Corte di Cassazione sentenza n. 255 del 12 gennaio 2012
CONTENZIOSO TRIBUTARIO – ACCISE – L’ACQUIRENTE DEL RAMO D’AZIENDA INTERVIENE IN APPELLO – AMMISSIBILITA’ INTERVENTO ADESIVO DIPENDENTE NEL CORSO DEL GIUDIZIO DI SECONDO GRADO
massima
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L’acquirente del ramo di azienda può intervenire nel processo tributario anche per la prima volta in appello, per sostenere le ragioni della società venditrice alla quale è stato notificato l’avviso di accertamento.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – MOTIVI DELLA DECISIONE
1. L’Agenzia delle Dogane propone ricorso per cassazione (successivamente illustrato da memoria) nei confronti della C. s.r.l. in liquidazione nonché della S. s.p.a. (entrambe resistenti con controricorso successivamente illustrato da memoria) e avverso la sentenza con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso per accise relative a quantitativi di alcol etilico denaturato speciale impiegato nella produzione di profumeria alcolica in usi non consentiti, la C.T.R. Lombardia confermava la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso introduttivo proposto dalla C. s.r.l.
In particolare i giudici d’appello, premesso che la controversia non verte sulla quantità di alcol etilico denaturato utilizzato dalla società – la quale afferma di aver correttamente iscritto nei registri di carico e scarico i relativi quantitativi – bensì sull’agevolazione fiscale di cui secondo l’Ufficio non potrebbe giovarsi la società per la parte di alcol utilizzata per la c.d.
“igienizzazione e sanitizzazione” degli impianti, hanno sostenuto che per poter giungere al prodotto finito gli impianti utilizzati nelle varie fasi della produzione debbono essere necessariamente “igienizzati e sanitati”, con la conseguenza che l’alcol utilizzato a tal fine rientra nel ciclo lavorativo e quindi nella prevista esenzione fiscale.
2. Per ragioni logiche deve essere esaminato per primo il terzo motivo di ricorso, posto che con esso si denuncia un error in procedendo. Col suddetto motivo, deducendo violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere i giudici d’appello omesso di rilevare l’inammissibilità dell’intervento spiegato nel secondo grado di giudizio dalla S. s.p.a. (acquirente del ramo di azienda della società destinataria dell’avviso opposto), atteso che la suddetta società non era stata essa stessa destinataria dell’avviso opposto e che anche l’intervento litisconsortile o adesivo autonomo – possibile solo in primo grado – è limitato alle parti che insieme al ricorrente sono destinatarie dell’atto impugnato o sono parti del rapporto controverso. La censura è infondata.
Il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14, comma 3, disponendo che “possono intervenire o essere chiamati in giudizio i soggetti che, insieme al ricorrente, sono destinatari dell’atto impugnato o parti del rapporto tributario controverso” prevede l’instaurazione di un litisconsorzio facoltativo successivo nel corso della trattazione di una controversia tributaria. L’estrema stringatezza e genericità della formula adottata dal legislatore in relazione ai tipi di intervento consentiti rende necessario un approfondimento, che non può non prendere le mosse dalle ipotesi di intervento individuate dall’art. 105 c.p.c.
Tale disposizione disciplina tre diverse tipologie di intervento volontario: quello principale, che si verifica quando nel giudizio pendente interviene un soggetto che fa valere nei confronti di entrambe le parti in causa un diritto relativo a quello controverso dedotto in giudizio e ad esso connesso per oggetto e titolo, con una domanda diretta contro le suddette parti originarie ed incompatibile con le posizioni e le conclusioni di entrambe; quello c.d. litisconsortile o “adesivo autonomo”, che si verifica quando un soggetto fa valere un proprio diritto – connesso per oggetto e/o per titolo a quello dedotto in giudizio – nei confronti di una soltanto delle parti originarie, assumendo perciò una posizione autonoma soltanto nei confronti di tale parte; infine quello c.d. “adesivo dipendente”, che si verifica quando il terzo non fa valere un proprio diritto nei confronti di alcuno ma si limita a sostenere le ragioni di una delle parti in giudizio perchè titolare di un rapporto strutturalmente dipendente da quello oggetto del giudizio. Tale ultimo tipo di intervento è dunque caratterizzato dal fatto che l’interveniente non rivendica un proprio diritto – come negli altri due tipi di intervento – ma assume una posizione subordinata alla parte della quale auspica e cerca di propiziare la vittoria.
In ordine alla ammissibilità di quest’ultimo tipo di intervento nel processo tributario in rapporto alla previsione dell’art. 14 citato questa Corte di legittimità in alcune sentenze, pur senza pronunciarsi espressamente e senza nulla argomentare in proposito, l’ha presupposta, affermando che nel contenzioso tributario l’intervento adesivo dipendente determina un’ipotesi di causa inscindibile ai sensi dell’art. 331 c.p.c., con conseguente configurabilità di un litisconsorzio necessario processuale in grado di appello (v. cass. n. 1789 del 2004 e n. 14423 del 2010, quest’ultima concernente l’intervento di un Comune nella controversia tra il contribuente e l’Agenzia del Territorio avente ad oggetto l’attribuzione di rendita ad un immobile), mentre altre pronunce (v. cass. n. 24064 del 2006 – relativa anch’essa all’intervento di un Comune in controversia avente ad oggetto l’impugnazione di un atto di classamento – e n. 16937 del 2007) hanno escluso l’ammissibilità nel processo tributario dell’intervento adesivo dipendente, essendo esso incompatibile sia con la natura impugnatoria del giudizio, la cui introduzione è subordinata ad un termine di decadenza sia con il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14 che, consentendo all’interveniente di proporre domande diverse da quelle avanzate dalle parti originarie soltanto qualora l’intervento abbia luogo entro il termine assegnato per l’impugnazione, riconosce la legittimazione ad intervenire ai soli soggetti che, in qualità di destinatari dell’atto o parti del rapporto controverso, potrebbero proporre autonoma impugnazione, escludendo quindi la possibilità di spiegare intervento a tutela di interessi sui quali l’atto può produrre un effetto di pregiudizio o di vantaggio (v. cass. n. 24064 del 2006).
Tanto premesso, occorre rilevare che solo sulla scorta di una mera interpretazione letterale del disposto del citato art. 14 (il quale qualifica i possibili interventori come quei “soggetti che, insieme al ricorrente, sono destinatari dell’atto impugnato ovvero sono parti del rapporto tributario controverso”) potrebbe giungersi ad escludere l’ammissibilità dell’intervento adesivo dipendente nel giudizio tributario, tuttavia una simile interpretazione comporterebbe l’immotivata esclusione della possibilità di intervenire in giudizio per soggetti che, lungi dal far valere ragioni consistenti in utilità di mero fatto, sono (come nella specie) portatori di un interesse giuridicamente rilevante e qualificato, determinato dalla sussistenza di un rapporto giuridico sostanziale fra adiuvante e adiuvato e dalla necessità di impedire che nella propria sfera giuridica possano ripercuotersi le conseguenze dannose derivanti dagli effetti riflessi o indiretti del giudicato. Come sarà meglio chiarito in prosieguo, in caso di ritenuta inammissibilità di intervento, per tali soggetti sarebbe esclusa ogni possibilità di tutela giurisdizionale.
Una interpretazione costituzionalmente orientata del citato art. 14 deve dunque indurre ad una lettura estensiva del concetto di destinatario dell’atto – fino a comprendere in esso non solo il destinatario stricto iure ma anche il destinatario potenziale e mediato – nonché del concetto di titolarità del rapporto controverso – fino a comprendere in esso anche la titolarità di un rapporto dipendente o connesso rispetto a quello costituito dall’atto impugnato -. Una simile interpretazione consente di ammettere nel processo tributario l’intervento di quei soggetti che, pur non destinatari diretti dell’atto impugnato, potrebbero essere chiamati successivamente ad adempiere in luogo di altri, ipotesi nelle quali il condebitore non è soggetto passivo di imposta ma è tuttavia considerato, dalla disciplina civile o fiscale, solidalmente responsabile per l’adempimento dell’obbligazione tributaria insieme con il contribuente, come nel caso dei soci di una società di persone – illimitatamente responsabili per le obbligazioni societarie, comprese quelle tributarie -, nel caso dei rappresentanti legali del soggetto passivo di imposta – talora ritenuti solidalmente responsabili con quest’ultimo – oppure nel caso (ricorrente nella specie) del cessionario di azienda o di un ramo di essa – responsabile in solido ex D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 14, fatto salvo il beneficio della preventiva escussione del cedente ed entro i limiti del valore dell’azienda o del ramo d’azienda, per il pagamento dell’imposta e delle sanzioni riferibili alle violazioni commesse nell’anno in cui è avvenuta la cessione e nei due precedenti, nonché per quelle irrogate e contestate nel medesimo periodo, anche se riferite a violazioni commesse in epoca anteriore.
In tutti questi casi non è configurabile una responsabilità solidale paritetica bensì una solidarietà dipendente (c.d. responsabilità di imposta) che si realizza quando la legge prevede la responsabilità solidale di un soggetto che, pur non avendo realizzato il fatto indice di capacità contributiva risulta collegato al fatto imponibile ovvero al contribuente sulla base di un rapporto al quale il fisco rimane estraneo. E’ evidente pertanto che con riguardo a tali soggetti non viene in considerazione il mero “effetto giuridico di fattispecie” dell’atto impugnato, posto che detto atto è potenzialmente destinato ad avere nei loro confronti effetti giuridici sostanziali. E’ da aggiungere che questa Corte ha ritenuto legittima la richiesta di pagamento al condebitore solidale senza previa notifica nei suoi confronti di alcun avviso (v. ad esempio tra le altre cass. n. 10638 del 1997, in tema di notifica ai soci di una società in nome collettivo dell’avviso di mora per il pagamento di ritenute alla fonte operate dalla società ma non versate all’erario, senza la preventiva notifica ai soci stessi di un avviso motivato diretto all’accertamento della loro responsabilità).
Una interpretazione del D.Lgs. n. 546 del 1993, art. 14 che comporti l’esclusione della possibilità, nella controversia tra il titolare del debito di imposta e l’amministrazione finanziaria, dell’intervento ad adiuvandum del responsabile solidale dipendente toglierebbe dunque a quest’ultimo ogni possibilità di incidere in un giudizio la cui conclusione potrebbe avere conseguenze irreversibili sulla sua sfera economico-giuridica, se si considera che non sussistono i presupposti per una opposizione di terzo, mezzo di impugnazione peraltro neanche contemplato nel processo tributario.
Una simile interpretazione restrittiva non sarebbe inoltre neppure giustificata della necessità di salvaguardare la ragionevole durata del processo. Infatti, solo nell’intervento principale (e in misura minore in quello liti sconsortile) si determina una ampliamento dell’oggetto del processo già pendente tra le parti originarie con cumulo oggettivo di domande: in tal caso il terzo assume tutti i poteri propri di chi propone una domanda e, secondo parte della dottrina e della giurisprudenza, le preclusioni di cui all’art. 268 c.p.c. (prevedente che il terzo intervenuto non può svolgere l’attività istruttoria che la fase in cui si trova il processo al momento dell’intervento non consente alla altre parti) non si estenderebbero alla sua attività assertiva, non operando nei confronti del terzo interventore principale il divieto di proporre domande nuove che vincola le parti originarie. Tali problemi non si pongono però nei confronti dell’interventore adesivo dipendente, il quale non propone alcuna domanda, non amplia l’oggetto del processo e non ne comporta rallentamenti o regressioni di sorta.
Anche alla luce di queste ultime considerazioni deve ritenersi che non sussiste alcuna ragione di economia processuale per escludere l’intervento adesivo dipendente nel giudizio tributario e, come nella specie, nel corso del giudizio di secondo grado.
In proposito, occorre rilevare che l’art. 344 c.p.c. disciplina espressamente l’intervento in appello (il quale pertanto non può ritenersi escluso in linea di principio) prevedendo che “è ammesso soltanto l’intervento dei terzi che potrebbero proporre l’opposizione a norma dell’art. 404 c.p.c.”.
Con riguardo al processo tributario è però da precisare che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 49 dispone che alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano “le disposizioni del titolo terzo, capo primo, del libro secondo del c.p.c., escluso l’art. 337 e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto”, con la conseguenza che il citato art. 344 c.p.c. (siccome collocato nel capo secondo del titolo terzo del libro secondo del codice di rito) deve ritenersi non compreso tra le norme applicabili al processo tributario, essendo peraltro da precisare che lo specifico rinvio alle norme del codice di procedura civile operato dall’art. 49 citato, in quanto dettato espressamente per le impugnazioni, si sovrappone (sostituendolo) al generico rinvio alle norme del suddetto codice in quanto compatibili contenuto nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2. Il citato art. 344 c.p.c. peraltro non sarebbe in ogni caso compatibile col processo tributario, non fosse altro perché, come già rilevato, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 50 non contempla l’opposizione di terzo tra le impugnazioni esperibili in tale processo.
In assenza di una norma che disciplini specificamente l’intervento volontario in appello, deve pertanto ritenersi che ad esso sia applicabile la disciplina generale dettata dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14, che non prevede in proposito alcuna limitazione.
