speciale a margine).
L’eccezione di nullità della notifica del controricorso, sollevata dal ricorrente nella memoria illustrativa, va quindi disattesa, in applicazione del principio, applicabile anche in tema di notifica del controricorso, secondo cui non può farsi distinzione tra notificazione al procuratore domiciliatario e notificazione alla parte presso il procuratore domiciliatario, atteso che entrambe le forme di notificazione soddisfano l’esigenza che l’atto sia portato a conoscenza legale della parte per il tramite del suo rappresentante processuale (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 18640/2011; 11257/2004; 1292/1981).
2. Con il primo articolato motivo il ricorrente, denunciando violazione dell’art. 22, comma 12, dl.vo n. 286/98, come sostituito dall’art. 18 legge n. 189/02, deduce che:
– la Corte territoriale, avuto riguardo al disposto della norma suddetta, avrebbe dovuto rilevare che, in data 11.5.2006 (come risultava da documentazione prodotta in allegato al ricorso di primo grado), era stata regolarmente avanzata richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno, rilasciato il 28.10.1994 e rinnovato il 17.11.2004, onde non ricorreva alcuna delle ipotesi previste dalla norma e doveva ritenersi errata l’affermazione secondo cui tale presentazione non costituiva un diritto soggettivo alla proroga del permesso;
– la Corte territoriale, nel rilevare che incombeva sul lavoratore l’onere di fornire notizie circa l’andamento della pratica, non aveva tenuto conto della comunicazione di cui alla nota del 7.3.2007, null’altro potendo richiedersi, stante l’avvenuta presentazione della domanda di rinnovo e l’assenza di qualsiasi contrario provvedimento;
– in data 29.3.2011, come da documentazione prodotta con il ricorso per cassazione, la Questura di Verona aveva rilasciato il rinnovo del permesso di soggiorno, comportante di per sé la revoca del provvedimento sospensorio emesso dalla parte datoriale.
Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando violazione degli artt. 132, 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 22, comma 12, dl.vo n. 286/98, come sostituito dall’art. 18 legge n. 189/02, deduce che la Questura di Verona non aveva esplicitato i motivi della mancata notificazione del provvedimento di diniego, a cui, appunto in mancanza di una rituale notificazione alla parte interessata (tale non essendo la ritenuta giuridica pubblicità dello stesso attraverso il deposito, che aveva riguardato l’informativa e non il provvedimento), non potevano essere attribuiti effetti giuridici, anche nei confronti del datore di lavoro.
Con il terzo motivo il ricorrente, denunciando violazione degli artt. 420 e 437 c.p.c., si duole dell’avvenuta espunzione della ricordata memoria scritta e allegata documentazione, assumendo che in tal modo era stato violato il suo diritto di difesa a fronte delle molteplici osservazioni, deduzioni, istanze e contestazioni esposte dalla controparte.
Con il quarto motivo il ricorrente, denunciando violazione dell’art. 429 c.p.c., si duole che la Corte territoriale non abbia dato lettura delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, essendo stato letto all’udienza soltanto il dispositivo, senza peraltro indicare il termine richiesto per il deposito della sentenza, di cui doveva quindi ritenersi la nullità.
