CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 ottobre 2013, n. 22698

Tributi – Accertamento – Applicazione degli standards – Doppio lavoro – Libero professionista – Attività svolta in modo residuale e saltuario – Contraddittorio con il contribuente – Sussiste

Svolgimento del processo

D.P.A., geometra, impugnava dinanzi alla CTP di Avellino l’avviso di accertamento con il quale l’Ufficio, sulla base dei parametri previsti dalla L. 549/95 e dal DPCM 29-1-1996 (come modificato dal DPCM 27-3-1997), aveva determinato in lire 17.836.000 i maggiori compensi per l’anno 1996, elevando il reddito da quello negativo dichiarato di lire 3.636.000 a quello positivo di lire 14.200.000.

A sostegno del ricorso contestava, tra l’altro, la legittimità dei parametri, rilevando, in particolare, che l’Ufficio non aveva tenuto conto che egli era lavoratore dipendente a tempo pieno presso un’azienda privata ed esercitava l’attività autonoma di libero professionista in modo residuale e saltuario.

L’adita CTP accoglieva il ricorso.

Con sentenza depositata il 24-5-2007 la CTR Campania, in parziale accoglimento dell’appello dell’Agenzia, determinava il reddito imponibile in lire 9.000.000 (euro 4.648,11); in particolare la CTR precisava che l’accertamento operato mediante l’applicazione dei parametri in questione era per legge assistito da presunzione semplice, precisa e concordante, sicché spettava al contribuente giustificare lo spostamento tra il reddito accertato e quello dichiarato; net caso di specie, la presenza di soli costi per lire 3.636.000 (con pari reddito negativo) non appariva risultato economico accettabile, sicché, sulla base dei dati e degli elementi contabili rilevati dall’avviso di accertamento (in particolare dal rapporto – valutato oltre il massimo consentito – tra ammortamenti dichiarati per lire 2.297.000 e valore dei beni ammortizzabili per lire 13.225.000), desumeva che l’accertamento operato dall’Agenzia non era del tutto infondato; di conseguenza, tenuto conto del reddito accertato a fini IRPEF di lire 14.200.000 e della residualità dell’attività di libero professionista svolta dal contribuente, determinava in modo equo un reddito imponibile di lavoro autonomo pari a lire 9.000.000.

Avverso detta sentenza proponeva ricorso per Cassazione il contribuente, affidato a cinque motivi; l’Agenzia ed il Ministero delle Finanze non svolgevano alcuna attività difensiva.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il contribuente, denunciando – ex art. 360 n. 3 cpc – violazione e falsa applicazione degli artt. 3, comma 181, L. 549/1995, 39 DPR 600/73, 2697 e 2729 c.c., deduceva che erroneamente la CTR aveva ritenuto il reddito accertato tramite parametri come reddito assistito ope legis da presunzione semplice grave, precisa e concordante.

Con il secondo motivo il contribuente, denunciando – ex art. 360 n. 5 cpc – insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, rilevava che la CTR aveva solo presunto ope legis la sussistenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, senza invece riscontrarli in concreto nella situazione in esame.

Con il terzo motivo il contribuente, denunciando – ex art. 360 n. 5 cpc – contradditoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, rilevava che la CTR aveva ritenuto non accettabile il dichiarato saldo negativo di lire 3.636.000 anche e “tanto più che il contribuente D.P. risultava essere lavoratore dipendente”, senza invece considerare che, proprio perché il contribuente svolgeva prevalentemente l’attività di lavoratore dipendente, aveva potuto dichiarare il detto saldo negativo in ordine all’attività di libero professionista.

Con il quarto e quinto motivo il contribuente, denunciando – ex art. 360 n. 5 cpc – omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, deduceva che la CTR si era limitata a rilevare che il rapporto tra gli ammortamenti ed il valore dei beni ammortizzabili era superiore al consentito e che l’attività professionale svolta dal contribuente era residuale rispetto a quella di lavoratore dipendente, sicché non aveva per nulla precisato il motivo per il quale aveva ritenuto l’accertamento parzialmente fondato, fissando l’entità del reddito in misura inferiore a quella accertata.

I motivi, da esaminare congiuntamente in quanto tra loro strettamente connessi, sono infondati.

Per costante e condiviso principio di questa S.C., invero, “la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con. il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito” (Cass. Sez. Unite 26635/2009; conf., tra le tante altre successive, Cass 12558/2010 e Cass. 13594/2010). Nel caso di specie la CTR, pur con alcune imprecisioni terminologiche (v. affermazione che l’accertamento operato mediante l’applicazione dei parametri in questione è per legge assistito da presunzioni semplici, precise e concordanti) ha fatto nel complesso corretto uso di tali principi, esaminando in concreto la specifica situazione del contribuente sulla base delle giustificazioni dallo stesso presentate.

Al riguardo va, infatti, rilevato che è stato attivato in sede preliminare il contradditorio (v. svolgimento del processo riportato nella gravata sentenza), e che la CTR ha ritenuto di stabilire in lire 9.000.000 il reddito imponibile di lavoro autonomo percepito dal contribuente, sufficientemente motivando tale valutazione in considerazione dei dati di fatto riportati da quest’ultimo e tenendo presente la dedotta residualità dell’attività autonoma professionale dallo stesso svolta. In conclusione, pertanto, il ricorso va rigettato.

Nulla per le spese di lite, non avendo l’Ufficio svolto in questa sede attività difensiva.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.