CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 dicembre 2013, n. 49787

Fallimento ed altre procedure concorsuali – Bancarotta fraudolenta – Operazione svantaggiosa per una società – Punibilità

Fatto e diritto

1. Con sentenza del 6.12.2011 la corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza con cui il tribunale di Milano, in data 3.11.2004, aveva condannato B.J., nella qualità di consigliere di amministrazione della società “D.A. s.p.a.”, dichiarata fallita il 6.10.1992, alle pene, principale ed accessorie, ritenute di giustizia, per i reati di bancarotta fraudolenta per dissipazione, allo stesso contestati nei capi A2), limitatamente all’imposto di £ 458.067.590.350, e A3) dell’imputazione, in essi assorbito anche l’addebito contestato sub B), rideterminava il trattamento sanzionatorio in senso più favorevole per il reo, valutando meno gravemente la sua condotta, mentre confermava nel resto l’impugnata sentenza.

2. Avverso la decisione della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto impugnazione l’imputato, articolando tre autonomi motivi di ricorso.

3. Con il primo motivo il ricorrente lamenta il vizio della mancanza e della manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, in relazione agli artt. 216, co. 1, n. 1, 223, co. 2, n. 2 e 219, co. 1, n. 2, I. fall.

In particolare, ad avviso del ricorrente, premesso che le operazioni contestate all’imputato si inseriscono nell’ambito di rapporti tra gruppi di società collegati e che l’art. 2634, c.c., prevede che “in ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo se compensato da vantaggi conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo”, la corte territoriale non ha spiegato in base a quali elementi ha ritenuto che il B. potesse valutare, ex ante, le conseguenze dannose della sua condotta.

Nella prospettiva del ricorrente, dunque, tenuto conto che la stessa corte di appello evidenzia come una delle due operazioni in contestazione sia stata realizzata nel settembre del 1990, vale a dire probabilmente persino prima del periodo in cui l’Imputato assunse il ruolo di amministratore della società fallita, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto dimostrare che il B. fosse consapevole della portata dissipatrice della propria condotta, ovvero che i propri atti avrebbero potuto ledere o porre in pericolo gli interessi di eventuali creditori, posto che l’imputato era nella condizione di potere legittimamente pensare, invece, che le operazioni in questione si inserissero in una più complessa strategia di lungo periodo, foriera di futuri risultati positivi per l’intero gruppo societario.

4. Il motivo di ricorso testé illustrato non può essere accolto, perché infondato.

4.1 La previsione dell’art. 2634, comma 3, c.c., che, relativamente alla fattispecie incriminatrice dell’infedeltà patrimoniale degli amministratori esclude la rilevanza penale dell’atto depauperatorio in presenza dei cd. “vantaggi compensativi” dei quali la società apparentemente danneggiata abbia fruito o sarebbe stata in grado di fruire in ragione della sua appartenenza a un più ampio gruppo di società, conferisce valenza «normativa» a principi – già desumibili dal sistema, in punto di necessaria considerazione della reale offensività – che sono senz’altro applicabili anche alle condotte sanzionate dalle norme fallimentari e, segnatamente a fatti di disposizione patrimoniale contestati come distrattivi o dissipativi.

Ne consegue che, se si accerta che l’atto non risponde all’interesse diretto della società il cui amministratore lo ha compiuto e che ne è scaturito nell’immediato un danno al patrimonio sociale, potrà ben ammettersi che il medesimo amministratore deduca e dimostri l’esistenza di una realtà di gruppo alla luce della quale anche quell’atto è destinato ad assumere una coloritura diversa e quel pregiudizio a stemperarsi.

4.2 Peraltro, come evidenziato dalla costante giurisprudenza della Suprema Corte, condivisa dal Collegio, proprio il fatto che siffatta analisi ha lo scopo di verificare l’offensività in concreto della condotta, rende evidente che non è sufficiente, al fine di escludere la riconducibilità di un’operazione di diminuzione patrimoniale senza apparente corrispettivo ai fatti di distrazione o dissipazione incriminabili, la mera ipotesi della sussistenza di vantaggi compensativi, ma occorre che gli ipotizzati benefici indiretti della società fallita, che l’amministratore ha l’onere di allegare e provare, risultassero non solo effettivamente connessi ad un vantaggio complessivo del gruppo, ma altresì idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta: in guisa tale da non renderla capace di incidere (perlomeno nella ragionevole previsione dell’agente) sulle ragioni del creditori della società (cfr. Cass., sez. V, 24/05/2006, n. 36764, L.B., rv. 234605; Cass., sez. I, 26/10/2012, n. 48327, V.M.).

