Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la società ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. e sostiene che il giudice di primo grado e il giudice di secondo grado, ritenendo che le opere fossero idonee alla costituzione di una servitù, hanno esaminato e posto a fondamento della decisione una questione giuridica mai dedotta dalle parti e, in particolare, dal condominio attore che aveva ricondotto l’illiceità dell’opera alla violazione di norme regolanti il condominio.
1.1 Il motivo è infondato.
Il Condominio attore aveva chiesto la declaratoria di illegittimità del varco realizzato dal condomino nel muro condominiale, assumendo che al condomino non era consentito realizzare quel varco.
I giudici di primo e secondo grado hanno ritenuto che l’opera fosse illegittima e che al condomino (così come conduttore del locale di proprietà del condomino) non era consentita l’apertura in quanto poneva a carico della proprietà condominiale un peso non consentito che, con il trascorrere del tempo, avrebbe potuto giustificare l’usucapione di una servitù apparente e, dunque, con implicito ma inequivoco riferimento ad un uso della cosa comune non consentito.
Pertanto la Corte di Appello non è incorsa in alcun vizio di extrapetizione, non ha accolto una domanda diversa (ad esempio una negatoria servitutis) ma ha esattamente accolto la domanda del condominio senza mutare le circostanze di fatto che ne erano state poste a fondamento e senza mutarne il petitum; inoltre il giudice di appello si è limitato a confermare il percorso motivazionale del primo giudice rispetto al quale non era stato dedotto, con gli appelli, un vizio di extrapetizione, ma solo una censura di merito così che la Corte di Appello neppure avrebbe potuto rilevare, di ufficio, una eventuale extrapetizione, il che esclude ab imis un error in procedendo.
2. Con il secondo motivo la società ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1027 c.c. sostenendo che la servitù che consentiva l’accesso da un locale all’altro già esisteva e che pertanto l’apertura dell’ulteriore varco di accesso rappresentava l’esercizio di una facoltà già ricompresa nella originaria servitù la cui esistenza, al contrario, legittimava proprio l’apertura del varco.
3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 1065 e 1067 c.c. e sostiene che, avendo, essa, l’esclusiva detenzione dei due locali posti in reciproca comunicazione, l’apertura di un secondo accesso non poteva minimamente aggravare la condizione del fondo servente perché rimanevano inalterati il contenuto, la portata e l’oggetto della servitù, ma variavano solo le modalità di esercizio che non erano predeterminate.
4. Il secondo e il terzo motivo devono essere esaminati congiuntamente in quanto attengono all’unitaria censura secondo la quale l’apertura di un secondo varco nel muro perimetrale dell’edificio non costituirebbe né una nuova servitù, né un aggravamento della servitù preesistente.
I due motivi sono infondati.
La decisione impugnata è conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale in tema di utilizzazione del muro perimetrale dell’edificio condominiale da parte del singolo condomino, costituiscono uso indebito della cosa comune, alla stregua dei criteri indicati negli artt. 1102 e 1122 c.c., le aperture praticate dal condomino nel detto muro per mettere in collegamento locali di sua esclusiva proprietà, esistenti nell’edificio condominiale, con altro immobile estraneo al condominio, in quanto tali aperture alterano la destinazione del muro, incidendo sulla sua funzione di recinzione e possono dar luogo all’acquisto di una servitù (di passaggio) a carico della proprietà condominiale (cfr., fra le tante, Cass. 6/2/2009 n. 3035; Cass. 19/4/2006, n. 9036; Cass. 18/2/1998 n. 1708 Cass. 13/1/1995 n. 360; 7/3/1992 n. 2773; 25/10/1988 n. 5780).
Le censure oggetto dei due motivi qui in esame non sono idonee a contrastare la correttezza, in diritto, della sentenza impugnata perché:
– la Corte di Appello ha dato atto della preesistenza di un altro varco ubicato in altra parte dell’immobile, ma l’apertura di altro e diverso varco non può essere ritenuta una semplice modalità di esercizio ‘ampliativa’ della preesistente facoltà o in essa ricompresa ai sensi dell’art. 1027 c.c., ma determina un onere nuovo e diverso a carico del fondo servente; ciò comporta l’infondatezza del secondo motivo;
– la Corte di Appello ha ritenuto che l’apertura del nuovo varco oltre a quello preesistente ponesse le premesse per la costituzione di una ulteriore servitù di passaggio tra i due fondi motivando anche con riferimento al nuovo peso a carico delle strutture del fabbricato e pertanto le censure di cui al terzo motivo sono estranee al contenuto della decisione e non attingono la sua ratio decidendi, trattandosi di censure in merito all’erronea applicazione delle norme di cui all’art. 1065 c.c. (esercizio conforme al titolo o al possesso) e all’art. 1067 c.c. (divieto, per il proprietario del fondo dominante di fare innovazioni che rendano più gravosa la condizione del fondo servente); tali censure non sono congrue rispetto alla motivazione della sentenza, non censurata ex art. 360 n. 5 c.p.c., nella parte in cui si afferma che sono state poste le premesse per la costituzione di una ulteriore servitù e si è imposto un ulteriore peso a carico delle strutture dell’edificio, escludendosi così l’ipotesi del semplice aggravio della servitù preesistente.
5. Con il quarto motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1226 c.c. e sostiene che nella fattispecie non poteva essere applicato l’art. 1226 c.c. in quanto non solo mancava la prova del danno nel suo preciso ammontare, ma il danno era proprio insussistente né poteva essere ravvisato nelle limitazioni al diritto di proprietà del condominio perché questo non aveva accesso in alcuno dei due locali che con le opere erano stati posti in comunicazione.
