Corte di Cassazione sentenza n. 4648 del 25 febbraio 2013
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – CONTRATTO DI LAVORO A TERMINE – RECESSO DEL DATORE DI LAVORO PRIMA DELLA SCADENZA – LEGITTIMITÀ – CONDIZIONI – INGIUSTIFICATO RECESSO “ANTE TEMPUS” DEL DATORE DI LAVORO – RISARCIMENTO DEL DANNO DOVUTO AL LAVORATORE – DETERMINAZIONE – CRITERI
massima
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Il datore di lavoro può recedere dal contratto di lavoro a termine, prima della scadenza, in due ipotesi: per giusta causa o per impossibilità sopravvenuta. Al di fuori di queste ipotesi, il licenziamento è qualificabile come inadempimento contrattuale per mancato rispetto del termine pattuito. In caso di non giustificato recesso “ante tempus” del datore di lavoro da rapporto di lavoro a tempo determinato, il risarcimento del danno dovuto al lavoratore va commisurato all’entità dei compensi retributivi che lo stesso avrebbe maturato dalla data del recesso fino alla prevista scadenza del contratto, stante l’inapplicabilità delle disposizioni concernenti il recesso dal rapporto di lavoro a tempo determinato.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza 27/4-17/12/2009 la Corte di appello di Roma, in parziale accoglimento dell’appello interposto dall’A.P.A.T. (A.) dichiarava ingiustificato il licenziamento di M.F., condannava l’A. al risarcimento del danno in favore dell’appellato, liquidato in euro 42.587,69 oltre interessi, rigettava le altre domande del M.F.. Riteneva la Corte territoriale che l’intervenuto annullamento da parte del Consiglio di Stato della sentenza del TAR Lazio che si era pronunciato, su ricorso di un gruppo di ricercatori dell’A.N.P.A. – AN. – (poi A.), sulla delibera di nomina dirigenziale del M.F., annullandola, aveva tolto ogni giustificazione al recesso anticipato del datore di lavoro dall’incarico dirigenziale. Aveva ritenuto spettante al M.F. solo il risarcimento pari alle mensilità perdute fino alla data di cessazione dell’incarico (6/10/2002), non anche l’indennità supplementare (pari a 22 mensilità) e quella di mancato preavviso, trattandosi, nella specie, di incarico a tempo determinato.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre M.F. affidandosi a sette motivi.
Resiste con controricorso l’A. e formula, altresì, ricorso incidentale.
Il M.F. ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ. ed all’esito della discussione orale ha presentato alla Corte osservazioni scritte sulle conclusioni del pubblico ministero ai sensi dell’art. 379, ult. comma, cod. proc. civ..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.1 ricorsi hinc et inde proposti avverso la stessa sentenza sono stati riuniti ex art. 335 cod. proc. civ..
2. Con il primo il ricorrente principale denuncia: “Ingiustizia della sentenza per contraddittoria ed insufficiente motivazione in violazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. – erronea presupposizione di fatto e diritto – malgoverno del C.C.N.L. – art. 84 ter e 84 bis del contratto ENEA – violazione art. 19, 21 e segg. d.lgs. n. 29/93”.
3. Con il secondo motivo il ricorrente principale denuncia: “Violazione e falsa applicazione – sotto diverso profilo – degli artt. 84 ter e 84 bis C.C.N.L. ENEA – violazione art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., violazione art. 1362 cod. civ.”.
4. Con il terzo motivo il ricorrente principale denuncia: “Mancata delibazione su un punto essenziale della controversia ed in particolare sulla eccezione di inammissibilità ed improcedibilità dell’appello – violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato – violazione art. 434 e 414 cod. proc. civ.”.
5. Con il quarto motivo il ricorrente principale denuncia: “Violazione del C.C.N.L. con riferimento al mancato riconoscimento della indennità supplementare prevista per il licenziamento ingiustificato dei dirigenti – violazione art. 2119 cod. civ.”.
6. Con il quinto motivo il ricorrente principale denuncia: “Violazione dell’art. 1223 cod. civ. e violazione dell’onere del risarcimento del danno per il recesso ante tempus del datore di lavoro”.
7. Con sesto motivo il ricorrente principale denuncia: “Violazione dell’art. 2120 cod. civ. con riferimento al trattamento di fine rapporto ed indennità per ferie non godute – erronea ed insussistente motivazione su un punto specifico della controversia – violazione art. 18 C.C.N.L. ENEA”.
