Corte di Cassazione sentenza n. 3268 del 2 marzo 2012
PROCESSO TRIBUTARIO – ASSOLUZIONE PENALE DEL LEGALE RAPPRESENTANTE DI UNA SOCIETA’ – AUTONOMIA DELLA DECISIONE DEL GIUDICE TRIBUTARIO
massima
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Nell’ordinamento interno vige il principio dell’autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale e, pertanto, l’eventuale giudicato penale di assoluzione a favore del legale rappresentante di una società per insussistenza del reato di esposizione di elementi passivi fittizi mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti non è di per sé vincolante nel processo tributario. Inoltre, il giudice di merito può soltanto verificare la sussistenza o meno dei presupposti idonei a legittimare l’operato dell’Amministrazione finanziaria, senza potersi sostituire a essa e procedere alla rideterminazione del reddito imponibile con metodo diverso da quello operato dall’ufficio.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – MOTIVI DELLA DECISIONE
1. A.R. ricorre per cassazione nei confronti dell’Agenzia delle Entrate (che resiste con controricorso) e avverso la sentenza con la quale – in controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento per Irpef e Ilor relativo all’anno di imposta 1995 emesso sulla base di accertamento della G.d.F. che aveva ritenuto fittizio l’acquisto di olio per L. 152.550.000 presso la ditta S. – la C.T.R. Puglia confermava la sentenza di primo grado, con la quale si era ritenuto inesistente il rapporto economico con la ditta S. e rideterminato il reddito della ditta A. in L. 154.469.670. In particolare, ì giudici d’appello rilevavano che la G.d.F. aveva accertato la fittizietà di tutti i rapporti economici tenuti dalla ditta S. col contribuente avendo, attraverso una serie di controlli incrociati, accertato: che gli acquisti di olio da parte della ditta S. erano giustificati prevalentemente da autofatture a nome di produttori agricoli esenti dalla emissione di fatture; che molti agricoltori avevano disconosciuto resistenza di rapporti con tale ditta; che altre fatture risultavano emesse da produttori emigrati o deceduti; infine che la ditta S. era priva di qualsiasi organizzazione aziendale e di dipendenti.
2. Col primo motivo, deducendo violazione o falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., nonché art. 112 c.p.c., art. 113 c.p.c., comma 1, artt. 115 e 116 c.p.c., il ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello abbiano ritenuto che l’Ufficio accertatore avesse adempiuto all’onere probatorio su di lui gravante facendo ricorso a presunzioni semplici benché il fatto noto sul quale dovrebbe essere fondata la presunzione di utilizzazione di fatture inesistenti risulti soltanto supposto in un verbale della G.d.F. e nonostante tale fatto sia stato ritenuto inesistente da un giudice penale, avendo il GIP di Palmi dichiarato non luogo a procedere nei confronti, tra gli altri, di A.R. e S.A.
Il ricorrente si duole altresì del fatto che i giudici d’appello non abbiano esaminato tutte le eccezioni e contestazioni del contribuente e si siano avvalsi di presunzioni semplici prive dei requisiti della gravità, della precisione e della concordanza omettendo l’esame di precise prove documentali idonee a confutare il fondamento di quelle presunzioni. Le censure esposte sono in parte infondate e in parte inammissibili. Occorre innanzitutto evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, in relazione all’accertamento delle imposte sui redditi, qualora sia contestata la deducibilità dei costi documentati da fatture relative ad operazioni asseritamene inesistenti, l’onere di fornire la prova che l’operazione rappresentata dalla fattura non è stata mai posta in essere incombe ali1 Amministrazione finanziaria la quale adduca la falsità del documento (e quindi l’esistenza di un maggior imponibile), e può essere adempiuto, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, non ostandovi il divieto della doppia presunzione, il quale attiene esclusivamente alla correlazione tra una presunzione semplice con altra presunzione semplice, e non può quindi ritenersi violato nel caso in cui da un fatto noto si risalga ad un fatto ignorato, che a sua volta costituisce la base di una presunzione legale (v. Cass. n. 1023 del 2008 e 10157 del 2010).