5.1 Occorre premettere che ai sensi dell’art. 2058 c.c. la violazione del diritto reale richiede una rimozione del fatto lesivo e, quindi, la tutela primaria è costituita dalla rimessione in pristino che nel giudizio è stata disposta con la condanna alla rimessione in pristino, come risulta dalla stessa sentenza di appello.
Ciò tuttavia non esclude che possa essere risarcito per equivalente un danno ulteriore che non sia possibile risarcire con la sola rimessione in pristino. Dalla sentenza di appello risulta che la rimessione in pristino è avvenuta, ma la Corte di Appello ha ritenuto risarcibile un danno ulteriore.
Il varco aperto nel muro perimetrale è stato realizzato con la demolizione del muro di proprietà condominiale (che costituiva l’elemento di separazione tra un condominio e un altro condominio) così che il condominio che ha subito l’evento lesivo, ha dovuto subire, fino al ripristino, le conseguenze dell’avvenuta demolizione dell’elemento separatore, come ritenuto dalla Corte di Appello nel suo riferimento al danno conseguente alla realizzazione (per effetto dell’apertura del varco) dei presupposti per la realizzazione di una servitù su parti comuni del fabbricato; tale danno è qualificabile come danno conseguenza e dipendente da un fatto illecito, come accertato in sentenza.
È quindi infondata l’affermazione della ricorrente secondo la quale il diritto di proprietà è rimasto integro, conclusione del resto incompatibile con l’accertata demolizione di una parte della proprietà, per giunta destinata alla specifica funzione di separare un condominio da un altro condominio. L’impianto motivazionale della sentenza di appello costituisce coerente applicazione dell’art. 1226 c.c. e la sentenza non è stata impugnata, quanto all’esistenza del danno, per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione.
Il quarto motivo deve pertanto essere rigettato.
6. Con il quinto motivo la ricorrente deduce la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione relativamente alla mancata indicazione dei criteri che giustificano la quantificazione del danno in via equitativa e sostiene che la Corte territoriale è venuta meno all’obbligo di indicare, quanto meno sommariamente, i criteri seguiti per la liquidazione del danno non essendo sufficiente il generico riferimento al periodo di tempo intercorso tra la realizzazione delle opere e la sentenza di appello.
6.1 Il Giudice di merito – nel caso che non sussistano elementi utili e sufficienti per la precisa determinazione del danno – certamente può pervenire ad una liquidazione che non si discosti in misura notevole dalla reale entità del pregiudizio, ma deve indicare, almeno sommariamente e sia pure con l’elasticità propria dell’istituto e dell’inerente ampio potere discrezionale, i criteri seguiti per determinare il quantum (Cass. 6067/2006; Cass. 6426/2001; Cass. 14166/99; Cass. 4894/98).
Nel caso di specie la Corte territoriale, pur avendo individuato il danno lamentato dal Condominio attore nelle conseguenze derivanti dalla realizzazione dell’intervento (demolitorio) che ha realizzato i presupposti per la costituzione di una servitù su parti comuni del fabbricato, non ha dato minimamente conto degli elementi sulla base dei quali è pervenuta a quantificare tale danno, ai sensi dell’art. 1226 c.c., nell’importo di diecimila Euro.
Infatti, l’unico criterio di liquidazione enunciato nella sentenza (il tempo intercorso tra la realizzazione dell’opera demolitrice e la data della sentenza di appello) è del tutto incongruo in considerazione del fatto che il muro risulta ricostruito anteriormente alla pronuncia della sentenza senza che sia neppure enunciato in sentenza il protrarsi di ulteriori conseguenze dannose; la motivazione è carente non solo per l’evidenziata incongruità, ma anche perché non da alcuna indicazione sulla reale entità del pregiudizio subito dal condominio nella concreta situazione al fine di individuare una proporzionalità con il danno liquidato in misura non certo simbolica, ma significativa.
Il motivo va, pertanto, accolto, con conseguente rinvio della causa ad altra sezione della corte di appello di Roma che, nel procedere ad una nuova valutazione del danno, si atterrà al principio più sopra riportato.
7. All’udienza del 9/1/2013 era stato disposto il rinvio della causa per consentire al controricorrente di produrre la deliberazione dell’assemblea di autorizzazione all’amministratore del condominio che aveva proposto il controricorso a stare in giudizio. Infatti l’amministratore di condominio, in base al disposto dell’art. 1131 c.c., comma 2 e 3, può anche costituirsi in giudizio o impugnare la sentenza sfavorevole senza previa autorizzazione a tanto dall’assemblea, ma dovrà, in tal caso, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte dell’assemblea per evitare pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione (Cass. S.U. n. 18331/2010).
In questo giudizio di cassazione, dopo il rinvio disposto per la regolarizzazione, è stata prodotta una delibera autorizzativa risalente al 1989 e, quindi, non relativa a questo giudizio di cassazione, perché la sentenza impugnata è di data (30/11/2005) successiva di circa sedici anni e il ricorso per cassazione è stato posto in notifica il 10/1/2007.
Ne discende l’inammissibilità della costituzione del condominio a favore del quale, pertanto, non potranno in nessun caso essere liquidate le spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta i primi quattro motivi di ricorso, accoglie il quinto, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa ad altra sezione corte di appello di Roma.
Dichiara inammissibile la costituzione del condominio per questo giudizio di cassazione.
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