Corte di Cassazione sentenza n. 2352 del 31 gennaio 2013
CONTENZIOSO TRIBUTARIO – VIOLAZIONI DEL CODICE DI PROCEDURA PENALE – EFFETTI IN AMBITO FISCALE
massima
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Le violazioni che i funzionari tributari, in primo luogo la Guardia di Finanza, possono eventualmente commettere nell’ambito di indagini di polizia giudiziaria non hanno automatico riflesso in ambito fiscale, posto che il procedimento penale e quello tributario sono disciplinati da diverse norme, che rispondono a differenti finalità. Non è pertanto possibile, in maniera incondizionata, eccepire la nullità dell’atto impositivo sulla base dell’inutilizzabilità di elementi derivanti da indagini penali ove le norme del codice di procedutra penale, non erano state puntualmente osservate. L’omissione delle formalità di garanzia difensiva prescritte per il procedimento penale non costituisce ragione di inutilizzabilità degli elementi raccolti nel procedimento di accertamento fiscale, in ossequio al principio della autonomia del procedimento penale rispetto alle procedure dell’accertamento tributario. La rilevanza penale degli accertamenti tributari non comporta l’affievolimento del loro valore probatorio in sede civile o tributaria, mentre le regole e le garanzie previste per il giudizio penale hanno valore soltanto all’interno dello stesso.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con tre avvisi di accertamento emessi nell’anno 1997 l’Ufficio imposte dirette di Trieste rettificava le dichiarazioni dei redditi presentate da G.F. negli anni 1990,1991 e 1992, accertando maggiori tributi IRPEF e ILOR. Proposti dal contribuente tre ricorsi avverso gli avvisi la CTP di Trieste, nel contraddittorio con l’Ufficio che si costituiva chiedendone il rigetto, li respingeva, compensando le spese del giudizio.
Osservava il primo giudice che l’attività di accertamento svolta dalla Guardia di Finanza e segnatamente le sommarie informazioni rese dal G. nel corso della verifica erano state svolte legittimamente, non risultando all’epoca elementi idonei a fare emergere indizi di reato che rendessero applicabile l’art. 220 disp. att. c.p.p., ben potendo la Guardia di finanza raccogliere, nell’ambito delle sue prerogative, le dichiarazioni del contribuente in merito alle movimentazioni del conto corrente.
Soggiungeva ancora la CTP che gli elementi esaminati e le ingenti movimentazioni finanziarie rilevate sui conti correnti deponevano per l’esistenza di un’attività imprenditoriale in Italia del G., il quale non aveva fornito alcuna prova in ordine alla natura non reddituale delle movimentazioni.
2. Avverso tale sentenza proponeva appello il contribuente, al quale resisteva l’Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Trieste. In quella sede il G. eccepiva, tra l’altro, la non utilizzabilità delle prove raccolte nel corso della verifica in quanto illegittimamente acquisite senza la presenza del difensore stante la sua veste di indagato, pure contestando gli esiti delle verifiche della Guardia di Finanza, la quale aveva desunto l’esistenza di un’attività imprenditoriale in Italia sulla base di presunzioni prive dei requisiti di precisione, gravità e concordanza, non essendo nemmeno emersa l’esistenza di clienti o fornitori del contribuente ed anzi risultando dagli allegati al processo verbale di contestazione l’esistenza di meri rapporti finanziari personali fra esso contribuente e terzi.
3. La CTR, con la sentenza pubblicata il 13 febbraio 2006, rigettava il ricorso, compensando le spese dei due gradi di giudizio.
Il giudice di appello riteneva anzitutto inammissibile il secondo motivo di appello, almeno nella parte in cui il contribuente, che in primo grado si era limitato a contestare l’utilizzabilità delle di lui dichiarazioni acquisite dalla Guardia di Finanza in assenza di difensore, aveva per la prima volta prospettato la ben diversa inutilizzabilità delle prove acquisite dalla Guardia di Finanza.