Col primo motivo di ricorso, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1995, artt. 2 e 27 nonché del D.M. n. 524 del 1996, art. 2, oltre che dell’art. 14 preleggi e dei principi generali in materia di interpretazione della legge, la ricorrente si duole del fatto che i giudici di appello, senza considerare la normativa regolante la materia e la relativa ratio, abbiano escluso nella specie la necessità di seguire la procedura di autorizzazione normativamente prevista per i casi di utilizzo di alcol per usi non consentiti. In particolare, la ricorrente sostiene che, benché la normativa applicabile contempli l’esenzione solo per l’alcol utilizzato nelle attività produttive, i giudici d’appello avrebbero esteso l’esenzione anche all’alcol utilizzato per le attività preparatorie e accessorie, senza considerare che le norme che prevedono una esenzione di imposta sono norme eccezionali.
La censura è fondata nei termini di cui in prosieguo.
Considerato che nella specie non risulta contestato che il quantitativo di alcol di cui si discute fosse stato effettivamente utilizzato per la c.d. “igienizzazione e sanitizzazione” degli impianti nè che per tale quantitativo di alcol non fosse stata rilasciata alcuna autorizzazione (la quale fu richiesta e rilasciata solo successivamente al controllo effettuato dall’UTIF), occorre precisare che la questione posta dalla censura in esame riguarda dunque soltanto la possibilità (o meno) di considerare esente da imposta, anche senza il rilascio di preventiva autorizzazione, l’alcol etilico denaturato utilizzato per la pulizia degli impianti destinati alla produzione di profumeria alcolica.
A norma del D.Lgs. n. 504 del 1995, art. 27, comma 3, lett. b) (Testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative) l’alcol è esente da accisa quando è denaturato con denaturanti speciali approvati dall’amministrazione finanziaria ed impiegato nella fabbricazione di prodotti non destinati al consumo umano alimentare.
Con D.M. n. 524 del 1996 è stato emanato il Regolamento recante norme per disciplinare l’impiego dell’alcol etilico e delle bevande alcoliche in usi esenti da accisa. Tale regolamento prevede, all’art. 2, commi 2 e 3, che l’alcol etilico destinato alla fabbricazione delle profumerie e dei prodotti cosmetici di cui alla L. n. 713 del 1986, art. 1 deve essere denaturato mediante l’aggiunta, ad ogni ettolitro anidro di alcol, di una serie specifica di sostanze, individuate, per tipo e quantità, a seconda che le preparazioni riguardino profumerie alcoliche, prodotti per capelli, creme ed altri prodotti per la pelle ovvero prodotti per l’igiene dei denti e della bocca.
Sempre l’art. 2, comma 3 prevede ancora che, previa autorizzazione dell’Amministrazione finanziaria, le suddette formulazioni possono essere utilizzate per correlazioni diverse da quelle sopra specificate. Da tali previsioni emerge con chiarezza che l’alcol esente da accisa è quello destinato alla fabbricazione dei prodotti di profumeria, ossia quello utilizzato per la produzione, non pertanto quello utilizzato nelle fasi preparatorie ed accessorie della medesima, ove si consideri anche la minuziosa precisione con la quale sono indicate le diverse formule da utilizzare per denaturare il suddetto alcol a seconda dei prodotti alla cui fabbricazione esso è destinato.
In proposito, premesso che l’alcol esente da accisa è sempre un alcol denaturato, ossia reso inadatto all’uso alimentare umano mediante l’aggiunta di sostanze chimiche denaturanti, occorre precisare che, pur escludendo l’uso alimentare umano, le differenze tra i possibili usi dell’alcol siccome denaturato non sono tuttavia irrilevanti, con la conseguenza che, senza una preventiva autorizzazione, non è possibile utilizzare l’alcol che è stato denaturato per essere destinato ad entrare nella composizione di alcuni prodotti specificamente individuati dal legislatore (in tal senso dovendosi interpretare, come sopra rilevato, l’espressione “destinato alla fabbricazione”) in una attività genericamente preparatoria e ausiliaria nel ciclo di lavorazione di tali prodotti.
E ciò non solo per un problema di controllo da parte dell’amministrazione finanziaria di eventuali evasioni di imposta, ma anche per ragioni di salute e sicurezza, posto che le diverse tipologie di denaturazione, pur perseguendo l’interesse dell’erario a che l’alcol esente da accisa sia reso inidoneo all’uso alimentare umano, sono sempre valutate esattamente in rapporto allo specifico utilizzo di tale alcol siccome denaturato anche nella necessaria considerazione della salute degli utilizzatori dei prodotti o della sicurezza di macchinari e impianti in relazione alla possibile nocività o, eventualmente, ad altre caratteristiche (ad esempio:
maggiore o minore infiammabilità) dei prodotti chimici utilizzati nel procedimento di denaturazione e delle relative percentuali di utilizzo. Da ultimo, occorre rilevare che, sempre nel medesimo art. 2, al comma 6 è previsto tra l’altro che chiunque intenda utilizzare l’alcol denaturato di cui al citato articolo deve presentare, almeno sessanta giorni prima dell’inizio dell’attività, apposita denuncia, in duplice esemplare, al competente UTIF, illustrando il processo di lavorazione ed indicando il denaturante ritenuto idoneo e la gradazione alcolica dei prodotti che intende ottenere e deve chiedere il rilascio della licenza fiscale per la specifica attività e l’attribuzione della qualifica di operatore registrato. Nella norma in esame è altresì previsto che l’UTIF, accertato che ricorrono i relativi presupposti, rilascia la licenza e può procedere ad eventuali esperimenti per la determinazione dei parametri di impiego, mentre l’utilizzatore è obbligato alla tenuta di apposito registro di carico e scarico dell’alcol, riportando giornalmente le partite pervenute e decadalmente quelle passate alla lavorazione nonchè i prodotti ottenuti, distintamente per gradazione alcolica.
Come appare evidente anche da queste previsioni (ad esempio: indicazione nella denuncia del denaturante ritenuto idoneo alla lavorazione e della gradazione alcolica dei prodotti che si intende ottenere; annotazione ogni dieci giorni sui registri di carico e scarico delle partite di alcol passate alla lavorazione nonché dei prodotti ottenuti, distintamente per gradazione alcolica), il legislatore valuta in stretta connessione l’alcol utilizzato per fabbricare il prodotto ed il prodotto ottenuto con esso, con riguardo alla sua gradazione alcolica, dovendo pertanto concludersi, anche alla luce di una interpretazione complessiva del dato normativo, che l’alcol che il legislatore considera in esenzione di accisa è solo quello utilizzato nella composizione dei prodotti di profumeria. Ciò non esclude che nell’ambito della produzione di tali prodotti possa essere utilizzato alcol, ma questo può essere esente solo se autorizzato secondo la specifica previsione del terzo comma dell’articolo in esame sopra riportata.
E’ infine da precisare che il rispetto delle rigide prescrizioni formali siccome emergenti dalla disciplina esaminata deve ritenersi, in materia “sensibile” come quella della tassazione dei prodotti alcolici, essenziale non solo al fine di consentire gli opportuni controlli per scongiurare l’evasione, ma altresì, per quanto sopra esposto, al fine di tutelare la salute degli utilizzatori dei prodotti fabbricati con l’alcol denaturato nonché la sicurezza dei relativi impianti di lavorazione, con la conseguenza che le norme disciplinanti la materia devono essere considerate di stretta interpretazione e rigorosa applicazione, e non solo perché si tratta di norme di natura eccezionale in quanto disciplinanti agevolazioni fiscali. Il secondo motivo (col quale la ricorrente, deducendo vizio di motivazione, si duole del fatto che i giudici d’appello abbiano deciso su di una questione tecnica quale la necessità di “igienizzazione e sanitazione” degli impianti di lavorazione a mezzo di alcol denaturato senza alcun accertamento peritale e senza esporre alcuna motivazione, nonché del fatto che i giudici d’appello abbiano ampliato l’oggetto dell’esenzione prevista dal legislatore senza indicare la norma di legge applicata e comunque senza motivare in ordine alla sussistenza dei presupposti di legge) risulta, prescindendo da ogni valutazione circa la relativa ammissibilità, assorbito dalla decisione assunta in ordine al primo motivo di ricorso.
3. Alla luce di quanto sopra esposto, il primo motivo di ricorso deve essere accolto, il secondo assorbito e il terzo rigettato. La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito col rigetto del ricorso introduttivo. Considerato l’esito della controversia e la mancanza di precedenti specifici in ordine alla questione prospettata nel primo motivo di ricorso, si ritiene di disporre la compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
LA CORTE Accoglie il primo motivo di ricorso, rigetta il terzo e dichiara assorbito il secondo. Cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta il ricorso introduttivo. Compensa le spese dei giudizi di merito e condanna la soccombente alle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.500,00 di cui Euro 3.400,00 per onorari oltre spese generali e accessori di legge.
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