4.3 Può pertanto conclusivamente affermarsi che in tema di bancarotta fraudolenta, qualora il fatto si riferisca a rapporti intercorsi fra società appartenenti al medesimo gruppo, solo il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell’interesse del gruppo, può consentire di ritenere legittima l’operazione temporaneamente svantaggiosa per la società sacrificata, nel qual caso è l’interessato a dover fornire la prova di tale circostanza (cfr. Cass., sez. V, 9.5.2012, n. 29036, Cecchi Gori e altro, rv. 253031).

4.4. Tale prova non è stata fornita dal ricorrente, il quale, come evidenziato dai giudice di secondo grado, ha partecipato alle diverse operazioni dissipative, rivestendo ruoli di gestione e di direzione “simultanei” all’Interno delle diverse società tra cui sono state realizzate le transazioni, che hanno depauperato il patrimonio della “D.A. s.p.a.”.

Ed invero, a fronte dell’analitica analisi delle operazioni dissipative svolta in motivazione dalla corte territoriale (cfr. pp. 1-2; 4-5), peraltro non contestate specificamente dall’Imputato, consistenti in “dazioni di enormi somme di denaro” da parte della società fallita, “effettive e concrete, a fronte di contropartite evidentemente fittizie, laddove legate al trasferimento di pacchetti azionari di impossibile gestione e disponibilità, oltre che di titolarità assai dubbiamente conservabile, posto che trattavasi di pacchetti societari concessi in pegno, a garanzia di correlative posizioni debitorie”, la cui unica finalità veniva individuata dal giudice di secondo grado, con argomentare dotato di robusta coerenza logica, nel “drenare le residue possibilità finanziarie e reddituali della società, fino a quel momento risparmiate dalla crisi globale del gruppo” in cui si inseriva, il ricorrente si è limitato a prospettare la semplice possibilità per II B. di ritenere che le operazioni in questione si traducessero in un vantaggio complessivo per il gruppo, tacendo del tutto ogni considerazione sulla (necessaria) consapevolezza da parte sua che i risultati di tali operazioni fossero idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi da esse derivanti, in modo da depotenziarne la capacità di incidere negativamente sulle ragioni dei creditori della società e sulla esistenza di un saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell’interesse del gruppo.

5. Con il secondo motivo di ricorso, l’imputato lamenta il vizio della mancanza e della manifesta illogicità della motivazione della sentenza Impugnata, in relazione agli artt. 110 e 114, c.p., per non avere la corte territoriale riconosciuto in favore del B. la circostanza attenuante di cui all’art. 114, c.p., di cui, invece, secondo il ricorrente, ricorrono i presupposti, in quanto il B. era una semplice “pedina” nella mani del vero dominus del gruppo, F.F., di cui era un mero esecutore, come, in fondo, dalla stessa corte di appello riconosciuto nelle parti della motivazione in cui parla di “asservimento”, “coercizione” e “vincolo”, cui era sottoposto il reo, senza, tuttavia, trarne le logiche conclusioni in termini di riconoscimento della menzionata attenuante.

5.1 Nel corpo del medesimo motivo, inoltre, il ricorrente lamenta anche il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, con giudizio di prevalenza sulle contestate circostanze aggravanti dei più fatti di bancarotta e del danno di rilevante gravità.

6. Anche questo motivo di ricorso appare infondato.

6.1 Come è noto, infatti, per l’Integrazione della circostanza attenuante della minima partecipazione, ex art. 114, c.p., non è sufficiente una minore efficacia causale dell’attività prestata da un correo rispetto a quella realizzata dagli altri, essendo, invece, necessario che il contributo offerto si sia concretizzato nell’assunzione di un ruolo di rilevanza davvero marginale, cioè di efficacia causale così limitata rispetto all’evento da risultare accessorio nel generale quadro del percorso criminoso di realizzazione del reato, senza apprezzabili conseguenze pratiche sul risultato complessivo dell’azione criminosa (cfr. Cass., sez. VI, 24/11/2011, n. 24571, P. e altro; rv. 253091; Cass., sez. I, 15/04/2010, n. 32324; M. e altro, nonché Cass., sez. V, 06/07/2011, n. 40092, S., rv. 251121).