Riteneva ancora legittimamente acquisiti i dati bancari, aggiungendo che le dichiarazioni rese dal contribuente, ancorché inutilizzabili perché rese da persona indagata, erano del tutto ininfluenti ai fini del giudizio, non potendo nemmeno ridondare in suo favore detta inutilizzabilità, non avendo nella fase giudiziaria detto contribuente fornito alcuna spiegazione in ordine alle rilevanti disponibilità economiche risultanti dai conti bancari in Italia ed alle relative movimentazioni, nè alcuna prova idonea a suffragare le tesi difensive esposte. Sosteneva, ancora, che proprio l’esame delle risultanze acquisite aveva consentito di desumere, con un ragionamento presuntivo semplice, l’esistenza in Italia di un’attività commerciale di intermediazione da parte del contribuente peraltro residente in Italia, con la conseguente necessità della ripresa a tassazione di tutti i redditi ovunque prodotti, salva la prova di avere assolto altrove il proprio debito tributario. Ribadiva ancora che proprio il mancato assolvimento, da parte del contribuente, dell’onere di documentare la natura delle operazioni finanziarie contestate giustificava il metodo di accertamento dell’Ufficio in ordine alla riferibilità delle movimentazioni bancarie all’attività imprenditoriale del contribuente. Soggiungeva, infine, che, rispetto alla percentuale di redditività del 20% delle movimentazioni applicata dall’Ufficio, la stessa non era stata contestata in primo grado, sicché la doglianza doveva ritenersi inammissibile.
Avverso la sentenza della CTR ha proposto ricorso per cassazione il G., affidandolo a 4 motivi, al quale ha resistito l’Agenzia delle Entrate con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso il G. ha dedotto violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deducendo che erroneamente il primo giudice aveva ritenuto inammissibile il secondo motivo di appello per l’asserito carattere di novità della doglianza relativa alla inutilizzabilità delle prove documentali acquisite dalla Guardia di finanza in assenza del difensore. Lamentava che il giudice di appello, distinguendo fra dedotta inutilizzabilità delle attività di indagine formulata in prime cure e inutilizzabilità delle prove documentali prospettate in secondo grado, aveva omesso di considerare che il contribuente, fin dall’inizio del procedimento, aveva lamentato l’irritualità delle acquisizioni della Guardia di Finanza per mancata presenza del difensore come emergeva, peraltro testualmente, dalla stessa sentenza di appello – pag. 6 – ove si era dato atto che la CTP aveva disatteso “le argomentazioni addotte dal ricorrente sulla nullità inutilizzabilità nel presente ricorso delle acquisizioni della G.D.F.” L’Agenzia delle entrate ha dedotto l’infondatezza del primo motivo di ricorso, avendo il contribuente operato in fase di appello una radicale modifica delle proprie difese, in prime cure rivolte a sostenere l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in assenza del difensore ed in grado di appello indirizzate a porre in discussione l’intera documentazione acquisita.
1.1. La doglianza è fondata.
Risulta dalla stessa sentenza appellata che innanzi al primo giudice il contribuente aveva dedotto la illegittima acquisizione delle prove, contestando che “nel corso della verifica i militi della Guardia di Finanza avevano proceduto alla acquisizione di prove a suo carico senza l’assistenza di un difensore, nonostante egli risultasse soggetto indagato” – v. Pag. 2 punto 2, ove veniva riassunto il secondo dei cinque motivi di doglianza avanzati nel ricorso introduttivo. Ed era stata proprio la CTP a disattendere tale eccezione, ritenendo che “l’attività accertativa si fosse svolta sotto ogni profilo in modo affatto legittimo sotto ogni profilo – v. pag. 3, 3° periodo sent. impugnata – e che andavano disattese “le argomentazioni addotte dal ricorrente sulla nullità/inutilizzabilità nel presente contenzioso delle acquisizioni della G.d.F.” – cfr. Pag. 6 ricorso che riporta il passo di pag. 6 della sentenza n.333/01/99-.
Appare dunque erronea la decisione del giudice di appello che ha escluso di potere esaminare la parte della doglianza relativa alla utilizzabilità oltre che delle dichiarazioni rese dal contribuente anche delle prove acquisite dalla Guardia di Finanza già comprese:nella doglianza inizialmente prospettata ai primi giudici.