8. Con settimo motivo il ricorrente principale denuncia: “Violazione del principio di ragionevolezza, nonché del giusto procedimento ex art. 97 Cost. – ingiustizia della sentenza per violazione – sotto altro profilo – del C.C.N.L.; violazione del principio tempus regit actum”.
9. Con il primo motivo del ricorso incidentale l’A. denuncia: “Insufficiente ed illogica motivazione su punti controversi e decisivi della controversia con riferimento all’art 360, n. 5, cod. proc. civ.”.
10. Con il secondo motivo del ricorso incidentale l’A. denuncia: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 2119 cod. civ. con riferimento all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.”.
11. Va preliminarmente esaminata la questione, sollevata dall’A., della inammissibilità del ricorso principale in quanto proposto nei confronti di un soggetto non più esistente ai sensi di quanto disposto dall’art. 28 d.l. n. 25 giugno 2008 n. 112 convertito, con modificazioni, nella, legge 6 agosto 2008 n. 133.
Va, al riguardo, innanzitutto precisato che, stante la mancata previsione nella citata legge n. 133/2008 di una fase destinata alla definizione dei rapporti facenti capo allo stesso A., si configura, nell’ipotesi di controversie pendenti, un caso di successione universale nel processo ex art. 110 cod. proc. civ..
È pur vero che quando un evento di tal genere si verifica nel corso del giudizio di primo ovvero di secondo grado, ancorché in quel giudizio non sia stata dichiarata in udienza (o notificata) l’estinzione del soggetto rappresentato, il difensore di quest’ultimo non è legittimato a compiere attività processuali, successivamente alla pronuncia della sentenza, avvalendosi del mandato conferito dal soggetto soppresso. Non è, infatti, invocabile il principio di ultrattività del mandato che attribuendo al procuratore la possibilità di continuare a rappresentare in giudizio la parte che tale mandato gli abbia conferito e derogando in via eccezionale al contrapposto principio secondo il quale la morte del mandante estingue il mandato (in base alla normativa sulla rappresentanza e sul mandato di cui all’art. 1722 n. 4 ce.) va contenuto nei limiti della fase del processo in cui si è verificato l’evento non dichiarato né notificato (cfr. ex aliis Cass. 19 marzo 2009 n. 6701; id. 5 marzo 2009 n. 5387; si veda anche Cass. S.U. 10 maggio 2006 n. 10706 nonché Cass. 9 agosto 2010 n. 18485).
Tuttavia, nella fattispecie in esame, la questione non può essere posta nei medesimi termini in quanto sia l’A. che l’ISPRA sono comunque difesi ex lege dall’Avvocatura dello Stato, sicché tecnicamente non si può nemmeno parlare di mandato o di procura (l’Avvocatura dello Stato ripete il proprio ius postulandi dalla legge e non da una volontà negoziale).
Né possono considerarsi nulli la notifica del ricorso per cassazione presso il difensore dell’ente cessato (A.) e il ricorso medesimo – che indica il soggetto cessato – sia perché non vi è alcuna incertezza assoluta sul destinatario del ricorso per cassazione sia perché, come detto, si è verificata una successione a titolo universale fra i due enti ed i rapporti giuridici dell’A. sono passati ope legis all’ISPRA, di guisa che gli atti destinati all’A. devono considerarsi a tutti gli effetti come destinati all’ISPRA, al pari di quanto accade nell’ambito delle fusioni societarie.
Poiché, dunque, con la legge 6 agosto 2008 n. 133, di conversione, con modificazioni, del d.l. 25 giugno 2008 n. 112, i tre enti controllati dal Ministero dell’Ambiente (A., INFS e ICRAM) sono stati accorpati nel nuovo ente denominato ISPRA, si è verificata una vicenda del tutto analoga a quella della fusione e, quindi, una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo (sebbene resa in materia di società, si richiama, per evidente analogia di situazione, Cass. S.U. 17 settembre 2010, n. 19698 secondo cui “In tema di fusione, l’art. 2504 bis cod. civ. introdotto dalla riforma del diritto societario (d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) ha natura innovativa e non interpretativa e, pertanto, il principio, da esso desumibile, per cui la fusione tra società si risolve in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo, non vale per le fusioni (per unione od incorporazione) anteriori all’entrata in vigore della nuova disciplina (1 gennaio 2004), le quali tuttavia pur dando luogo ad un fenomeno successorio, si diversificano dalla successione mortis causa perché la modificazione dell’organizzazione societaria dipende esclusivamente dalla volontà delle società partecipanti, con la conseguenza che quella che viene meno non è pregiudicata dalla continuazione di un processo del quale era perfettamente a conoscenza, così come nessun pregiudizio subisce la incorporante (o risultante dalla fusione), che può intervenire nel processo ed impugnare la decisione sfavorevole. Ad esse, di conseguenza non si applica la disciplina dell’interruzione di cui agli artt. 299 e seguenti del codice di procedura civile”).
In conseguenza, non è ravvisabile alcuna nullità od inammissibilità del ricorso.
12. Tanto precisato, il ricorso principale è, nel merito, infondato.
13. Non si riscontrano nella sentenza impugnata i vizi di cui al primo, secondo e quarto motivo di ricorso risultando l’iter logico seguito dalla Corte territoriale, contrariamente a quanto lamentato dal ricorrente, ragionevole e coerente.
Correttamente, poi, la Corte territoriale ha ritenuto che il recesso dal contratto di lavoro a tempo determinato sia consentito ante tempus solo in presenza di una giusta causa, ai sensi dell’art. 2119 cod. civ. e del pari correttamente quantificato il risarcimento del danno in ragione della natura dell’incarico a tempo determinato.
Si ricorda, infatti, che il datore di lavoro può recedere dal contratto di lavoro a termine, prima della scadenza, in due ipotesi: per giusta causa o per impossibilità sopravvenuta. Al di fuori di queste ipotesi il licenziamento è qualificabile come inadempimento contrattuale per mancato rispetto del termine pattuito. In caso di non giustificato recesso ante tempus del datore di lavoro da rapporto di lavoro a tempo determinato, il risarcimento del danno dovuto al lavoratore va commisurato all’entità dei compensi retributivi che lo stesso avrebbe maturato dalla data del recesso fino alla prevista scadenza del contratto, state l’inapplicabilità delle disposizioni concernenti il recesso dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato (l. 604/1966, art. 18 l. 300/1970) – cfr. in tal senso Cass. 8 giugno 1995, n. 6439; id. 3 febbraio 1996 n 924; 28 dicembre 1999 n. 14637; 26 marzo 2002 n. 4345; 1 luglio 2004 n. 12092).
Emerge, poi, chiaramente dal decisum della Corte capitolina il presupposto fondante il riconoscimento dell’indennizzo nella (minor) misura di euro 42.587,69.
La Corte, infatti, ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto che l’art. 84 ter del C.C.N.L. ENEA, dall’inequivoco carattere letterale e testuale, si riferisse solo all’incarico a tempo indeterminato e pur tuttavia ha utilizzato tale disposizione pattizia quale parametro indicativo per pervenire, anche in una fattispecie diversa rispetto a quella prevista dalle parti sociali, ad una congrua liquidazione del danno commisurandolo al residuo periodo di rapporto ritenuto illegittimamente risolto.
Egualmente la Corte ha spiegato le ragioni per le quali anche l’indennità di mancato preavviso di cui all’art. 84 bis del C.C.N.L. ENEA si riferisse solo agli incarichi a tempo indeterminato risultando incompatibile il preavviso (quale meccanismo funzionale a far conoscere in anticipo la cessazione del rapporto) con un rapporto a tempo determinato.
Ciò ha fatto principalmente privilegiando una interpretazione della norma contrattuale compatibile con la disciplina legislativa.
Ed invero tale opzione interpretativa risulta conforme all’orientamento di questa Corte formatosi in materia di applicabilità ai rapporti di lavoro a termine della disciplina di cui all’art. 2118 cod. civ.. Si ricorda, al riguardo, che è stato affermato che in caso di dimissioni intervenute nel corso di un rapporto a termine sorrette da giusta causa (id est in caso di licenziamento ingiustificato) non è dovuta alcuna indennità sostitutiva del preavviso essendo questa legislativamente prevista solo per il rapporto a tempo indeterminato (cfr. Cass. 8 maggio 2007, n. 10430). Si veda anche, sulla inapplicabilità dell’art. 2118 cod. civ. al recesso dal contratto di formazione e lavoro – costituente una species del genus contratto di lavoro a tempo determinato – Cass. 23 dicembre 1992, n. 13597 -.
Del resto, il ricorrente ha richiamato le regole poste dagli artt. 1362 e 1363 cod. civ. solo per prospettare una diversa (e più favorevole) interpretazione rispetto a quella adottata dal giudicante, il che non è ammissibile (cfr. anche Cass. 25 febbraio 2004, n. 3772). Come è noto, infatti, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (si veda, tra le altre, Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178).
Non è, dunque, idonea ad integrare una violazione delle regole di interpretazione del contratto una critica del risultato raggiunto dallo stesso giudice mediante la contrapposizione di una diversa interpretazione: (Cass. 22 novembre 2010, n. 23635; id. 31 maggio 2010, n. 13242; 1 luglio 2004, n. 12104; 20 agosto 1997, n. 7738; 30 gennaio 1995, n. 1092; 23 gennaio 1990, n. 381), essendo necessaria la specifica dimostrazione del modo in cui il ragionamento seguito dal giudice di merito abbia deviato dalle regole nei detti articoli stabilite (così Cass. 4 giugno 2007, n. 12946 e n. 12936).
Orbene, nella fattispecie in esame non si ravvisa nel ragionamento della Corte capitolina né violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale (art. 1362 cod. civ. e segg.) né un vizio di motivazione (art. 360 cod. proc. civ., n. 5) dovendosi anche rilevare che la Corte di merito ha tratto argomenti a sostegno dell’opzione interpretativa privilegiata anche la nota AN. del 15/3/1999, diffusamente richiamata dal ricorrente a sostegno della propria lettura del citato art. 84 ter del C.C.N.L., evidenziando che in base a tale nota, era da escludersi ogni automatismo atteso che il richiamo alle previsioni di tale contratto collettivo era temperato dalla clausola “in quanto applicabili alla particolare natura dell’incarico a tempo determinato”. Né a diversa conclusione può giungersi invocando l’art. 19 del C.C.N.L. che pure prevede che al personale assunto a tempo determinato si applichi il trattamento economico e normativo previsto per il personale assunto a tempo indeterminato pur sempre “compatibilmente con la durata del contratto a termine”.
14. Il terzo motivo del ricorso principale è inammissibile.
Il ricorrente ha omesso di riportare nel loro impianto specifico i motivi di appello formulati dalla controparte affetti – a suo avviso – da genericità comportante “l’assoluta inammissibilità ed improcedibilità dell’appello, per carenza assoluta di petitum e causa petendf1.
Tale omissione integra violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il quale è frutto di elaborazione della giurisprudenza di questa Corte avvenuta in relazione a vizi di omesso esame/omessa motivazione relativi a prove testimoniali o documentali, violazione di canoni interpretativi di norme collettive, il cui contenuto non sia stato riportato dal ricorrente, il rispetto del canone di autosufficienza risulta fondato sull’esigenza, particolare del giudizio di legittimità, di consentire al giudice dello stesso di valutare la decisività della prova, testimoniale o documentale, di cui si lamenti l’omesso esame da parte del giudice di merito, la sussistenza della violazione del canone ermeneutico, di carenze dell’elaborato peritale su cui si fondi la decisione del giudice di merito, e, più in generale di un errar in procedendo, senza che egli debba procedere ad un esame dei fascicoli di ufficio o di parte ove tali atti siano contenuti (cfr. ex multis Cass. 23 gennaio 2004 n. 1170; id. 3 aprile 2003 n. 5148; 23 settembre 2002 n. 13833). Siffatta esigenza di astensione del giudice di legittimità dalla ricerca del testo completo degli atti processuali attinenti al vizio denunciato, non è giustificata da finalità sanzionatone nei confronti della parte che costringa il giudice a tale ulteriore attività d’esame degli atti processuali, oltre quella devolutagli dalla legge; ma risulta, piuttosto, ispirata al principio secondo cui la responsabilità della redazione dell’atto introduttivo del giudizio fa carico esclusivamente al ricorrente ed il difetto di ottemperanza alla stessa non deve essere supplito dal giudice per evitare il rischio di un soggettivismo interpretativo da parte dello stesso nell’individuazione di quali atti o parti di essi siano rilevanti in relazione alla formulazione della censura. Deve, pertanto, ribadirsi che la regola predetta vale, evidentemente, anche per i motivi di appello in relazione ai quali si denuncino errori da parte dei giudici di merito. Va, di conseguenza riaffermato che il canone di autosufficienza del ricorso per cassazione, fondato sul principio della responsabilità della redazione dell’atto, vale anche per i motivi di appello in relazione ai quali si denuncino errori da parte dei giudici di merito (cfr. Cass. 21 maggio 2004, n. 9734; id. 10 gennaio 2012, n. 86).
