CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 ottobre 2013, n. 23752
Tributi – IVA – Rimborsi – Termini – Variazione dell’imponibile o dell’imposta – Rettifica ex art. 26, D.P.R. n.633 del 1972 – Obbligatorietà – Esclusione – Azione generale di rimborso – Art.21, D.Lgs. n. 546 del 1992 – Applicabilità – Termine biennale – Decorrenza del termine decadenziale – Transazione – Termine iniziale
Ritenuto in fatto
1. In data 23.6.03, F.G. proponeva istanza di rimborso dell’IVA versata in eccedenza negli anni 1999 e 2000, in conseguenza dell’intervenuta riduzione, in via transattiva, dell’imponibile delle operazioni di vendita intercorse, in quegli anni, con la propria cliente D.P.S. s.r.l. Il rimborso era denegato dall’Ufficio, con provvedimento del 25.3.04.
2. Il provvedimento di diniego veniva, quindi, impugnato dal F. dinanzi alla CTP di Roma, che accoglieva integralmente il ricorso. L’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate alla CTR del Lazio veniva, tuttavia, accolto con sentenza n. 366/1/08, depositata il 24.9.08, con la quale il giudice di appello affermava che l’indebito derivante “da una diversa modulazione del quantum del presupposto di imposta” non può dare luogo a rimborso, ai sensi dell’art. 21, co. 2 d.lgs. 546/92, ma solo alla procedura di variazione di cui all’art. 26 del d.P.R. 633/72, peraltro non attivata dal contribuente.
3. Per la cassazione della sentenza n. 366/1/08 ha proposto ricorso F.G. affidato a due motivi, ai quali l’Agenzia delle Entrate ha replicato con controricorso. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Considerato in diritto
1. Con il primo motivo di ricorso, il F. denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 26 del d.P.R. 633/72 e 21 del d.lgs. 546/92, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.
1.1. Avrebbe, invero errato la CTR, a parere del ricorrente, nel ritenere che il contribuente dovesse necessariamente fare ricorso alla procedura di variazione dell’imponibile o dell’imposta, prevista dall’art. 26 del D.P.R. 633/72, al fine di rettificare errori di fatturazione che abbiano comportato l’addebito di IVA non dovuta. E ciò in quanto, ad avviso del giudice di appello, non vertendosi in ipotesi di inesistenza del rapporto tributario, ma di diversa modulazione del quantum di quanto dovuto all’Amministrazione finanziaria a titolo di imposta, non potrebbe essere percorsa la strada della restituzione dell’indebito oggettivo, ma solo quella della menzionata procedura di variazione ex art. 26 del decreto cit.
Al contribuente – secondo il ricorrente – sarebbe, invece, da ritenersi attribuita, in siffatta ipotesi, la facoltà alternativa di attivare la procedura di rimborso, ai sensi dell’art. 21 del d.lgs. n. 546/92, nel termine biennale ivi previsto, trattandosi pur sempre di indebito pagamento di IVA non dovuta.
2. Con il secondo motivo di ricorso, il F. denuncia, inoltre, la violazione e falsa applicazione degli artt. 17, 18, 19 e 26 del d.P.R. n. 633/72, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.
2.1. Si duole, invero, l’istante del fatto che il giudice di appello abbia erroneamente ritenuto che la possibilità di detrazione, assicurata al cessionario della merce dal meccanismo della rivalsa, impedisca al cedente di conseguire il rimborso dell’IVA indebitamente versata. Sostiene, per converso, il F. che il rapporto che si instaura tra il cedente e l’Amministrazione finanziaria, a seguito dell’effettuazione di un’operazione imponibile, sarebbe del tutto autonomo ed indipendente da quello che intercorre tra il cessionario e la stessa Amministrazione, e concernente il diritto di quest’ultimo alla detrazione dell’IVA, previsto dall’art. 19 d.P.R. 633/72.
Per il che, il fatto che il cessionario abbia già detratto l’IVA – ferma restando la possibilità per l’Ufficio di opporre al medesimo un divieto di detrazione – non potrebbe impedire al cedente, che in forza del principio di neutralità dell’IVA deve restarne indenne, l’esercizio del diritto di rimborso dell’imposta non dovuta.
3. I due motivi di ricorsi – che, per la loro evidente connessione, vanno esaminati congiuntamente – sono pienamente fondati e vanno accolti.
3.1. Va rilevato, in proposito, che, nel corso degli anni 1999 e 2000, F.G. effettuava prestazioni di servizi a titolo oneroso, consistenti in consulenze in materia informatica, a favore della D.P.S. s.r.l., a fronte delle quali il F. emetteva fatture solo parzialmente pagate dalla società committente. Nondimeno, il medesimo provvedeva a versare integralmente l’IVA a debito risultante dalle fatture emesse, per l’importo complessivo di € 15.381,06.
A seguito di successive trattative, le parti addivenivano, peraltro, ad una transazione, in forza della quale veniva consensualmente ridotto il credito vantato dal F., il quale provvedeva, altresì, a versare l’IVA sull’importo definito con l’accordo transattivo, pari ad € 2.067,21.
Di conseguenza, essendo ormai decorso il temine annuale ex art. 26 del d.P.R. 633/72, il prestatore dei servizi richiedeva, con istanza del 23.6.03, ossia nei due anni dall’accordo transattivo e dal pagamento dell’ulteriore imposta, la restituzione della differenza tra l’IVA a suo tempo versata sulle fatture emesse e quella pagata in conseguenza della riduzione transattiva dell’importo imponibile, per la somma complessiva di € 13.313,85.
3.2. L’istanza veniva, peraltro, respinta dall’ Amministrazione, con il provvedimento del 25.3.04, oggetto di impugnativa nel presente giudizio.
4. Premesso quanto precede, osserva la Corte che, secondo il principio di neutralità dell’IVA, enunciato dalla VI Direttiva 77/388/CEE del 17.5.77, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari (temporalmente applicabile alla fattispecie concreta), e dalla Direttiva 2006/112/CE del 28.11.06, relativa al sistema comune di imposta sul valore aggiunto, il cedente o il prestatore che abbia versato IVA non dovuta, in base al diritto dell’Unione Europea, che sancisce il suindicato principio, ha diritto alla restituzione dell’imposta corrisposta e dei relativi interessi.
E tale diritto non può essere escluso per il fatto che la fattura, erroneamente emessa, non sia stata rettificata dal cedente o dal prestatore, atteso che, ogni qual volta la procedura di rettifica prevista dal diritto nazionale non sia attivabile, il diritto al rimborso – in applicazione del principio di neutralità dell’IVA, in forza del quale il cedente o il prestatore che abbiano versato l’imposta nell’esercizio della loro attività di impresa ne devono restare immuni – non può essere denegato . (C. Giust, 19.7.12, C-591/10, C. Giust. 11.4.13, C-138/12), laddove, come nel caso di specie, l’avvenuto pagamento dell’imposta in misura superiore a quella dovuta escluda l’arricchimento senza giusta causa dell’avente diritto al rimborso (C. Giust. 18.6.09, C- 566/07).
5. Sulla scia di siffatte affermazioni di principio di rango comunitario, anche la giurisprudenza di questa Corte ha più volte enunciato il principio secondo cui, in ipotesi di indebito tributario – ricorrente, al contrario di quanto affermato dal giudice di appello, sia quando l’imposta non è affatto dovuta, sia quando il relativo importo debba essere rimodulato – il ricorso, da parte del contribuente, alla procedura di variazione ai sensi dell’art. 26 d.P.R. 633/72 non è obbligatorio, ma è rimesso alla sua libera scelta, ben potendo il medesimo sempre optare per l’esercizio dell’azione generale di rimborso ex art. 21 d.lgs. 546/92.
D’altro canto, avendo – nel caso di specie – il F. – provveduto a versare l’IVA sia sulle fatture emesse, che sull’importo derivante dalla transazione conclusa con il cessionario, il diritto del medesimo al rimborso non avrebbe dovuto essere negato dalla CTR, in applicazione del succitato principio di neutralità dell’IVA, ed escluso l’indebito arricchimento dell’avente diritto al rimborso.
6. L’accoglimento del ricorso comporta la cassazione dell’impugnata sentenza. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la Corte, nell’esercizio del potere di decisione nel merito di cui all’art. 384, co. 1 c.p.c., accoglie il ricorso introduttivo del contribuente.
7. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno poste a carico della resistente soccombente, nella misura di cui in dispositivo. Concorrono giusti motivi per dichiarare interamente compensate fra le parti le spese dei giudizi di merito.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo del contribuente; condanna l’Amministrazione resistente alle spese del presente giudizio che liquida in € 2.000,00, oltre ad € 200,00 per esborsi ed accessori di legge; dichiara compensate tra le parti le spese dei gradi di merito.
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