2. Con il secondo motivo di ricorso il G. ha dedotto la contraddittorietà della motivazione della sentenza di appello in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, nella parte in cui aveva illogicamente ritenuto la legittimità delle acquisizioni dei dati bancari da parte della Guardia di Finanza e, contemporaneamente, l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal G. in quanto rese da persona indagata senza l’assistenza del difensore, inficiando tale motivazione il processo logico che stava alla base della decisione.
Tale seconda doglianza era infondata secondo l’Agenzia delle Entrate, poiché non emergeva alcuna contraddittorietà della motivazione lamentata, avendo il giudice di appello valutato le dichiarazioni del G. del tutto ininfluenti e, comunque, sfornite di prove idonee a confutare gli accertamenti in ordine alle ingenti disponibilità economiche risultanti dai conti bancari.
2.1. Con il terzo motivo la parte ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 33, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deducendo che il giudice di appello aveva errato nel ritenere utilizzabile la documentazione bancaria alla quale si riferivano le dichiarazioni rese dal G. ritenute inutilizzabili. Ed infatti, la pacifica veste di indagato del contribuente nel procedimento penale rendeva totalmente inutilizzabile l’attività espletata dalla Guardia di Finanza, dovendosi estendere i principi espressi dall’art. 191 c.p.p., alla materia tributaria anche in assenza di una specifica previsione che tanto disponesse, risultando l’attività amministrativa fiscale pur sempre ancorata al principio di legalità.
L’Agenzia delle entrate osservava, quanto alla terza doglianza, che la giurisprudenza di questa Corte aveva più volte confermato l’inapplicabilità in tema di accertamenti fiscali dell’inutilizzabilità della prova acquisita irritualmente prevista dal codice di procedura penale.
2.2. I due motivi di censura che, stante la loro stretta connessione, meritano un esame congiunto, sono infondati.
Con i medesimi il ricorrente, nella sostanza, lamenta la illegittimità dell’operato dell’Ufficio per avere utilizzato, nei confronti del contribuente indagato in un procedimento penale per i medesimi fatti che hanno dato vita agli accertamenti fiscali, prove e documenti senza che allo stesso fosse stata data la possibilità di munirsi di difensore e, per altro verso, la mancata utilizzazione delle dichiarazioni del contribuente che avrebbe inficiato l’utilizzabilità del materiale probatorio raccolto dalla Guardia di Finanza.
Ora, questa Corte ha più volte ritenuto che “i dati raccolti dell’Ufficio in sede di accesso ai conti correnti bancari del contribuente consentono, in virtù della presunzione contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 39, di imputare gli elementi da essi risultanti direttamente a ricavi dell’attività svolta dal medesimo, salva la possibilità per il contribuente di provare che determinati accrediti non costituiscono proventi della detta attività” (v.,Cass., 13 settembre 2010 n. 19493; Cass. 11 gennaio 2008 n. 430; Cass. 13 febbraio 2006 n. 3115; Cass. 29 maggio 2003 n. 8614; Cass. 29 marzo 2002 n. 4601).
E’ stato ancora affermato che detta “presunzione legale … vincola l’Ufficio tributario ad assumere per certo che i movimenti bancari effettuati sui conti correnti intestati al contribuente siano a lui imputabili, senza che risulti necessario procedere all’analisi delle singole operazioni, la quale è posta a carico del contribuente, in virtù dell’inversione dell’onere della prova (Cass. 7766/08; 2821/08; 7329/03; 7267/02; 15447/01)”.
E’ stato ulteriormente chiarito che le disposizioni testé evocate autorizzano “l’Ufficio finanziario a procedere all’accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formalmente intestati a terzi, ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente, acquisendo dati, notizie e documenti di carattere specifico relativi a tali conti, sulla base di elementi indiziari tra i quali può assumere rilievo decisivo la mancata risposta del contribuente alla richiesta di chiarimenti rivoltagli dall’Ufficio in ordine ai medesimi conti, e senza che l’utilizzabilità dei dati dagli stessi risultanti trovi ostacolo nel divieto di doppia presunzione, attenendo quest’ultimo alla correlazione tra una presunzione semplice ed un’altra presunzione semplice, e non già al rapporto con una presunzione legale, quale è quella che ricorre nella fattispecie in esame- (Cass., trib., 21 gennaio 2009 n. 1452; Cass. n. 27032 del 21/12/2007, n. 18421 del 2005, Cass. n. 6232 del 2003).