3. In via di priorità logica devono essere anzitutto esaminati il terzo e il quarto motivo di ricorso.
3.1 Secondo il condiviso orientamento di questa Corte, nel rito del lavoro l’appellante principale non ha un diritto soggettivo a replicare con difese scritte all’appello incidentale dell’avversario, essendo tale possibilità prevista, in suo favore, solo in via indiretta, a norma del combinato disposto dell’ultimo comma dell’art. 437 c.p.c. e del secondo comma dell’art. 429 dello stesso codice, come effetto dell’esercizio da parte del giudice del potere discrezionale – che può manifestarsi anche in forma implicita e non è sindacabile in sede di legittimità – di consentire alle parti, quando lo ritenga necessario, il deposito di note difensive; la disparità tra i mezzi di difesa attribuiti all’appellato in via incidentale (appellante principale) – che, per quanto sopra detto, può ordinariamente contare solo sulle difese orali da svolgersi all’udienza di discussione – e i mezzi di difesa attribuiti all’appellato principale (appellante incidentale) – che, ai sensi dell’art. 436 epe ha, invece, sempre facoltà di presentare una memoria difensiva all’atto della costituzione – non determina, peraltro, violazione né del principio costituzionale di eguaglianza, stante la diversità delle rispettive situazioni processuali, né del diritto di difesa, stante la ragionevolezza dell’intervallo temporale (almeno dieci giorni) che, a norma del terzo comma dell’art. 436 c.p.c., è assicurato all’appellante principale per controbattere l’impugnazione incidentale proposta nei suoi confronti (efr, ex plurimis, Cass., nn. 5988/1998; 610/2000).
Tanto meno, dunque, possono essere ravvisati il diritto dell’appellante a presentare memorie scritte non autorizzate e la dedotta lesione del suo diritto di difesa, allorquando, come nel caso di specie, la parte appellata non abbia neppure svolto appello incidentale.
Quanto alla produzione di documenti in appello, la stessa è vietata dall’art. 437, comma 2, epe, dovendo peraltro osservarsi che, sotto tale aspetto, il motivo presenta altresì evidenti profili di inammissibilità per violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non essendo stati ivi indicati quali fossero i documenti (e, tanto meno, il loro contenuto) di cui era stata disposta l’espunzione.
3.2 L’art. 437 c.p.c. non richiama il primo comma dell’art. 429 dello stesso codice, limitandosi a disporre che il collegio, sentiti i difensori delle parti, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo.
Deve quindi convenirsi che la disposizione di cui al novellato art. 429, comma 1, c.p.c. (la cui inosservanza, peraltro, non comporta, in difetto di espressa previsione in tal senso, la nullità della sentenza) non è applicabile nel giudizio d’appello.
4. In ordine al primo profilo di censura svolto con il primo mezzo, va rilevato che l’art. 22, comma 12, dl.vo n. 286/98, come sostituito dall’art. 18, comma 1, legge n. 189/02, nel testo vigente all’epoca dei fatti per cui è causa, prevedeva che 7/ datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso disoggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato, è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno e con l’ammenda di 5.000 euro per ogni lavoratore impiegato” (successivi interventi legislativi, comunque ininfluenti ai fini del decidere, hanno modificato la sanzione penale, trasformando il reato da contravvenzione in delitto).
Deve allora osservarsi che la fattispecie di reato, per ciò che qui specificamente rileva, contemplava il caso del lavoratore “// cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo”, ne consegue che la mera presentazione dell’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno da parte del lavoratore non concretizza, di per sé, una situazione legittimante la conservazione del posto di lavoro, essendo invece prescritto che il rinnovo del permesso scaduto sia stato richiesto “nei termini di legge”.
Al riguardo deve osservarsi che, a mente dell’art. 5, comma 4, dl.vo n. 286/98, come modificato dall’art. 5, comma 1, lett. f), legge n. 189/02, nel testo vigente all’epoca dei fatti per cui è causa (anteriore alla modifica di cui all’art. 1, comma 22, lett. e), legge n. 94/09), era previsto che “Il rinnovo del permesso di soggiorno è richiesto dallo straniero al questore della provincia in cui dimora, almeno novanta giorni prima della scadenza nei casi di cui al comma 3-bis, lettera e), sessanta giorni prima nei casi di cui alla lettera b) del medesimo comma 3-bis, e trenta giorni nei restanti casi, ed è sottoposto alla verifica delle condizioni previste per il rilascio e delle diverse condizioni previste dal presente testo unico. Fatti salvi i diversi termini previsti dal presente testo unico e dal regolamento di attuazione, il permesso di soggiorno è rinnovato per una durata non superiore a quella stabilita con rilascio iniziale”; in ogni caso, dunque, la richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno doveva precedere la scadenza dello stesso.
