CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA 23 MAGGIO 2013, N. 22187

Ritenuto in fatto

1. La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza di cui in epigrafe, in totale riforma della pronunzia di primo grado e in accoglimento dell’appello del Procuratore Generale, ha affermato la penale responsabilità di T.P. in ordine al delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, con riferimento al fallimento della ditta individuale omonima, dichiarato con sentenza 2.5.2002.
2. Ha affermato la Corte che, benché l’imputato avesse ceduto l’azienda a terza persona (A.M.) pochi giorni prima che il principale creditore del T. (X), depositasse istanza di fallimento, non può essere dubbio che l’imputato si sia reso responsabile dei delitti a lui ascritti, atteso che l’azienda, quando era stata ceduta, aveva i magazzini vuoti, che la merce a suo tempo fornita dalla X non era stata reperita, che i libri e la documentazione contabile non è mai pervenuta alla A.M. e comunque non è stata consegnata integralmente al curatore.
È inoltre emerso che l’imputato ha poi costituito nuova società (Y snc) avente sede nello stesso immobile nel quale aveva sede la ditta T.
3. Ricorre per cassazione il difensore del T. e deduce: a) violazione di legge, atteso che la Corte d’Appello ha formato il suo convincimento sulla istanza di fallimento della X. Contrariamente a quel che scrive il giudice di secondo grado, non trattasi di atto formatosi in diverso procedimento, ma di atto di parte (un’istanza, appunto), portatrice di un ben preciso interesse economico del creditore, non tenuto – nel processo civile – a riferire il vero. Lo stesso Procuratore Generale impugnante, per altro, aveva chiesto la rinnovazione della istruttoria dibattimentale per escutere tanto la A., quanto il legale rappresentante della X. In concreto, viceversa, alcun accertamento in ordine alla penale responsabilità del T. è stato compiuto; b) carenza dell’apparato motivazionale in ordine alla bancarotta documentale, atteso che, nell’atto di cessione di azienda (stipulato con l’intervento di un notaio), si afferma che la documentazione contabile viene consegnata alla acquirente. La A., per parte sua, ebbe, nell’occasione, a dichiarare di avere ricevuto detta documentazione. La Corte d’Appello sostiene che non vi è prova che A. abbia poi dato incarico al commercialista, che materialmente deteneva i libri e i documenti, di operare su di essi, ma, in realtà, l’istruttoria dibattimentale non ha mai positivamente accertato ciò.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento. Conseguentemente la sentenza impugnata va annullata con rinvio, per nuovo esame, ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano.
2. Il giudice di appello, nel riformare la sentenza assolutoria di primo grado, deve confutare specificamente, per non incorrere nel vizio di motivazione, le ragioni poste a sostegno della decisione riformata, dimostrando puntualmente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti ivi contenuti anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati.
2.1. Orbene, tanto non ha fatto la Corte d’Appello milanese, la quale ha certamente posto in evidenza alcuni elementi di sospetto (la cessione della azienda pochi giorni prima della istanza di fallimento, il mancato inizio di attività da parte della A., la apertura di nuova attività da parte del T. nei medesimi locali nei quali si era svolta l’attività precedente), ma non ha individuato elementi concludenti per fondare validamente il suo convincimento colpevolista.
È evidente che il giudice di appello ritiene che la cessione alla A. sia stato un espediente truffaldino, ma tale conclusione esso assume senza avere effettuato alcuna verifica dibattimentale, limitandosi ad affermare che di A.M. “nulla si sa” (cfr. penultimo capoverso della penultima pagina della sentenza), quasi che la stessa non fosse persona comparsa innanzi a un notaio; né risulta che ella sia stata infruttuosamente ricercata dalla Autorità Giudiziaria.
I principi di oralità e del contraddittorio, che informano il vigente processo penale, impongono che la prova, quando possibile, si formi in dibattimento, con le modalità previste dal codice di rito.
2.2. Le medesime considerazioni valgono per quel che riguarda le informazioni sulla situazione debitoria della fallita, che la corte territoriale pretende di trarre, oltre che dalla relazione del curatore (come è ovvio e legittimo), anche dalla istanza di un creditore, mai esaminato, a quanto si deve ritenere, né in dibattimento, né nella fase delle indagini preliminari.

PQM

annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano.