CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 ottobre 2013, n. 23729

Tributi – Accertamento – Indagine penale – Mancata autorizzazione per la trasmissione dei dati da parte della magistratura – Sussiste

Svolgimento del processo

La A.I. srl proponeva distinti ricorsi dinanzi alla CTP di Padova avverso avvisi di accertamento relativi agli anni 1995 e 1996 concernenti Imposte Dirette, IVA e ritenute alla fonte.

L’adita CTP, riuniti I ricorsi, accoglieva quelli relativi ad IRPEF e ritenute alla fonte, mentre rigettava quelli relativi ad IRPEG, ILOR ed IVA.

Con sentenza 31/16/05, depositata il 20-9-2006, la CTR di Venezia rigettava sia l’appello principale della società sia quello incidentale dell’Agenzia delle Entrate, confermando la statuizione di primo grado; in motivazione la CTR, in particolare, per quanto ancora interessa, evidenziava: 1) che la salvaguardia del segreto delle indagini penali non rappresentava un ostacolo all’azione fiscale, sicché era da ritenersi irrilevante la mancata autorizzazione dell’A.G. all’utilizzo fiscale dei dati e documenti raccolti in sede penale dalla Polizia Tributaria, 2) che i rilievi fiscali non si fondavano solo e soltanto sulle dichiarazioni rese da soggetti terzi; 3) che gli accertamenti emessi ai sensi dell’art. 41 bis dpr 600 (accertamenti parziali in presenza di segnalazioni) erano legittimi, in quanto tale potere era espressamente riconosciuto all’Ufficio, rientrando lo stesso tra I suoi compiti di Istituto; 4) che, nel merito, la società non aveva offerto un’attendibile spiegazione sui movimenti di denaro riscontrati nei periodi in contestazione, mentre appariva inconfutabile il “rilevante smobilizzo delle attività liquide di cui disponeva la società”, smobilizzo posto in essere attraverso un fittizio accrescimento dei debiti verso debitori al fine di celare l’emersione di redditi non dichiarati”.

Avverso detta sentenza proponeva ricorso per Cassazione A.I. srl, affidato ad otto motivi; resisteva l’Agenzia con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente deduceva -ex art. 360 n. 4 cpc- nullità della sentenza in relazione all’art. 112 cpc, per non essersi la CTR pronunziata su specifiche domande proposte sia In primo sia in secondo grado e concernenti violazioni di legge relative agli atti dedotti in giudizio; nello specifico: violazione dell’art. 7 L. 212/00- statuto del contribuente- in ordine alla insufficiente e contradditoria motivazione degli atti (ove l’inesistenza oggettiva delle fatture era fatta discendere dal fatto che i dipendenti della società avevano dichiarato di non conoscere le ditte emittenti e dal fatto che le sedi di alcune società emittenti le fatture negli anni 1995 e 1996 non erano state ritrovate dalla Guardia di Finanza nel 1999 al momento dell’avvenuta verifica); violazione degli artt. 54 dpr 633/72, 39 e 40 dpr 600/73, 2729 cc, in ordine all’infondatezza dell’operato ragionamento presuntivo (l’inesistenza oggettiva delle fatture non poteva desumersi dal fatto che I dipendenti della società avevano dichiarato di non conoscere le ditte emittenti); violazione dell’art. 11, commi 2 e 5, d. Lgs 472/97 – disciplina generale sulle sanzioni amministrative- per avere applicato sanzioni in capo alla società nonostante fosse stata esclusa (In base alla dichiarazione testimoniale della signora R.) la diretta responsabilità dell’amministratore.

Il motivo è infondato.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente società, invero, la CTR si è, sia pur in modo estremamente sintetico, espressa su tali punti, condividendo sugli stessi (concernenti -come su esposto- l’eccepita infondatezza degli atti dedotti in giudizio da parte dell’Amministrazione Finanziaria) quanto affermato dalla CTP e precisando che nulla al riguardo aveva aggiunto la società appellante, che si era Infatti limitata “a ripetere gli argomenti esposti precedentemente e rigettati dai primi Giudici”; non coglie, pertanto, nel segno la proposta censura di omessa pronuncia, atteso che la CTR ha comunque valutato le dette domande, decidendo poi, in esito, (come detto) per il rigetto delle stesse.

Con il secondo, terzo e quarto motivo la ricorrente deduceva -ex artt. 360, comma 1, rispettivamente nn, 3, 5- la nullità della sentenza per: violazione dell’art. 63 dpr 633/72, nella parte in cui rigettava la dedotta eccezione di illegittimità dell’avviso di accertamento per mancanza di autorizzazione del magistrato all’utilizzo fiscale di dati, documenti e notizie raccolte in sede penale (motivo 2); motivazione insufficiente in ordine al rigetto di detta eccezione (motivo 3); violazione dell’art. 112 cpc nella parte in cui, travisando la detta eccezione, ometteva di pronunciare sul capo di domanda ivi formulato.

I motivi, da esaminarsi congiuntamente in quanto tra loro strettamente correlati, sono tutti infondati.

Va innanzitutto precisato che per costante e condiviso principio di questa Corte, in materia di IVA, l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, richiesta dall’art. 63, primo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per la trasmissione, agli uffici delle imposte, dei documenti, dati e notizie acquisiti dalla Guardia di finanza nell’ambito di un procedimento penale, è posta a tutela della riservatezza delle indagini penali, non dei soggetti coinvolti nel procedimento medesimo o di terzi, con la conseguenza che la sua mancanza, se può avere riflessi anche disciplinari a carico del trasgressore, non tocca l’efficacia probatoria dei dati trasmessi, né implica l’invalidità dell’atto impositivo adottato sulla scorta degli stessi; ciò neppure nel caso in cui l’attività di polizia giudiziaria riguardi soggetti diversi dal contribuente, anche considerato che l’art. 18, primo comma, della legge n. 413 del 1991, eliminando dal suddetto art. 33, terzo comma, le parale “nei confronti dell’imputato”, ha reso irrilevante la circostanza che l’indagine penale si sia svolta nei confronti del contribuente o di altro soggetto; l’autorizzazione in parola è stata infatti introdotta per realizzare una maggiore tutela degli interessi protetti dal segreto istruttorio (Corte cost., sent. n. 51 del 1992), piuttosto che per filtrare ulteriormente l’acquisizione di elementi significativi a fini fiscali (Cass. 7279/2009; 11203/2007; v. anche Cass. 28695/2005; 2450/2007).

Alla stregua del predetto principio, pertanto, la CTR ha ritenuto giustamente, sia pur con una motivazione succinta (ma sufficiente, visto anche il contenuto richiamo a pronuncia delle sez. unite di questa Corte), l’autorizzazione in parola non necessaria ai finì fiscali, atteso che “la salvaguardia del segreto delle indagini penali non rappresenta un ostacolo all’azione fiscale”; di conseguenza, implicitamente, a maggior ragione ha correttamente ritenuto non necessaria la motivazione di tale autorizzazione.

Con il quinto motivo la ricorrente, deducendo ex art. 360, comma 1 n. 3 cpc, violazione dell’art. 41 bis dpr 600/73, rilevava che tale norma, in deroga al principio di tendenziale unicità dell’accertamento, consentiva all’Amministrazione di emettere avvisi di accertamento “parziali” (senza quindi precludere l’ulteriore azione accertatrice) solo in presenza di “segnalazioni” effettuate da precisi Enti (Guardia di Finanza etc), nel caso in cui da dette segnalazioni fossero emersi elementi che consentivano di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato parzialmente; di conseguenza, l’Ufficio non poteva procedere all’accertamento in questione in quanto lo stesso era avvenuto sulla scorta non di “segnalazioni” ma di “verbali di contestazione redatti dalla Guardia di Finanza stessa”.

Anche detto motivo è infondato.

Al riguardo è sufficiente osservare che, “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’utilizzazione dello strumento dell’accertamento parziale, ai sensi dell’art. 41-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è nella disponibilità degli uffici quando ad essi pervenga una segnalazione della Guardia di finanza che fornisca elementi per ritenere la sussistenza di un reddito non dichiarato, senza che tale strumento debba (neppure prima delle modificazioni apportate dalla legge 30 dicembre 2004, n. 311) essere subordinato ad una particolare semplicità della segnalazione pervenuta (Cass. 11057/2006; v. anche Cass. 2761/09) e potendo, quindi, lo stesso essere utilizzato (come nel caso di specie) anche in seguito a verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza.

Con il sesto e settimo motivo la ricorrente deduceva rispettivamente -ex art. 360, comma 1 n. 3 cpc- violazione e falsa applicazione dell’art. 7 d.lgs 546/92, e -ex art. 360, comma 1 n. 5 cpc- insufficiente motivazione; al riguardo evidenziava: che la CTR aveva rigettato la sollevata questione di illegittimità degli accertamenti in quanto fondati su prove inutilizzabili (nella specie: dichiarazioni rese da soggetti terzi), motivando siffatto rigetto “in quanto non solo su di esse si fonda(va)no i rilievi fiscali”; che la Corte Costituzionale aveva confermato la possibilità di utilizzare nel processo tributario solo le dichiarazioni rese da soggetti terzi in sede di istruttoria amministrativa (e non, quindi, in sede penale, come nel caso di specie, ove le stesse erano state rilasciate ex art. 351 cpp) proprio perché siffatte dichiarazioni non potevano ritenersi prove testimoniali e potevano quindi valere solo come indizi; che le dichiarazioni rese da terzi ex art. 351 cpp erano invece da ritenere vere e proprie prove testimoniali; che, pertanto, dette dichiarazioni non potevano essere utilizzate nel processo tributario; che comunque la CTR non aveva precisato su quali altri fondamenti si reggeva l’accertamento.

Siffatto motivo è infondato.

Per costante principio di questa Corte, dal quale non v’è ragione di discostarsi, “Il divieto di ammissione della prova testimoniale nel giudizio davanti alle commissioni tributarie, sancito dall’art. 4, comma quarto, del D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, si riferisce alla prova testimoniale da assumere nel processo, che è necessariamente orale, di solito ad iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi, e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio -, e non implica, pertanto, l’inutilizzabilità, ai fini della decisione, delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale e rese da “terzi”, e cioè da soggetti terzi rispetto al rapporto tra il contribuente – parte e l’Erario. Tali informazioni testimoniali hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, e devono pertanto essere necessariamente supportate da riscontri oggettivi (Corte cost., sentenza n. 18 del 2000)” (Cass. 903/2002).

Ciò posto, va, di conseguenza, ritenuta irrilevante la sede (penale) di acquisizione delle dette dichiarazioni e va rilevato che le stesse hanno costituito per la CTR solo elemento indiziario, essendo fondato l’accertamento anche su altri elementi, specificamente evidenziati dalla CTR nel resto della motivazione (v. considerazioni sul “merito”)

Con l’ottavo motivo la ricorrente deduceva -ex art. 360, comma 1, n. 5 cpc- la nullità della sentenza per motivazione omessa o contradditoria in relazione alle conclusioni cui la stessa perveniva; in particolare, a dire delta ricorrente, l’assoluta carenza di motivazione sul fatto controverso (la riconducibilità dei costi ripresi a tassazione a fatture per operazioni inesistenti ovvero a costi non inerenti all’attività) impediva la comprensione dell’argomentare della sentenza; nello specifico: non spiegava il legame tra ripresa di costi per fini estranei alla gestione e ripresa di costi perché afferenti a fatture inesistenti; peraltro solo tale “causa petendi” {ripresa di costi perché afferenti a fatture inesistenti) era stata dal Fisco posto a base dell’accertamento.

Detto motivo è infondato.

Anche a prescindere dalia genericità del motivo medesimo, nel quale non viene per nulla precisata la rilevanza nello specifico della detta distinzione, va, invero, comunque rilevato che il fatto (ripresa di costi) è unico, e che la CTR, dopo avere sottolineato l’assenza -da parte della società- di un’attendibile spiegazione sui movimenti di denaro che avevano caratterizzato la gestione della società, ha ampiamente trattato e posto a base della decisione soprattutto l’inconfutabile dato del “rilevante smobilizzo delle attività liquide di cui disponeva la società” attuato “attraverso un fittizio accrescimento del debiti verso i fornitori al fine dì celare l’emersione di redditi non dichiarati”.

In conclusione, pertanto, il ricorso va rigettato.

Le spese ed i compensi di lite relativi al presente giudizio di legittimità, liquidati come in dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese ed i compensi di lite relativi al presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 12.000,00, oltre spese prenotate a debito.