6.2. Tale non appare l’attività prestata dal B., che ha partecipato alle operazioni innanzi indicate proprio in virtù del suo ruolo di collaboratore di fiducia del F. e della sua competenza, maturata nella cura dei rapporti bancari e del settore assicurativo nell’Interesse del gruppo (cfr. p. 2 dell’impugnata sentenza), che lo avevano condotto a svolgere ruolo di gestione e di direzione in diverse società, indispensabile per la conclusione delle transazioni di cui è stata accertata la natura dissipatrice.

Inoltre, come ammesso implicitamente dallo stesso ricorrente, pur essendo asservito al F., il B. gli era necessario per portare a compimento il suo disegno criminoso, consentendogli, tra l’altro, di “costituire, almeno formalmente, consigli di amministrazione formati da uomini diversi” (cfr. pp. 7-8 del ricorso).

6.3 Manifestamente Inammissibile è l’ulteriore doglianza di cui al punto 5.1, che si risolve in una mera censura di merito, non consentita in sede di legittimità.

7. Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta il vizio di cui all’art. 606, co. 1, lett. c), c.p.p., In relazione agli artt. 111, Cost., 6, C.E.D.U., 178, 179, 180, 181, 533, c.p.p., per la mancata traduzione in lingua francese degli atti compiuti prima che tale traduzione venisse disposta dal giudice procedente, rilevando, inoltre, a chiusura delle sue deduzioni, che la colpevolezza dell’imputato non è stata dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio, sia sul piano fattuale che su quello dell’elemento psicologico del reato, e che la durata complessiva del procedimento a carico del B. ha superato di gran lunga “i principi stabiliti nella giurisprudenza della Corte di Stasburgo e nella relazione CALVEZ” sull’efficienza della giustizia in Europa.

8. Preliminarmente va sciolta in senso negativo la riserva sulla acquisizione dell’ordinanza del tribunale di Milano prodotta in udienza dal difensore dell’Imputato, in quanto nel giudizio di legittimità possono essere prodotti esclusivamente i documenti che l’interessato non sia stato in grado di esibire nei precedenti gradi di giudizio (e non è certo questo il caso del provvedimento emesso nel lontano 23.4.2002), sempre che essi non costituiscano nuova prova e non comportino un’attività di apprezzamento circa la loro validità formale e la loro efficacia nel contesto delle prove già raccolte e valutate dai giudici di merito (cfr. Cass., sez. II, 11/10/2012, n. 1417, rv. 254302).

9. Tanto premesso, l’unica questione su cui occorre soffermarsi è quella riguardante l’omessa traduzione in lingua francese di atti processuali, posto che le altre doglianze appaiono manifestamente inammissibili per la loro genericità e irrilevanza.

9.1 Orbene il ricorso, sul punto, appare del tutto generico, non avendo il difensore indicato o allegato specificamente, in violazione del principio della cd, autosufficienza del ricorso, l’atto o gli atti, di cui lamenta la mancata traduzione in lingua francese.

Peraltro, e con particolare riferimento al contenuto del decreto che dispone il giudizio, va rilevato che correttamente, come evidenziato dalla corte territoriale, il tribunale ne aveva disposto la traduzione in francese, procedendo, poi, una volta tradotto, alla rinnovazione della notifica del decreto in questione al B..

Infatti, come affermato dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, condivisa dal collegio, in presenza di un decreto di rinvio a giudizio ritualmente notificato, spetta al giudice del dibattimento provvedere alla rinnovazione della citazione previa traduzione del decreto nella lingua conosciuta dall’interessato, risultando abnorme, perché esula dal sistema processuale e determina una indebita stasi del procedimento, il provvedimento con il quale il suddetto giudice disponga la restituzione degli atti al giudice per le indagini preliminari sul rilievo dell’omessa traduzione del provvedimento che dispone il giudizio nella lingua conosciuta dall’imputato (cfr. Cass., sez, IV, 17/09/2010, n. 41039, B.; Cass., sez. I, 27.4.2006, n. 16028, Confi, comp. in proc. Sultana, rv. 234263).

10. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso proposta nell’interesse del B., va, dunque, rigettato, con condanna di ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese di procedimento.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali