Corte di Cassazione sentenza n. 47049 del 5 dicembre 2012
SICUREZZA SUL LAVORO – INFORTUNIO MORTALE – INCARICO DEI LAVORI DI RIPARAZIONE DEL TETTO – AUTONOMA INIZIATIVA DEL LAVORATORE – RESPONSABILITA’ DATORE DI LAVORO
massima
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Vi è la responsabilità del presidente del consiglio d’amministrazione e dell’amministratore di fatto dell’azienda, in quanto dichiarati colpevoli dei reati di lesioni colpose e omicidio colposo, per la violazione di norme volte a prevenire infortuni sul lavoro.
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FATTO
1. Il Tribunale di Lucca, Sezione Distaccata di Viareggio, con sentenza del 29/6/2009, riuniti due procedimenti, dichiarati colpevoli dei reati di lesioni colpose e omicidio colposo, aggravati dalla violazione di norme volte a prevenire infortuni sul lavoro, entrambi conseguiti a caduta dal tetto di un capannone, (Omissis), presidente del consiglio d’amministrazione della (Omissis) s.r.l., (Omissis), responsabile del servizio di prevenzione della detta società, e (Omissis), amministratore di fatto della (Omissis), valutate equivalenti le concesse attenuanti generiche, condannò i predetti alle pene reputate di giustizia, nonchè al risarcimento del danno in favore delle parti civili, con assegnazione di provvisionali nelle varie misure indicate in dispositivo.
1.1. La Corte d’appello di Firenze, con sentenza del 21/2/2011, giudicando sulla impugnazione proposta dai detti imputati, confermava la statuizione di primo grado, dichiarando interamente condonate per indulto le pene inflitte.
2. Per un’adeguata intelligenza delle questioni poste al vaglio di questa Corte appare necessario riprendere, in sintesi, la vicenda.
Essendosi impigliato, come con una certa frequenza soleva accadere, sul colmo del capannone dell’azienda di marmi (Omissis) s.r.l., il cavo elettrico che alimentava il ponte-gru ivi esistente, il (Omissis) l’operaio (Omissis), salito sul tetto al fine di liberare il cavo, perduto l’equilibrio, appoggiava un piede al di fuori delle tavole di fortuna che lo sorreggevano, così provocando il cedimento del materiale plastico di copertura e la sua caduta al suolo da un’altezza di circa 8 m., riportando lesioni per guarire dai quali era stata diagnosticata malattia superiore ai 40 gg.
Il (Omissis), l’operaio (Omissis), formalmente dipendente della s.r.l. (Omissis), ma deputato a servizio promiscuo della (Omissis), che, secondo la ricostruzione operata dai giudici di merito, era stato incaricato da (Omissis) di riparare e fortificare la copertura ceduta, montato, anch’egli senza l’uso di mezzi di contenzione personale, precipitava, a sua volta, al suolo, decedendo sul colpo.
3. Tutti gli imputati proponevano ricorso per cassazione.
4. (Omissis) e (Omissis) con la prima censura denunziano manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza della Corte territoriale.
Al contrario di quel che avevano assunto i detti giudici, il (Omissis) aveva preso l’autonoma iniziativa di salire sul tetto del capannone, senza aver ricevuto incarico di sorta.
La tesi avversata si sorreggeva su una vera e propria deformazione e selezione capziosa delle risultanze testimoniali.
(Omissis), sentito in qualità di teste, non aveva affatto dichiarato che la vittima gli aveva detto che era stata incaricata di mettere a posto il tetto. Peraltro, esaminando l’intero contenuto (riportato per stralci) della deposizione si traeva l’univoco convincimento che il (Omissis) aveva deciso sua sponte l’intervento, presupponendo che un tale incarico, prima o poi, gli sarebbe stato conferito. Inaccurata e di fantasia, inoltre, era da ritenere la ricostruzione della deposizione resa da (Omissis). Pur vero che costei riferì che il (Omissis) era stato convocato in azienda per affidargli “un lavoretto”, tuttavia, che con il detto termine avesse inteso riferirsi alla riparazione del tetto costituiva un ingiustificato azzardo logico. Nè la presenza delle lamiere accatastate nel cortile e la circostanza che era di sabato (giorno in cui il (Omissis) era libero da impegni derivanti dalla sua specifica attività di addetto alla manutenzione dei telai) appaiono al ricorrente in grado di sanare il vizio argomentativo. La vittima soleva frequentemente recarsi presso la (Omissis) al fine di manutenere i telai sui quali venivano poste le lastre di marmo, che avrebbero potuto guastarsi anche di sabato. L’acquisto delle lamiere destinate alla riparazione prescindeva dall’individuazione dei soggetti da incaricare per il lavoro.
(Omissis), moglie del (Omissis), aveva dichiarato che il marito le aveva detto che doveva andare alla (Omissis) per sistemare un telaio, altrimenti il successivo lunedì si sarebbe interrotta la lavorazione.
Di conseguenza, la condotta della vittima non poteva che considerarsi del tutto eccezionale, improvvisa ed imprevedibile e tale da interrompere il nesso di causalità.
Proprio in ragione di quel che era accaduto una settimana prima doveva reputarsi irragionevole un incarico al (Omissis), al contrario di quel che aveva ritenuto la Corte d’Appello; senza contare che l’impresa, in precedenza, aveva affittato un cestello mobile proprio al fine di procedere alla riparazione in sicurezza del tetto.
4.1. Con il successivo motivo i ricorrenti denunziano erronea e falsa applicazione dell’art. 589 c.p..
Proprio in ragione di quanto già svolto, secondo i ricorrenti “l’iniziativa del (Omissis) non può che qualificarsi come imprevedibile ed abnorme, oltre che pericolosissima al limite dell’autolesionismo” e, di conseguenza, “nessuna misura di impedimento o alcun parapetto appariva necessaria, posto che normalmente non era accessibile quel posto, così come appare inaccessibile il tetto di un edificio”.
5. (Omissis) con l’unitaria, articolata censura si duole assumendo contraddittorietà ed illogicità della motivazione, nonchè travisamento dei fatti e delle risultanze processuali, in ordine al preteso incarico dato alla vittima.
Le dichiarazioni del teste (Omissis) erano state riportate in forma parziale e distorta, finendo col dare per certo quel che invece certo non era. (Omissis) aveva affermato che (Omissis) aveva cercato il (Omissis) perchè aveva da parlargli, ma nega che sapesse che quest’ultimo avrebbe dovuto riparare il tetto.
Inoltre, poichè a dire dello stesso teste (Omissis) l’amico (Omissis) aveva escluso, in quanto troppo pericoloso, di salire da solo sul tetto, i casi non potevano esse che due: o la vittima decise spontaneamente di salire, in attesa del (Omissis), al fine di ingraziarsi l’impresa, presso la quale aveva manifestato il desiderio di tornare a lavorare; oppure che il (Omissis) fosse presente. Di poi, non aveva costrutto logico convincente l’affermazione secondo la quale il (Omissis) prendeva ordine dal ricorrente, senza che risulti specificato collegamento temporale di sorta (cioè, se prima o dopo la scissione della (Omissis)).
Ulteriore illazione non suffragata da corroborazione di sorta la Corte territoriale aveva tratto dalla presenza della lamiera, costituente circostanza neutra.
Infine, male aveva fatto la Corte d’Appello ad escludere che la decisione di montare sul tetto fosse presa dalla vittima in piena autonomia al fine di fare buona figura con i (Omissis), che doveva incontrare e dei quali conosceva bene il (Omissis).
DIRITTO
In definitiva tutte le doglianze assumono sussistere vizio motivazionale, rilevabile in sede di legittimità, nel quale sarebbe incorsa la Corte territoriale nel vagliare la prova, sicché, senza il predetto vizio non si sarebbe potuto affermare che il (Omissis) salì sul tetto dietro incarico degli imputati, piuttosto che per libera, improvvida ed imprevedibile sua scelta. In altri termini le impugnazioni mirano a dimostrare la contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione sul punto decisivo evidenziato.
Ovviamente, in questa sede non sarebbe consentito sostituire la motivazione del giudice di merito, pur anche ove il proposto ragionamento alternativo apparisse di una qualche plausibilità, occorrendo, appunto, accertare il grave vizio motivazionale individuato dall’art. 606 c.p.p., lettera e).
Sull’argomento può richiamarsi, fra le tante, la seguente massima, tratta dalla sentenza n. 15556 del 12/2/2008 di questa Sezione, particolarmente chiara nel delineare i confini del giudizio di legittimità sulla motivazione: il nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lettera e), come modificato dalla Legge 20 febbraio 2006, n. 46, con la ivi prevista possibilità per la Cassazione di apprezzare i vizi della motivazione anche attraverso gli “atti del processo”, non ha alterato la fisionomia del giudizio di cassazione, che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in un ennesimo giudizio di merito sul fatto. In questa prospettiva, non è tuttora consentito alla Corte di cassazione di procedere a una rinnovata valutazione dei fatti ovvero a una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito. Il “novum” normativo, invece, rappresenta il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto travisamento della prova, finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale: cioè, quel vizio in forza del quale la Cassazione, lungi dal procedere a un’inammissibile rivalutazione del fatto e del contenuto delle prove, può prendere in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto sia stato o no “veicolato”, senza travisamenti, all’interno della decisione.
Reputa il Collegio che i ricorsi vadano rigettati.
Le dichiarazioni del teste (Omissis), che le Difese richiamano a stralci, nel loro insieme deve escludersi siano state travisate, nel senso che si è esplicitato, dal giudice di merito.
L’uomo, molto amico del povero (Omissis), conosceva in dettaglio la storia lavorativa di quest’ultimo e ne raccoglieva gli sfoghi e le confidenze, essendo, quindi, in grado di comprenderne lo stato d’animo, di percepire le sfumature e di interpretare i sottintesi che assai di frequente connotano i dialoghi fra intimi.
Aveva colto che il (Omissis), il quale, ingaggiato presso l’azienda (Omissis), ambiva a ritornare alle dipendenze dell’azienda (Omissis), della quale nel passato era stato operaio, era stata chiamata da (Omissis), non per le solite riparazioni alle macchine, da svolgersi nella giornata del sabato, ma, per “conciare” il tetto del capannone; tanto che si era sentito in dovere di avvertire l’amico della pericolosità dell’intervento e quest’ultimo lo aveva rassicurato, dicendogli che giammai sarebbe salito da solo.
Pur vero che il (Omissis), a suo stesso dire ansioso ed agitato dal ruolo e dal contesto, prima afferma che il (Omissis) era stato incaricato di sistemare il tetto, poi da per scontata una simile premessa e, infine, la qualifica una sua supposizione basata sulle conversazioni che aveva avuto con il predetto, tuttavia, anche sulla base degli altri elementi di prova che si passeranno più avanti in rassegna, appare un ingiustificato azzardo logico sostenere che la vittima, senza avere avuto incarico da alcuno, spontaneamente, senza neppure avere avuto istruzioni sul tipo di riparazione da svolgere e sui materiali da utilizzare, decise l’intervento.
La deposizione di (Omissis), segretaria dei (Omissis), la quale riferì che il (Omissis) era stato convocato in azienda per affidargli “quel lavoretto”, corrobora il convincimento che all’operaio (Omissis) si rivolse proprio per riparare il tetto. Trattavasi, invero, di un compito ben diverso rispetto alle ordinarie riparazioni delle macchine che l’uomo effettuava malvolentieri di sabato (perché veniva privato del tempo libero), quando non lavorava per conto della (Omissis), per il quale era stata disposta precipua convocazione e la cui natura fu subito chiara alla vittima.
Con suggestiva manovra argomentativa la Difesa si è premurata di svalorizzare la valenza probatoria tratta dai giudici dalla presenza nel cortile dei fogli metallici da utilizzare per aggiustare il tetto. Tuttavia: se è pur vero che i materiali avrebbero potuto essere acquistati per metterli a disposizione delle persone, diverse dalla vittima, incaricate di effettuare la riparazione, dei detti ipotetici soggetti nessuna, neppur vaga, allegazione vien data; di forte spessore sintomatico risulta, inoltre, la disponibilità del materiale proprio quel giorno di sabato nel quale il (Omissis) si recò nell’azienda dei (Omissis) per effettuare, per come gli era sembrato evidente, la riparazione del tetto.
Non difetta di logica l’osservazione spesa dalla Corte d’appello a riguardo della non decisività dell’eventuale noleggio di un cesto mobile (anche a non tener conto della circostanza del non essersi raggiunta prova convincente che il detto noleggio venne posto in essere per il tetto, essendo risultati fatturati giorni d’impiego per il 21/23 giugno, come chiarito in sede di merito), il quale, avrebbe potuto essere impiegato, tosto che il (Omissis), dopo aver preso contezza delle riparazioni da svolgere (e per questo, evidentemente, quel giorno montò sul tetto), avesse iniziato l’opera.
Né, infine, quanto riferito da (Omissis), moglie del (Omissis), rende contraddittoria la motivazione, la quale ha tenuto conto del detto apporto probatorio, dal quale ha tratto il convincimento che la donna sapesse che il marito spesso veniva chiamato per riparare le macchine utilizzate per la lavorazione del marmo e che il referente di costui era (Omissis), dal quale prendeva incarichi e direttive. Quanto, poi, all’aver riferito che anche quel sabato il coniuge avrebbe dovuto riparare dei macchinari non contrasta con le conclusioni di merito, le quali non escludono che il povero (Omissis) si riservava di svolgere più di un compito o, comunque, non volle inquietare la moglie.
Alla luce di quanto esposto va confinato nell’alveo di una mera congettura difensiva l’asserto secondo il quale la condotta del (Omissis) avrebbe dovuto ritenersi “imprevedibile ed abnorme, oltre che pericolosissima al limite dell’autolesionismo”, una vera e propria follia.
La commissione del reato risale al (Omissis); la pena all’epoca comminata nel massimo dall’art. 589 c.p., era quella della reclusione per la durata di anni cinque. Il termine prescrizionale, ante riforma operata con la Legge 5 dicembre 2005, n. 251, di conseguenza, tenuto conto dell’interruzione processuale, era di anni quindici (anni dieci + 1/2); applicando, sussistendone i presupposti, la nuova disciplina (art. 157, commi 1 e 6, e art. 160, comma 3) si giunge alla medesima durata (anni sei + 1/4 x 2). Poiché la sentenza d’appello risale al 21/2/2011 alla detta epoca il reato non era comunque prescritto, e non lo è a tutt’oggi, al contrario di quel che deducono gli imputati (Omissis) e (Omissis) con la memoria depositata in udienza.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.