Corte di Cassazione ordinanza n. 19806 depositata il 12 luglio 2023

cessione d’azienda – responsabilità solidale dell’acquirente

RILEVATO CHE

Con sentenza del 2019 il Tribunale di Padova dichiarò il fallimento della D. s.p.a., con socio unico, con contestuale declaratoria d’inammissibilità della proposta di concordato preventivo con continuità aziendale, osservando che: la falcidia relativa alla proposta dell’Erario violava gli artt. 2740, 2741, c.c., 182ter, 160, c.2, l.f.; il piano non era fattibile, in quanto i ricavi del primo anno erano risultati peggiori di quelli previsti nel progetto industriale; la relazione ex art. 160, c.2, l.f., era carente in riferimento all’omessa valorizzazione dei crediti nella stima aziendale, per euro 1.200.000,00, e dell’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore unico (con particolare riguardo al conferimento del ramo d’azienda wholesale nella controllata JDC).

Avverso   tale   sentenza   propose   reclamo   la D. s.p.a., contestando la suddetta motivazione.

Con sentenza del 19.7.19 la Corte d’appello rigettava il reclamo, osservando che: circa la questione della stima dei crediti, la relazione dell’attestatore e quella integrativa non erano congrue rispetto alla domanda di concordato, contenendo dati imprecisi e genericamente indicati, mentre l’integrazione non aveva colmato le lacune precedenti, avendo essa solo applicato una svalutazione delle poste senza fornire spiegazioni; dalle suddette relazioni si desumevano dati non veritieri sui crediti incassati, specie riguardo al maggior credito vantato, per euro 800.00,00, per il quale era indicata la sua estinzione tramite compensazione con le prestazioni pubblicitarie su Sky, ma in relazione al quale non erano date adeguate spiegazioni; non erano stati altresì resi chiarimenti sulla completa svalutazione del credito di regresso verso la controllata JDC, non avendo l’attestatore chiarito le ragioni per le quali, a fronte del conferimento di merce per quasi 4 milioni di euro, la predetta società, interamente controllata dalla fallita, non fosse in grado di fronteggiare, almeno parzialmente, i propri debiti o comunque di rifondere quanto corrisposto ai propri debitori dalla fallita; non era stata esaminata la questione della responsabilità degli amministratori. La D. s.p.a. ricorre in cassazione contro questa decisione con tre motivi. Il fallimento della D. resiste con controricorso, proponendo ricorso incidentale condizionato affidato ad unico motivo. Non si sono costituite le altre parti intimate.

RITENUTO CHE

Il primo motivo del ricorso principale denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2560 c.c., 160, c.2, 182ter, 161, c.3, 186bis, per aver la Corte d’appello ritenuto la sussistenza del credito di regresso nei confronti della controllata del tutto svalutato dall’attestatore per il pagamento a favore dei creditori della JDC, a prescindere dalla capacità patrimoniale di quest’ultima di far fronte alle passività del ramo conferito, in quanto il citato art. 2560, c.1, c.c. prevede la persistenza della responsabilità dell’alienante/conferente in ordine ai debiti inerenti all’esercizio dell’azienda maturati dopo il conferimento, mentre il secondo comma dello stesso articolo cumula la responsabilità del conferente e del conferitario, se il debito risulti dai libri contabili obbligatori.

La ricorrente si duole pertanto che la Corte territoriale abbia escluso la fattibilità giuridica della proposta, assumendo che: il suddetto credito di regresso era inesistente poiché la circolazione del ramo d’azienda non comporta il trasferimento del debito che resta imputabile alla conferente fallita; la proposta e il piano concordatario avevano recepito le passività oggetto del suddetto conferimento e ne avevano previsto il pagamento da parte della ricorrente, anche alla luce della mancata liberazione della conferente; l’attestatore aveva correttamente svalutato la partecipazione detenuta nella conferitaria; la Corte d’appello avrebbe omesso di motivare la ragione per la quale ha ritenuto che la controllata sarebbe stata in grado di adempiere al debito di regresso, nonostante la ricorrente avesse allegato nel ricorso che le capacità solutorie della JDC erano compromesse a causa della crisi finanziaria della controllante che ne aveva causato il fallimento.

Il secondo motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 160, c.2, 182ter, 161, c.3, 186bis, l.f., per aver il giudice di secondo grado affermato che la relazione non era conforme al modello legale in quanto l’attestatore non avrebbe: esposto i criteri di valutazione applicati per l’analisi delle singole voci componenti l’azienda; chiarito le ragioni della svalutazione del 35% dei crediti commerciali, e delle rimanenze di magazzino; esposto in modo convincente le ragioni dell’assorbimento della cassa nel primo semestre di piano per euro 1.300.000,00.

Pertanto, la ricorrente si duole che il Tribunale abbia esorbitato dal perimetro della propria cognizione, valutando invece la convenienza della proposta e la probabilità di successo economico del piano.

Il terzo motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 160, c.2, 182ter, 161, c.3, 186bis,l.f., 2446, 2447, 2486, c.c., per aver la Corte territoriale ritenuto l’attestazione dell’esperto incompleta ed inattendibile in ordine ai presupposti dell’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore della fallita, avendo l’attestatore invece compiutamente valutato l’operato dell’organo gestorio della fallita, e tenuto altresì conto del fatto che i principi d’attestazione dei piani di risanamento del 2014 escludono che l’attestatore debba esprimere giudizi sull’esperibilità di eventuali azioni di responsabilità nei confronti degli organi d’amministrazione e controllo della società, salvo che le stesse non siano esplicitamente previste o menzionate nel piano.

L’unico motivo del ricorso incidentale, condizionato all’accoglimento del ricorso principale, denunzia violazione degli artt. 160, c.2, 182ter,c.1, 186bis, c.2, l.f., 2740, 2741, c.c., per aver la Corte d’appello ritenuto ammissibile la proposta concordataria, escludendo di destinare integralmente i flussi che ipotizzava di ricavare dalla continuità aziendale al soddisfacimento, in primis, dei creditori privilegiati erariali. Il ricorso principale è inammissibile.

Quanto al primo motivo, anzitutto va osservato che l’azione di regresso in questione riguarda crediti della società fallita nei confronti della controllata JDC, per pagamenti ai creditori di quest’ultima, come ampiamente motivato dalla Corte territoriale; invero, la critica non coglie neppur la ratio decidendi, poiché essa invoca la responsabilità solidale della conferente e della conferitaria, ex art. 2560 cc, verso i terzi creditori, mentre nella specie si discute del regresso della controllante nei confronti della controllata, nei rapporti interni, posto che la fallita, quale responsabile in solido, aveva pagato i debiti della JDC, adducendo ciò quale fatto costitutivo del diritto di regresso.

Ebbene, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la previsione della solidarietà dell’acquirente dell’azienda nella obbligazione relativa al pagamento dei debiti dell’azienda ceduta è posta a tutela dei creditori, e non dell’alienante, per cui essa non determina alcun trasferimento della posizione debitoria sostanziale, nel senso che il debitore effettivo rimane pur sempre colui cui è imputabile il fatto costitutivo del debito, e cioè il cedente, nei cui confronti può rivalersi in via di regresso l’acquirente che abbia pagato, quale coobbligato in solido, un debito pregresso dell’azienda, mentre lo stesso non può fare il cedente che abbia pagato il debito verso il coobbligato in solido.

Pertanto, in caso di fallimento della società cedente, il curatore non è legittimato a promuovere l’azione per la dichiarazione di solidarietà dell’acquirente dell’azienda ceduta dalla società poi fallita nella obbligazione relativa al pagamento dei debiti contratti dalla stessa anteriormente alla cessione, e ciò in quanto detta azione non sarebbe proposta nell’interesse della massa dei creditori, poiché il suo eventuale accoglimento non comporterebbe alcun vantaggio per il fallimento, che sarebbe comunque tenuto ad ammettere al passivo, e pagare nei limiti della massa attiva disponibile, da un lato i creditori dell’azienda, senza potersi rivalere nei confronti dell’acquirente della stessa, e, dall’altro, quest’ultimo, agente in via di regresso in relazione ai debiti dell’azienda stessa eventualmente soddisfatti in quanto acquirente coobbligato in solido (Cass., n. 23780/04; n. 20153/2011). Il secondo e terzo motivo, tra loro connessi, sono parimenti inammissibili. In tema di concordato preventivo, il giudice ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato, non restando questo escluso dall’attestazione del professionista, mentre rimane riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito del detto giudizio, che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano e i rischi inerenti. Il menzionato controllo di legittimità si realizza facendo applicazione di un unico e medesimo parametro nelle diverse fasi di ammissibilità, revoca ed omologazione in cui si articola la procedura di concordato preventivo, e si attua verificandosene l’effettiva realizzabilità della causa concreta: quest’ultima, peraltro, da intendersi come obiettivo specifico perseguito dal procedimento, non ha contenuto fisso e predeterminabile, essendo dipendente dal tipo di proposta formulata, pur se inserita nel generale quadro di riferimento finalizzato al superamento della situazione di crisi dell’imprenditore, da un lato, e all’assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori, da un altro.

Non rientra, inoltre, nell’ambito della verifica della fattibilità, riservata al giudice, il sindacato riguardante l’aspetto pratico-economico della proposta di concordato preventivo e la convenienza della stessa, neppure in ordine al profilo della misura minimale del soddisfacimento dei crediti rappresentati, in quanto si tratta di valutazioni che sono riservate ai creditori, e non è possibile individuare una percentuale fissa minima al di sotto della quale la proposta concordataria debba ritenersi inadatta a perseguire la causa concreta cui la procedura è volta consistente nel consentire il superamento della condizione di crisi dell’imprenditore e nel riconoscere agli aventi diritto la realizzazione del credito vantato in tempi ragionevolmente contenuti, sia pure per una minima consistenza (Cass., n. 3863/19).

Nel caso concreto, in entrambi i motivi la ricorrente si duole che la Corte d’appello abbia deciso oltre l’ambito della propria cognizione,

valutando la convenienza e, dunque, il merito della proposta concordataria, data la completezza e attendibilità della relazione integrativa della prima, in ordine alla quale il Tribunale aveva rilevato lacune ed imprecisioni chiedendo chiarimenti all’attestatore.

Invero, la Corte territoriale ha esercitato una verifica sulla fattibilità giuridica, ritenendo la proposta non conforme al modello legale considerando l’imprecisione, la lacunosità e, dunque, l’inattendibilità di entrambe le relazioni in questione, attraverso una dettagliata motivazione concernente i singoli punti contenuti nella stessa proposta. Con particolare riguardo al contenuto della relazione dell’attestatore in ordine a eventuali azioni di risarcimento dei danni nei confronti di amministratori, è stato affermato che il Tribunale ha il dovere di verificare la completezza e l’affidabilità della documentazione depositata a sostegno della domanda allo scopo di assicurare ai creditori la puntuale conoscenza della effettiva consistenza dell’attivo destinato al loro soddisfacimento e, quindi, di consentirgli di esprimere, in modo informato il proprio consenso sulla convenienza economica della proposta medesima (Cass., n.12549/14; n. 5107/15).

A tali principi si è attenuta la Corte d’appello, che ha infatti osservato che la relazione del professionista era manifestamente inadeguata rispetto alla verifica del requisito di cui all’art. 160, comma 2, l.f. poiché la stessa non conteneva un’analisi critica e motivata dei profili di responsabilità dell’organo gestorio, nonché delle ragioni della loro esclusione e della ragionevolezza di quanto affermato dalla società, avendo l’attestatore fatto affermazioni apodittiche.

Né induce a diverse conclusioni quanto stabilito nei “principi d’attestazione dei piani di risanamento”, circa la regola secondo cui l’attestatore non deve esprimere giudizi sull’esperibilità di eventuali azioni di responsabilità nei confronti degli organi d’amministrazione e di controllo della società, salvo che le stesse non siano esplicitamente previste o menzionate nel piano. Invero, la Corte territoriale ha ritenuto corretta la decisione del Tribunale in ordine all’incompletezza delle informazioni afferenti alla condotta dell’organo amministrativo e alla mancanza di un’analisi critica dei dati che avrebbero potuto fondare eventuali azioni giudiziarie nei loro confronti; tale vaglio resta circoscritto nel perimetro della valutazione sulla fattibilità economica spettante al giudice, senza esorbitare in un inammissibile sindacato di merito.

La motivazione della Corte è dunque strettamente inerente non già ad una valutazione di convenienza della proposta di concordato ma alla adeguatezza delle informazioni fornite dai creditori al fine di consentire loro di decidere con cognizione di causa quale posizione assumere nei confronti della proposta.

È dunque evidente che l’indicazione di dati incompleti o parziali, che potrebbero indurre a ritenere l’inesistenza di alternative o di migliori possibilità di realizzo, sono sostanzialmente contrari alla ratio legis e danno luogo, pertanto, ad una violazione dei presupposti giuridici della procedura sì che essa risulta quindi sindacabile dal giudice.

Infine,   il   ricorso   incidentale   deve   intendersi   assorbito dall’inammissibilità del ricorso principale.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale, e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio che liquida nella somma di euro 10.200,00 di cui 200,00 per oltre alla maggiorazione del 15% quale rimborso forfettario delle spese generali, iva ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater, del d.p.r. n.115/02, dà atto della sussistenza  dei  presupposti  per  il  versamento,  da  parte  della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.