Va solo aggiunto che, di recente, questa Corte ha avuto modo di ritenere manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2)) prospettate con riferimento ai parametri della eguaglianza e ragionevolezza (art. 3 Cost.), della effettività del diritto di difesa e della capacità contributiva (artt. 24 e 53 Cost.), osservando che la differente situazione di chi intrattiene rapporti con banche ed istituti di credito, rispetto a chi tali rapporti non intrattiene, giustifica la applicazione della presunzione legale prevista solo per i primi, in quanto proprio il dato emergente dai conti bancari consente di applicare lo schema logico di inferenza dal fatto noto al fatto ignorato ex art. 2727 c.c.; mentre la difficoltà pratica connessa al reperimento delle prove giustificative dei prelievi ed alla indicazione dei beneficiari delle somme deve ricollegarsi all’onere di diligenza che si impone a ciascun contribuente tenuto a conservare la documentazione giustificativa dei redditi prodotti e delle spese sostenute (almeno per quanto attiene gli importi di maggiore consistenza in modo da consentire di verificare la sostanziale plausibilità delle movimentazioni rilevate dai conti e dalle altre orazioni bancarie con l’importo dei redditi dichiararti fino al termine di decadenza previsto per l’accertamento da parte degli Uffici finanziari: ed il contribuente andrebbe incontro alle medesime difficoltà pratiche anche nel caso in cui l’accertamento del maggior reddito imponibile fosse seguito a prove (come ad esempio la presunzione semplice) diverse dalla presunzione legale – cfr. Cass. n. 14026 del 3 agosto 2012-.
Mette ancora conto ricordare che per il combinato disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 33, artt. 52 e 63, la guardia di finanza che, cooperando con gli uffici finanziari, proceda ad ispezioni, verifiche, ricerche ed acquisizione di notizie, anche mediante richieste fatte al contribuente, ha l’obbligo di uniformarsi alle disposizioni contenute in dette norme di legge, sia quanto alle necessarie autorizzazioni sia quanto alla verbalizzazione (art. 52 cit., comma 6). Tali indagini – di carattere amministrativo (C. cost., sent. n. 122/1974), cui non è applicabile l’art. 24 Cost., in materia d’inviolabilità del diritto di difesa, ma comunque assistite dalle garanzie proprie della successiva ed eventuale procedura contenziosa – debbono essere considerate distintamente da quelle che la stessa guardia di finanza conduce in veste di polizia giudiziaria (Cass. n. 15538/2002), dirette all’accertamento di reati, con l’osservanza di tutte le prescrizioni dettate dal codice di procedura penale a tutela dei diritti inviolabili dell’indagato. La mancata osservanza di tali prescrizioni, certamente rilevante al fine della possibilità di utilizzare in sede penale i risultati dell’indagine, non incide (purché non siano violate le specifiche norme indicate al par. 5.1.1) sul potere degli uffici finanziari e del giudice tributario di avvalersene a fini meramente fiscali (in ipotesi analoghe, Cass. nn. 15914/2001, 14585/1999, 2668/1996, 8990/2007, 29385/ 2008,18077 e 22984/2010, Cass. n. 27150/2011), senza che ciò costituisca violazione dell’art. 24 Cost. (C. cost., ord. n. 119/2003; Cass. n. 7356/2011).
Tali principi sono stati ulteriormente specificati, ancora di recente, da Cass. n. 14026 del 3 agosto 2012, ove si è pure ribadita la piena utilizzabilità da parte dell’Amministrazione finanziaria dei movimenti dei conti correnti bancari e dei dati risultanti dagli altri rapporti ed operazioni intrattenuti dalla banca con il contribuente, anche se questo non è stato preventivamente convocato per giustificare le operazioni bancarie oggetto di verifica, atteso che nessuna norma impone, in via generale, l’obbligo di previa convocazione del contribuente in sede amministrativa prima dell’accertamento, non subendo pregiudizio il diritto di difesa che può essere esercitato, senza limitazioni, sia nella fase successiva all’accertamento – in sede di definizione con adesione e di attivazione dei poteri di autotutela della PA – sia nella sede contenziosa.
Orbene, sulla base dei superiori principi di diritto ai quali il Collegio ritiene di dovere dare continuità – apparendo ininfluente rispetto al caso qui iun esame i principi espressi da Cass. n. 19689/2004, concernenti il diverso caso di illegittimità del provvedimento di autorizzazione del procuratore della Repubblica ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 33, e D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, – la sentenza impugnata si sottrae ai rilievi critici espressi nei due motivi di ricorso dal G..
Ed infatti, quanto al secondo motivo, è appena il caso di sottolineare che, come pure evidenziato dall’Agenzia controricorrente il giudice di appello, pur dichiarando inutilizzabili le dichiarazioni del contribuente, le ha in realtà pienamente considerate, ritenendo le stesse ininfluenti in assenza di elementi probatori che il contribuente – non potendo limitarsi a mere allegazioni – avrebbe dovuto offrire per porre in discussione i risultati dall’attività legittimamente compiuta dalla Guardia di Finanza – cfr. Pag. 5 terzultimo e penultimo periodo sent. impugnata.
3.1. Per quel che invece riguarda il terzo motivo di ricorso, è sufficiente evidenziare che il giudice di appello ha fatto buon governo della disciplina prevista dal combinato disposto del D.P.R. n. 660 del 1973, artt. 32 e 33, ritenendo pienamente utilizzabile, all’interno del procedimento tributario, il materiale probatorio posto a fondamento degli avvisi di accertamento.
4. Con il quarto motivo di ricorso la parte ricorrente deduce omessa motivazione su diversi punti decisi della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, rilevando, con la prima censura, che la CTR non aveva preso posizione in ordine al terzo motivo di appello con il quale sì era dedotta la nullità degli accertamenti per assenza di contraddittorio fra il contribuente e l’Ufficio delle entrate.
4.1. Giova innanzitutto precisare che l’omessa trattazione di una questione posta in un motivo di impugnazione integra omessa pronuncia e non vizio di motivazione, in quanto, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, se è vero che non basta ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia la mancanza di una espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto e dovendo pertanto escludersi il suddetto vizio quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione (v. Cass. n. 10636 del 2007), è anche vero che l’omessa pronuncia su un motivo d’appello integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale o del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 – siffatte censure presupponendo che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa – ma attraverso la specifica deduzione del relativo “error in procedendo” per violazione dell’art. 112 c.p.c., (v. Cass. n. 11844 del 2006; n. 24856 del 2006 e n. 12952 del 2007).
Ne consegue l’inammissibilità della censura, comunque destituita di giuridico fondamento nel merito, avendo il giudice di appello in più punti espresso il proprio avviso circa la piena legittimità delle acquisizioni documentali da parte della Guardia di Finanza -.v., infatti, terz’ultimo e penultimo periodo di pag. 5 sent. impugnata-.
4.1.1. Il ricorrente prospetta poi ulteriori profili di censura con riguardo agli altri motivi di appello relativi al merito della controversia, sostenendo che la CTR aveva omesso di esaminare i prospettati profili di illogicità e contraddittorietà dell’attività di accertamento della Guardia di finanza che, invece di procedere eventualmente ad un accertamento sintetico a carico del contribuente basato sugli investimenti patrimoniali ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, era pervenuta alla illogica conclusione che il contribuente svolgesse attività imprenditoriale in Italia, fondandosi sulla base di una serie di presunzioni su presunzioni palesemente viziate.
4.1.1.1. Anche tali doglianze si prospettano, per un verso, prive dei caratteri di specificità propri del motivo di ricorso in Cassazione, se solo si consideri che ai fini dell’ammissibilità della censura di difetto di motivazione, il ricorrente per cassazione ha l’onere di indicare specificamente e singolarmente i fatti, le circostanze e le ragioni che assume essere stati trascurati, insufficientemente o illogicamente valutati dal giudice del merito, e tale onere non può ritenersi assolto mediante il mero generico richiamo agli atti o risultanze di causa, dovendo il ricorso contenere in sè tutti gli elementi che consentono alla Corte di cassazione di controllare la decisività dei punti controversi e la correttezza e sufficienza della motivazione e della decisione rispetto ad essi, senza che sia possibile integrare aliunde le censure in esso formulate-principio ricorrente nella giurisprudenza di questa Corte a partire da Cass. 1 luglio 1981, n. 4277, Cass. 8 settembre 1983, n. 5530, e Cass. 16 maggio 1984, n. 2992 -. Onere di specificazione che non risulta qui assolto e che, dunque, non consentirebbe a questa Corte di esaminare nel merito la censura.
Per altro verso, le stessa doglianze risultano poi destituite di fondamento, involgendo profili di merito congruamente motivati dal giudice di appello – anche alla stregua dei principi giurisprudenziali sopra ricordati a proposito del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 – che, proprio dal rilevante importo dei movimenti finanziari, acclarato attraverso la documentazione bancaria esaminata dalla Guardia di Finanza, ha desunto la riferibilità delle stesse all’attività commerciale svolta dal contribuente in Italia, ove il G. aveva mantenuto sia la residenza anagrafica che i conti correnti bancari esaminati.
4.2. Passando alla censura con la quale il ricorrente lamenta il mancato approfondimento, ad opera della CTR, delle questioni connesse ai prelevamenti bancari che, se adeguatamente ponderati, avrebbe consentito di contraddire la presunzione che il contribuente svolgesse attività commerciale, la stessa è inammissibile.
Ed invero, come puntualmente messo in evidenza dell’agenzia controricorrente, il giudice di appello ha ritenuto legittimo il metodo di accertamento utilizzato dalla Guardia di Finanza posto a base degli avvisi sulla base degli elementi sopra ricordati, peraltro sottolineando che detta metodica non era stata oggetto di precisa impugnazione in primo grado e che le doglianze spiegate in appello dal contribuente erano pertanto inammissibili. Ora, e1 appena il caso di rammentare che tale ultima statuizione non è stata oggetto di impugnazione da parte del contribuente, con evidenti conseguenze anche in punto di ammissibilità di tale profilo di censura in questa fase.
4.3. Infondata risulta la censura che contesta l’omesso esame, da parte del giudice di appello, in ordine alla specifica eccezione riguardante l’immotivata attrazione nei redditi del G. delle movimentazioni bancarie riferibili alla di lui madre C. G., per cui l’omessa pronunzia non poteva che comportare l’annullamento della sentenza impugnata.
4.3.1. Tale doglianza non può passare all’esame del Collegio per difetto di specificità.
Questa Corte ha avuto modo di chiarire che affinché possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronunzia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi. Ove, infatti, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, del citato art. 112 c.p.c., riconducibile alla prospettazione di un’ipotesi di error in procedendo per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del fatto processuale, detto vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere- dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all’adempimento da parte del ricorrente, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito, dell’onere di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca, ma solo ad una verifica degli stessi.
Orbene, la parte ricorrente ha omesso di analiticamente indicare in quale dei motivi di appello fosse stata operata la prospettata eccezione che nemmeno è stata esposta nella sentenza impugnata fra le doglianze prospettate dal ricorrente in quella fase.
In conclusione, in accoglimento del primo motivo di ricorso la sentenza va cassata ed il procedimento deciso nel merito da questa Corte con il rigetto del ricorso proposto in primo grado dal contribuente stante l’infondatezza della pretesa e la piena legittimità dell’operato svolto dall’Ufficio ai fini fiscali.
Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore dell’Agenzia delle Entrate come da dispositivo.
P.Q.M.
LA CORTE
Accoglie il primo motivo di ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rigetta il ricorso proposto dal ricorrente.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in favore dell’Agenzia delle Entrate in Euro 20,000,00, oltre spese prenotate a debito.
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