Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 26240 depositata il 16 giugno 2023
bancarotta fraudolente – bancarotta riparata – bancarotta bilanciata
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Torino ha confermato la condanna di T.S. per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale commesso nella qualità di amministratore unico della società “S. r.l.”, fallita nell’aprile 2011, per aver posto in essere ingiustificati prelievi di denaro contante dalla cassa societaria e per aver effettuato restituzioni di finanziamenti a favore proprio e della moglie, entrambi soci della fallita. In parziale riforma della sentenza di primo grado la Corte territoriale ha invece dichiarato non doversi procedere per il concorrente reato di bancarotta semplice in quanto estinto per intervenuta prescrizione, escludendo conseguentemente la contestata aggravante di cui all’art. 219, co. 2 n. 1 legge fall. e rideterminando l’entità della pena principale nonché delle sanzioni accessorie fallimentari.
2. Avverso la sentenza ricorre l’imputato articolando tre motivi.
2.1 Con il primo motivo deduce l’erronea applicazione dell’art. 216 l.f. in quanto, a detta del ricorrente, la Corte territoriale avrebbe disatteso i più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità secondo i quali, a fronte di operazioni con cui, in epoca di evidente dissesto societario, si restituiscano ai soci i finanziamenti effettuati, il delitto di bancarotta fraudolenta si realizzerebbe solo ove le restituzioni si riferissero a precedenti conferimenti in conto capitale e non, come nel caso di specie, a prestiti di altra natura in relazione ai quali potrebbe esclusivamente ravvisarsi la diversa ipotesi di bancarotta preferenziale, a nulla rilevando che destinatario di tale reso sia lo stesso amministratore della società. A fortiori, del tutto insignificante sarebbe la circostanza per cui l’altro socio beneficiario delle restituzioni si identificherebbe con la moglie dell’imputato, a maggior ragione in mancanza di riscontro circa il regime patrimoniale dei beni adottato dai
2.2 Con il secondo motivo denuncia assenza di motivazione ed erronea applicazione di legge con riguardo alla ritenuta natura distrattiva dei prelievi di denaro contante effettuati dall’imputato in ragione dell’incapacità dello stesso di giustificarne puntualmente la destinazione. A detta del ricorrente, infatti, non sarebbe possibile attribuire a suddetta situazione di incertezza il ruolo di prova certa ed invincibile della distrazione, pena un’indebita inversione dell’onere probatorio. Al contrario, accordata alla circostanza la mera natura di indizio, è evidente come nel caso di specie la stessa non solo non sia corroborata da altri elementi di pari segno, ma anzi venga contraddetta dal fatto che, a fronte della contestata distrazione, la cui entità peraltro è stata ampiamente ridotta da parte del giudice di seconde cure, lo stesso amministratore avrebbe invece contestualmente finanziato la società per un simile importo, nonché rinunciato alla restituzione di somme già versare per un ammontare ben superiore. In definitiva, secondo la prospettazione del ricorrente, la Corte d’appello non sarebbe stata in grado di smentire la tesi dell’imputato secondo la quale anche i prelievi privi di specifico riscontro sarebbero comunque stati finalizzati a coprire i costi aziendali.
2.3 Con il terzo motivo vengono dedotte illogicità della motivazione ed erronea applicazione di legge in relazione alla ritenuta insussistenza della fattispecie di bancarotta riparata, individuata dal ricorrente nella circostanza per cui, a fronte di conferimenti da parte dei soci per oltre 000 euro, questi avrebbero ottenuto in restituzione la somma inferiore di poco più di 225.000 euro. In questo senso, del tutto illogica sarebbe la posizione assunta dalla Corte adita, secondo cui la figura invocata non potrebbe operare a causa della posteriorità delle distrazioni rispetto ai conferimenti, dovendosi invero esclusivamente tenere conto, per poter parlare di bancarotta riparata, del saldo tra il preso e il versato al momento della dichiarazione giudiziale di fallimento.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso non merita accoglimento.
2. Il primo motivo, pur astrattamente fondato, è in realtà inammissibile per l’assenza di un concreto interesse alla invocata riqualificazione giuridica del fatto e perché in parte generico.
2.1 Coglie, infatti, nel segno la censura relativa all’insostenibilità della tesi propugnata dalla Corte territoriale per cui, in caso di identificazione del socio destinatario della restituzione dei finanziamenti con l’amministratore della fallita, si configurerebbe automaticamente la fattispecie di bancarotta fraudolenta distrattiva a prescindere dalla qualificazione dei crediti preferiti in termini di versamenti in conto capitale o di prestiti effettuati alla società. Tale principio, pure affermato in passato da alcune pronunzie, è stato oramai abbandonato dalla giurisprudenza di legittimità, in quanto comporta l’irragionevole prevalenza del criterio soggettivo riferito alla qualifica assunta dal creditore all’interno della società su quello che, al contrario, va individuato quale unico criterio di distinguo nella individuazione della fattispecie incriminatrice applicabile, ossia la causale del credito soddisfatto attraverso il prelievo di somme da parte di colui che ricopre la carica gestoria. Va infatti ribadito che solo il prelievo di somme di denaro a titolo di restituzione dei versamenti operati dai soci in conto capitale costituisce effettivamente una distrazione ed integra, pertanto, la fattispecie della bancarotta fraudolenta patrimoniale, non rappresentando tali versamenti un credito esigibile nel corso della vita della società, mentre la restituzione di quelli operati dai soci a titolo di mutuo è punibile a titolo di bancarotta preferenziale, a prescindere dalla qualifica rivestita dal destinatario delle restituzioni all’interno della società (ex multis Sez. 5, Sentenza n. 32930 del 21/06/2021, Provvisionato, Rv. 281872; Sez. 5, Sentenza n. 8431 del 01/02/2019, Vesprini, Rv. 276031)
2.2 Non di meno, stante la già intervenuta condanna dell’imputato al minimo della pena comminabile – tenuto conto dell’applicazione della diminuente processuale conseguente alla scelta del rito abbreviato e dell’avvenuto riconoscimento nella massima estensione delle attenuanti generiche – deve rilevarsi come alcun effetto favorevole deriverebbe all’imputato dalla riqualificazione del fatto sotto il titolo del meno grave reato di bancarotta preferenziale, rimanendo escluso che il suo interesse ad impugnare possa identificarsi con il mero ripristino della legalità sostanziale. Lo stesso dicasi in relazione alle conseguenze dell’accoglimento in relazione ad un’eventuale valutazione del fatto in sede civile in quanto, data la pacifica natura illecita della condotta a prescindere dalla sua esatta – e comunque, come subito si dirà, solo parziale – qualificazione giuridica in termini di bancarotta fraudolenta distrattiva o preferenziale, la decisione non influirebbe in alcun modo su un eventuale giudizio civile di risarcimento del danno.
2.3 Come accennato, il motivo in esame è peraltro anche in parte generico, in quanto omette di confrontarsi con la sentenza impugnata nella sua interezza e, nello specifico, con il rilievo secondo il quale, alla luce della perizia contabile disposta nel giudizio di appello, è risultata un’eccedenza delle restituzioni rispetto agli asseriti prestiti effettuati dall’imputato per oltre 50.000 euro; eccedenza alla quale, dunque, correttamente la Corte territoriale ha attribuito in ogni caso natura distrattiva in assenza di idonea giustificazione, che nemmeno con il ricorso, per l’appunto, è stata prospettata.
3. Il secondo motivo di ricorso è infondato ove prospetta un’indebita inversione dell’onere della prova di fronte alla richiesta, indirizzata all’amministratore, di dare ragione del mancato rinvenimento di beni sociali, pena la presunzione relativa di distrazione degli stessi. In merito va innanzi tutto ricordato il consolidato orientamento di questa Corte per cui la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, ad opera dell’amministratore, della destinazione dei beni a seguito del loro mancato rinvenimento (ex multis 5, n. 7048 del 27/11/2008, dep. 2009, Bianchini, Rv. 243295; Sez. 5, n. 8260 del 22/09/2015, dep. 2016, Aucello, Rv. 267710; Sez. 5, Sentenza n. 17228 del 17/01/2020, Costantino, Rv. 279204; Sez. 5, Sentenza n. 2732 del 16/12/2021, dep. 2022, Ciraolo, Rv. 282652).
La costante elaborazione giurisprudenziale seguita in proposito dal giudice di legittimità si ancora alla peculiare normativa concorsuale. Innanzitutto l’imprenditore è posto dal nostro ordinamento in una posizione di garanzia nei confronti dei creditori, i quali ripongono la garanzia dell’adempimento delle obbligazioni dell’impresa sul patrimonio di quest’ultima. Donde la diretta responsabilità del gestore di questa ricchezza per la sua conservazione in ragione dell’integrità della garanzia. La perdita ingiustificata del patrimonio o l’elisione della sua consistenza danneggia le aspettative della massa creditoria ed integra l’evento giuridico sotteso dalla fattispecie di bancarotta fraudolenta.
In secondo luogo, la legge fall., art. 87, comma 3 (anche prima della sua riforma) assegna al fallito obbligo di verità circa la destinazione dei beni di impresa al momento dell’interpello formulato dal curatore al riguardo, con espresso richiamo alla sanzione penale. Immediata è la conclusione che le condotte descritte all’art. 216. comma 1, n. 1 (tra loro sostanzialmente equipollenti) hanno (anche) diretto riferimento alla condotta infedele o sleale del fallito nel contesto dell’interpello. Osservazioni che giustificano la (apparente) inversione dell’onere della prova ascritta al fallito nel caso di mancato rinvenimento di cespiti da parte della procedura e di assenza di giustificazione al proposito ( o di giustificazione resa in termini di spese, perdite ed oneri attinenti o compatibili con le fisiologiche regole di gestione).
Trattasi, invero, di sollecitazione al diretto interessato della dimostrazione della concreta destinazione dei beni o del loro ricavato, risposta che (presumibilmente) soltanto egli, che è (oltre che il responsabile) l’artefice della gestione, può rendere.
4. Manifestamente infondato è infine il terzo motivo, con il quale si invoca l’applicazione dell’istituto della c.d. “bancarotta riparata” in ragione di una asserita reintegrazione del patrimonio sociale avvenuta in epoca antecedente rispetto al momento nel quale sarebbero state poste in essere le contestate distrazioni. A ben vedere, la tesi avanzata dal ricorrente non può essere condivisa in quanto comporta una indebita inversione dell’ordine logico-temporale dei requisiti fondamentali alla base dell’operatività della fattispecie stessa. Invero, come da costante giurisprudenza sul tema, la fattispecie di cui si discute si fonda sul presupposto per cui l’amministratore, una volta che si sia reso responsabile delle condotte distrattive, annulli l’operazione con una condotta di segno opposto che elimini così ogni pregiudizio per i creditori (ex multis 5, n. 57759 del 24/11/2017, Liparoti, Rv. 271922). Al contrario, nel caso in esame, a configurarsi sarebbe al più la diversa ipotesi di una bancarotta “bilanciata”, nella quale insomma gli apporti posti in essere dall’amministratore e le distrazioni si compenserebbero gli uni con le altre, senza che però tra questi si crei un rapporto di stretta dipendenza tale per cui i primi esistono solo in funzione dell’ottica di riparazione al danno arrecato con le prime.
A prescindere da quanto testè evidenziato, comunque, va pur sempre rilevata l’insostenibilità della censura in esame alla luce di quanto già illustrato in precedenza al punto 2.3. Invero, è evidente come la fattispecie non possa qui dirsi integrata in ragione della disparità esistente tra i conferimenti eseguiti dall’imputato nei confronti della società e le restituzioni dallo stesso effettuate, essendo infatti stato verificato che queste ultime, differentemente da quanto sostiene il ricorrente, superano i versamenti per un importo di più di 50.000 euro. In questo senso, va ribadito il principio per cui, per poter parlare di “bancarotta riparata” occorre che i versamenti nelle casse sociali, compiuti prima del fallimento onde reintegrare il patrimonio precedentemente pregiudicato, corrispondano esattamente agli atti distrattivi in precedenza perpetrati (Sez. 5, n. 14932 del 28/02/2023, Mercuri, Rv. 284383), circostanza non ravvisabile nel caso di specie.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.