Dal che discende che, per sostenere la censura svolta, il ricorrente avrebbe dovuto allegare che la richiesta di rinnovo era avvenuta nei termini di legge e, conseguentemente, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, riportare nel ricorso stesso il contenuto del precedente permesso (o rinnovo del medesimo), onde consentire alla Corte di verificare la sua scadenza e, quindi, l’avvenuta osservanza dei termini per la presentazione dell’istanza di rinnovo.
Ciò non essendo avvenuto (e non avendo il ricorrente neppure depositato, ai sensi dell’art. 369, comma 2, n. 4, epe, quale documento su cui il ricorso si fonda, tale precedente permesso, ovvero specificato, qualora lo avesse prodotto nei precedenti gradi di giudizio, ove il medesimo sarebbe stato reperibile nel dimesso fascicolo di parte dei gradi di merito: cfr, Cass., SU, n. 22726/2011), il profilo di doglianza che ne occupa risulta inammissibile.
4.1 Per completezza di motivazione deve comunque rilevarsi che detto profilo di doglianza è altresì infondato nel merito.
Infatti, sulla base di quanto allegato e prodotto dalla controricorrente, risulta che il permesso di soggiorno rilasciato al F. per motivi di lavoro era scaduto il 22.3.2006, onde la richiesta di rinnovo, presentata in data 11.5.2006, non aveva rispettato i surricordati termini di legge.
4.2 II secondo profilo di doglianza svolto con il primo mezzo configura un preteso vizio di motivazione della sentenza impugnata, assumendosi la mancata considerazione della comunicazione di cui alla nota del 7.3.2007.
Premesso che la Corte territoriale ha avuto presente la ridetta nota, specificamente ricordata nella parte espositiva della sentenza, deve convenirsi che la censura si risolve nella richiesta di un riesame e di una ulteriore valutazione delle emergenze probatorie acquisite. Ma proprio tale valutazione delle risultanze istruttorie non può essere svolta in questa sede, poiché, giusta il costante orientamento di questa Corte, il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità, cosicché risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 11789/2005; 19681/2009). 4.3 II terzo profilo di doglianza svolto con il primo mezzo, prima ancora che infondato nel merito (poiché il rilascio di un permesso di soggiorno nel 2011 non è suscettibile di riverberare effetti decisivi in ordine al contenuto della domanda svolta, siccome afferente alla dedotta illegittimità di una condotta datoriale realizzatasi nel contesto fattuale e giuridico di circa quattro anni prima), non può trovare accoglimento perché fondato su una produzione documentale (quella appunto del ridetto nuovo permesso di soggiorno) non consentita in sede di legittimità, giusta il disposto dell’art. 372 c.p.c., siccome non relativa alla nullità della sentenza impugnata ovvero all’ammissibilità del ricorso.
4.4II primo motivo di ricorso, nei distinti profili in cui si articola, deve quindi esser rigettato.
5. Come diffusamente esposto nello storico di lite, la sentenza impugnata si fonda su due distinte rationes deciderteli, ciascuna delle quali di per sé idonea a sostenere il decisum.
Il rigetto, per le ragioni testé indicate, della censura concernente la seconda delle suddette rationes decidendi, rende applicabile il principio secondo cui, ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, il rigetto delle doglianze relative ad una di tali ragioni rende inammissibile, per difetto di interesse, l’esame relativo alle altre, pure se tutte tempestivamente sollevate, in quanto il ricorrente non ha più ragione di avanzare censure che investano una ulteriore ratio decidendi, giacché pur se esse fossero fondate, non potrebbero produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 12976/2001; 18240/2004; 13956/2005; 20454/2005). Donde l’inammissibilità del secondo mezzo. 6. In definitiva il ricorso va rigettato. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida in euro 3.050,00 (tremilacinquanta), di cui euro 3.000,00 (tremila) per compensi, oltre accessori come per legge.
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