Occorre inoltre precisare che nel nostro ordinamento, fondato sul principio del libero convincimento del giudice, non esiste una gerarchia di efficacia delle prove, per cui i risultati di talune di esse debbano necessariamente prevalere nei confronti di altri dati probatori, essendo rimessa la valutazione delle prove al prudente apprezzamento del giudice, con la conseguenza che il convincimento del giudice sulla verità di un fatto può basarsi anche su una presunzione, eventualmente in contrasto con altre prove acquisite, se da lui ritenuta di tale precisione e gravità da rendere inattendibili gli altri elementi di giudizio ad esso contrari, alla sola condizione che fornisca del convincimento così attinto una giustificazione adeguata e logicamente non contraddittoria (v. tra le altre Cass. n. 9245 del 2007).
Giova peraltro sottolineare che l’omessa (o asseritamente non adeguata) valutazione di eventuali prove documentali fornite dalle parti è configurabile non come vizio di violazione di legge bensì come vizio di motivazione.
Quanto alla specifica denuncia di omessa valutazione della sentenza del GIP del Tribunale di Palmi, è innanzitutto da evidenziare che essa difetta di autosufficienza, essendo stato riportato solo il dispositivo e non l’intero contenuto di tale provvedimento (in particolare non le imputazioni relative a ciascuno degli imputati).
E’ peraltro appena il caso di precisare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, stante l’evidenziata autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale (perché nel primo, per un verso, vigono limitazioni della prova – come il divieto di quella testimoniale D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 7 – e, per altro verso, possono valere anche presunzioni inidonee a fondare una pronuncia penale di condanna), anche l’eventuale giudicato penale di assoluzione del legale rappresentante della società contribuente per insussistenza del reato di esposizione di elementi passivi fittizi mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, non sarebbe di per sé vincolante nel processo tributario (v. tra le altre Cass. n. 19786 del 2011).
Col secondo motivo, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello abbiano immotivatamente affermato che era stata accertato dalla G.d.F. l’inesistenza di rapporti economici tra il contribuente e la ditta S. senza considerare che l’accertamento a carico del contribuente prescindeva da una reale verifica presso la relativa ditta, essendo stata effettuata verifica solo presso la ditta S. e che in tale sede i verbalizzanti, considerato che la maggior parte dei controlli effettuati aveva confermato l’inesistenza dei rapporti economici, avevano ritenuto di non eseguire i rimanenti controlli, circostanza peraltro emergente dalla stessa sentenza impugnata, nella quale si legge che “molti agricoltori” (non tutti) avevano disconosciuto l’esistenza di rapporti con la ditta S. Secondo la ricorrente pertanto i giudici d’appello non potevano ignorare che la ditta S. non era una mera “cartiera” in quanto, se pure era risultato che aveva fatturato operazioni inesistenti, aveva effettuato anche effettivi acquisti, dovendo pertanto ritenersi che quella parte pur minima di olio effettivamente acquistato dalla S. fosse stato venduto alla A., che aveva prodotto le fatture con le relative bolle di accompagnamento e addirittura la fattura del trasportatore.
La censura è inammissibile.
Richiamato quanto esposto in tema di presunzioni nell’ambito dell’esame del primo motivo, occorre aggiungere che la giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice di merito circa la ricorrenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, sempre che la relativa motivazione risulti adeguata e logica.
Tanto premesso, va evidenziato che nella specie i giudici d’appello hanno motivatamente ritenuto che gli avvisi opposti furono emessi sulla base di una serie di elementi presuntivi aventi le caratteristiche della gravità, precisione e concordanza e tale motivazione risulta adeguata, dovendo ritenersi che ben possa, unitamente ad altri indizi (quali ad esempio la mancanza di organizzazione aziendale e di dipendenti), logicamente valutarsi ai fini della prova presuntiva l’accertata inesistenza (non di tutti ma) della grande maggioranza degli acquisti di olio operati dalla ditta S.
E’ inoltre da sottolineare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, non è ammissibile che. con la deduzione del vizio di motivazione, si faccia valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, si prospetti una diversa lettura ovvero un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e degli apprezzamenti del fatto, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e che, diversamente opinando, il motivo del ricorso per cassazione si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice di merito (v. tra le altre Cass. n. 12446 del 2006).
E’ poi appena il caso di precisare che nel motivo in esame viene contestato il valore indiziario di elementi acquisiti in giudizio senza neppure considerare che essi, quand’anche in ipotesi singolarmente sforniti di valenza indiziaria, potrebbero averla acquisita nell’ambito di una valutazione complessiva comportante il vicendevole completamento di ciascun indizio.
Col terzo motivo, deducendo violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., il ricorrente sostiene che i giudici d’appello hanno omesso di considerare quanto dedotto nell’atto d’appello circa l’errore in cui sarebbero incorsi i giudici di primo grado nel ritenere che le fatture fittizie erano state utilizzate dall’acquirente per conseguire contributi comunitari.
Laddove quest’ultimo non aveva mai chiesto e ricevuto contributi comunitari.
La censura è inammissibile.
Occorre premettere che sussiste omessa pronuncia su di un motivo di impugnazione quando rispetto a tale motivo sia configurabile un obbligo di pronuncia da parte del giudice, ossia quando effettivamente vi sia un motivo di impugnazione sostenuto da adeguato interesse alla relativa pronuncia.
Nella specie la censura non è auto sufficiente perché non riporta interamente il testo della sentenza di primo grado e dell’atto d’appello e perciò non consente a questo giudice di avere piena contezza della esistenza di siffatto dovere di pronuncia, tuttavia è da evidenziare che, alla stregua di quanto emergente dallo stesso ricorso (che, ripetesi, non risulta adeguatamente auto sufficiente circa il contenuto della sentenza di primo grado e dell’atto d’appello), il motivo di impugnazione de quo non concerneva la ratio decidendi del provvedimento impugnato, bensì un argomento esposto ad abundantiam.
E’ peraltro da rilevare che, da quanto affermato nello stesso ricorso, risulta che con l’appello sia stata rimessa in discussione tutta la problematica relativa alla inesistenza delle operazioni commerciali de quibus. ed essendo l’appello un mezzo di impugnazione devolutivo, la sentenza di secondo grado (nella cui motivazione non è riportato il convincimento che le fatture fittizie fossero state utilizzate dall’acquirente per conseguire contributi comunitari) sostituisce sul punto completamente quella di primo grado. Col quarto motivo, deducendo violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, i ricorrente sostiene che i giudici della C.T.R. avrebbero omesso di statuire in ordine a quanto dedotto nell’atto d’appello circa l’errore in cui sarebbero incorsi i giudici di primo grado procedendo ad una rideterminazione del reddito del contribuente col metodo induttivo, giungendo in tal modo addirittura a determinare tale reddito in misura superiore a quella accertata dall’Ufficio con metodo analitico. In ogni caso i suddetti giudici avrebbero errato nel confermare la sentenza di primo grado anche nella parte in cui i primi giudici avevano rideterminato il reddito con metodo induttivo laddove l’accertamento svolto dall’Ufficio era stato effettuato col metodo analitico.
La censura è fondata.
I giudici della C.T.R. hanno confermato la sentenza della C.T.P. benché dalla stessa sentenza d’appello impugnata in questa sede risulti che effettivamente i giudici di primo grado hanno proceduto ad una rideterminazione del reddito calcolando, “in assenza di altri elementi probanti”, il 3% sui ricavi dichiarati e risulta altresì che tale rideterminazione fu censurata dall’appellante.
Tanto premesso, è sufficiente evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità (alla quale il collegio intende dare continuità in assenza di valide ragioni per discostarsene), la commissione tributaria adita per l’annullamento dell’avviso di rettifica del reddito di impresa, individuato dall’Amministrazione finanziaria con metodo analitico, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, non può procedere alla determinazione induttiva dell’utile di gestione, atteso che il giudice, investito del sindacato sulla legittimità di un accertamento tributario, può soltanto verificare la sussistenza o meno dei presupposti idonei a legittimare il potere dell’Ufficio in concreto esercitato, senza potersi ad esso sostituire nell’esercizio di un potere diverso, spettante all’amministrazione attiva, del quale vengano (come nella specie) in ipotesi riconosciute sussistenti le condizioni (v. Cass. n. 10812 del 2010).
3. Alla luce di quanto sopra esposto, i primi tre motivi di ricorso devono essere rigettati e il quarto accolto. La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessario procedere ad ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito con il rigetto del ricorso introduttivo e la conferma dell’avviso opposto. Atteso lo sviluppo della vicenda processuale e Tesilo della lite, si dispone la compensazione delle spese dell’intero processo.
P.Q.M.
Accoglie i quarto motivo di ricorso, rigettati gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito conferma l’avviso opposto. Compensa tra le parti le spese dell’intero processo.
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