15. Il quinto motivo di ricorso principale non appare conferente rispetto al decisum considerato che la Corte territoriale ha ritenuto che, nella specie, l’incarico in questione avesse avuto una durata non rapportata a quella convenzionalmente stabilita ma fissata ope legis alla data del 6/10/2002 e rispetto a tale data finale ha commisurato le retribuzioni perdute.
16. Il sesto motivo di ricorso principale è inammissibile afferendo ad una questione (domanda relativa al trattamento di fine servizio) non esaminata; nel merito, dalla Corte territoriale per ritenuta mancanza di appello incidentale da parte del M.F. e conseguente passaggio in giudicato della decisione di primo grado di rigetto e non essendo censurato tale passaggio motivazionale.
17. Il settimo motivo di ricorso principale è infondato.
Se pure è vero che la norma di cui all’art. 19, comma 2, del d.P.R. n. 207/2002 (prevedente la cessazione di efficacia, alla data di entrata in vigore dello statuto della Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i Servizi tecnici, dei contratti stipulati per il conferimento o lo svolgimento di funzioni dirigenziali presso le strutture, ove non già pervenuti alla loro naturale scadenza) era entrata in vigore dopo la anticipata cessazione del rapporto, il risarcimento del danno non poteva che essere commisurato con riferimento alla cessazione effettiva, come legislativamente determinata (il medesimo rapporto, laddove pure non anticipatamente interrotto, non sarebbe potuto proseguire oltre il 6/10/2002, integrando la previsione di legge un factum principis idoneo ad escludere ogni imputabilità dell’inadempimento successivo a tale data). Si richiama, sul punto, quanto affermato da questa Corte nella recentissima decisione del 9 gennaio 2013 n. 355 con la quale, con riferimento ad altra ipotesi di cessazione ex lege di incarico dirigenziale alla norma e cioè a quella di cui all’art. 2, comma 161, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 che prevedeva che gli incarichi conferiti al personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 conferiti prima del 17 maggio 2006, dovessero cessare ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto stesso, norma dichiarata incostituzionale con sentenza n. 161 del 20/4/2008 della Corte Costituzionale, ha ritenuto che, anche in presenza di una pronuncia del giudice delle leggi, non è possibile ritenere illecito il comportamento posto in essere conformemente ad una norma, ancorché successivamente dichiarata illegittima, non potendo detto comportamento ritenersi caratterizzato da dolo o colpa.
18. Del pari infondato è il ricorso incidentale, sotto entrambi i profili in cui è articolato, proposto dall’A..
Se è vero che la legittimità di un atto di recesso va valutata con riferimento alla situazione concretamente esistente al momento del recesso, laddove a base di tale ultimo atto sia stata posta, come nella fattispecie in esame, la decisione di annullamento dell’atto di assunzione da parte del Giudice amministrativo (e ciò prima ancora che questa divenisse definitiva), era inevitabile che le successive vicende giudiziarie e, dunque, il travolgimento della pronuncia di annullamento ad opera del Consiglio di Stato, sia pure per ragioni afferenti alla giurisdizione, non potessero che comportare un venir meno della causa giustificatrice senza che la sopravvenuta privatizzazione dei rapporti consentisse di invocare il potere di autotutela della pubblica amministrazione, come insopprimibile prerogativa dell’organo che aveva emanato l’atto poi annullato.
Sul punto, del resto, la Corte territoriale ha correttamente considerato che, venuta meno la sentenza del TAR, sarebbe stato obbligo dell’ente ripristinare l’incarico dirigenziale oppure addurre ulteriori motivi a giustificazione del recesso e che, come evidenziato dal Tribunale, nessuna delle due evenienze era avvenuta essendo rimasto il recesso intimato con la giustificazione legata unicamente alla pronuncia del Tribunale amministrativo.
19. Da tanto consegue che entrambi i ricorsi devono essere rigettati.
20. L’esito del ricorso principale e di quello incidentale costituiscono giusto motivo per compensare tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa tra le parti le spese processuali del presente giudizio di legittimità.
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