Corte di Cassazione sentenza n. 6130 del 12 marzo 2013
ESTINZIONE DEL RAPPORTO – LICENZIAMENTO PER SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO – CCNL DEL COMPARTO DI SANITA’ – CONCESSIONE DI TRENTASEI MESI DI ASSENZA PER MALATTIA
massima
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L’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune è istituzionalmente riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione o per violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale attraverso la puntuale deduzione dell’errore-sviamento sul ragionamento del giudice di merito. Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la pronuncia di merito che ha dichiarato illegittimo il diniego opposto dal datore di lavoro alla richiesta della lavoratrice di usufruire di un periodo di aspettativa, prima di aver superato il periodo di comporto, in quanto l’art. 23 del CCNL comparto sanità personale non dirigente, dopo aver determinato in 18 mesi il periodo nel quale il lavoratore assente per malattia ha diritto alla conservazione del posto, ha riconosciuto, inoltre, al lavoratore che ne faccia tempestiva richiesta prima del superamento del periodo di comporto, la possibilità che gli sia concesso un ulteriore periodo di 18 mesi non retribuito in casi particolarmente gravi ovvero di essere sottoposto all’accertamento delle sue condizioni di salute per il tramite dell’azienda sanitaria locale territorialmente competente al fine di stabilire la sussistenza di eventuali cause di assoluta e permanente inidoneità fisica a svolgere qualsiasi proficuo lavoro.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d’Appello di Milano, in riforma della sentenza del Tribunale, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato dalla Fondazione I. alla dipendente A. R., assunta con avviamento obbligatorio, per superamento del periodo di comporto con condanna della Fondazione a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro e a pagare le retribuzioni maturate dalla data del licenziamento fino alla reintegra.
La Corte territoriale ha richiamato la normativa applicabile costituita dall’art. 23 del CCNL comparto sanità personale non dirigente, norma che, dopo aver determinato in 18 mesi il periodo nel quale il lavoratore assente per malattia ha diritto alla conservazione del posto, ha riconosciuto, inoltre, al lavoratore che ne faccia tempestiva richiesta prima del superamento del periodo di comporto, la possibilità che gli sia concesso un ulteriore periodo di 18 mesi non retribuito in casi particolarmente gravi ovvero di essere sottoposto all’accertamento delle sue condizioni di salute per il tramite dell’azienda sanitaria locale territorialmente competente al fine di stabilire la sussistenza di eventuali cause di assoluta e permanente inidoneità fisica a svolgere qualsiasi proficuo lavoro.
La R. aveva chiesto un periodo di aspettativa non retribuita di due mesi con lettera pervenuta l’8/6/2006 ai sensi dell’art. 23 citato aspettativa negatale dalla Fondazione senza tuttavia che fossero esplicitate le ragioni di tale rifiuto.
La Corte ha ritenuto illegittimo il diniego opposto dal datore di lavoro alla richiesta della lavoratrice. Ha richiamato, oltre alla norma del CCNL, l’accordo sindacale del 9/5/96, avente ad oggetto chiarimenti in ordine all’applicazione di alcun istituti contrattuali, dal quale era desumibile che il periodo massimo di conservazione del posto poteva essere di 36 mesi e che al termine di detto periodo l’azienda, tenuto conto del tipo di infermità del dipendente, poteva utilizzarlo in modo diverso ovvero, a domanda del lavoratore, inquadrarlo in una qualifica inferiore e che superati i 36 mesi era rimesso alla facoltà dell’azienda procedere o meno alla risoluzione del rapporto.
Alla luce di tale normativa, secondo la Corte territoriale, il datore di lavoro era tenuto ad esplorare, prima di procedere alla risoluzione del contratto, le alternative previste negli accordi sindacali che esplicitamente imponevano al datore di lavoro di percorrere ogni possibile alternativa al licenziamento ivi incluso un concordato demansionamento.
La Corte d’Appello ha quindi concluso che, pur non esistendo un obbligo di accoglimento della richiesta di aspettativa, la disposizione contrattuale, da interpretarsi anche alla luce degli obblighi di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei contratti, imponeva al datore di lavoro, al fine di esercitare il suo potere discrezionale di concedere o meno l’aspettativa, di effettuare un bilanciamento tra le contrapposte esigenze considerando che si trattava dello strumento contrattuale finalizzato ad evitare il licenziamento. Ha osservato, infatti, che da un lato vi era l’esigenza del lavoratore ammalato di essere agevolato al fine di un suo eventuale recupero al lavoro, dall’altro lato la Fondazione non aveva esplicitato quali fossero gli interessi connessi alle sue esigenze organizzative e funzionali che le impedivano la concessione dell’aspettativa.
Avverso detta sentenza propone ricorso in Cassazione la Fondazione formulando quattro motivi di impugnazione. Si costituisce la lavoratrice depositando controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi nazionali di lavoro (art. 360 n 1 e 3 c.p.c.) in relazione all’art. 1362 c.c., 1363 c.c. e all’art. 23 del C.C.N.L. comparto sanità del 1995.
Censura la sentenza per avere erroneamente interpretato l’art. 23 del C.C.N.L. Osserva che la norma contrattuale era chiara nell’attribuire alle amministrazioni pubbliche la facoltà e non un obbligo di concedere l’aspettativa non retribuita tempestivamente richiesta dal dipendente (in tal senso anche i chiarimenti forniti dall’Aran); che l’accertamento delle condizioni di salute del dipendente non doveva essere effettuato dalle amministrazioni d’ufficio, come pretenderebbe l’impugnata sentenza, ma solo a seguito di espressa richiesta dell’interessato in alternativa alla domanda di aspettativa e che pertanto l’amministrazione, tenuto conto della situazione del lavoratore, delle possibilità di recupero e delle proprie esigenze organizzative e di servizio, ben poteva allo scadere del termine di 18 mesi negare l’aspettativa e procedere alla risoluzione del rapporto.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti ed accordi nazionali di lavoro (art. 360 n 1 e 3 c.p.c.) in relazione all’art. 10 della legge n. 68 del 1999.
Censura la sentenza che ha dedotto l’illegittimità della condotta della Fondazione dal fatto che l’ente avrebbe dovuto, ai sensi dell’art. 10 della legge n. 68 del 1999, accertare le condizioni di salute della lavoratrice per verificare se, a causa delle sue minorazioni, poteva continuare ad essere utilizzata presso l’azienda e in caso contrario consentirle di fruire di una sospensione retribuita del rapporto di lavoro.
La ricorrente osserva che la lavoratrice, nel chiedere l’aspettativa non retribuita ai sensi dell’art. 23 del C.C.N.L. aveva prodotto un certificato medico del 15 marzo 2006 attestante la sua totale inabilità al lavoro (al 100%) e che, pertanto, in tale situazione sarebbe stato del tutto inutile effettuare ulteriori verifiche circa un aggravamento delle condizioni di salute della R.. Osserva, infatti, che la stessa ratio della sospensione non retribuita era quella di consentire al dipendente il recupero delle condizioni di salute compatibili con lo svolgimento di attività di lavoro, recupero che nel caso in esame non sarebbe stato possibile.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia omessa e o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio (art. 360 n 1 e 5 cpc).
Rileva che la lavoratrice nel richiedere l’aspettativa con lettera pervenuta alla Fondazione in data 8 giugno 2006 aveva dichiarato di non poter prestare servizio per il peggioramento della sua invalidità al 100% ed aveva allegato un certificato medico datato 15 marzo 2006. Osserva pertanto che la concessione di un’ aspettativa non retribuita non avrebbe avuto alcuna logica e ragionevole giustificazione in quanto la facoltà di concedere tale aspettativa non retribuita appariva collegata all’effettiva possibilità di recupero della salute da parte del lavoratore. La Fondazione osserva che a base della sua decisione di non concedere la richiesta aspettativa aveva posto il certificato medico del 15 marzo 2006 e non quello successivo del 13 giugno 2006, come erroneamente ritenuto dalla Corte d’Appello che non aveva fatto alcun cenno nella sentenza a detto certificato pur essendo decisivo al fini del decidere.
Le censure congiuntamente esaminate, stante la loro connessione, sono infondate.
Circa le censure formulate dalla ricorrente in relazione all’interpretazione della normativa contrattuale effettuata dalla Corte territoriale deve rilevarsi che la sentenza impugnata ha correttamente interpretato la normativa contrattuale nel senso che essa non preveda affatto un obbligo del datore di lavoro di concedere un ulteriore periodo di aspettativa. La Corte d’Appello ha affermato, invece, che detta normativa, interpretata anche alla luce degli obblighi di correttezza e buona fede, era chiara nell’imporre al datore di lavoro l’obbligo di esaminare la richiesta del lavoratore e di motivare la decisione adottata nonché di effettuare un bilanciamento tra le contrapposte, esigenze tenuto conto che si trattava dello strumento contrattuale finalizzato ad evitare il licenziamento.
La Corte Territoriale ha, infatti sottolineato con conclusioni che devono ritenersi conformi a una lettura dell’art. 23 C.C.N.L. effettuata avendo riguardo alla “ratio” complessiva delle previsioni in cui si articola (v. da ultimo, Cass. 3685/010, 16298/010 in motivazione) che la normativa contrattuale prevedeva una serie di alternative che il datore di lavoro era tenuto ad esplorare prima di procedere alla risoluzione del contratto per superamento del periodo di comporto e che nella fattispecie il datore di lavoro non aveva neppure esplicitato le ragioni per cui la richiesta di aspettativa era stata respinta, né le ragioni per cui non aveva ritenuto di sottoporre la lavoratrice agli accertamenti sanitari per verificarne l’idoneità a proficuo lavoro (nella sentenza si precisa che 22/6/ la lettera del 06 era priva di motivazione e la lettera del 29/6/06 denunciava la “prestazione lavorativa non più soddisfacente e priva di interesse per questo istituto in quanto saltuaria e ridotta nel tempo”).
La ricorrente ha fondato le sue argomentazioni sul fatto che il certificato medico pervenuto in data 15/6/06 attestante uno stato di malattia dal 13/6 al 13/7/06, induceva a formulare una prognosi negativa sullo stato di salute della lavoratrice. Tale affermazione è stata ritenuta dalla Corte territoriale, con valutazione in fatto incensurabile in Cassazione, non convincente a fronte della possibilità, prevista nel CCNL, di un periodo di aspettativa sino a 18 mesi con superamento del periodo di comporto e della mancanza di qualsiasi accertamento su istanza del datore di lavoro circa le condizioni di salute della R. e della sua effettiva possibilità di recupero anche alla luce dell’art. 10 della L. n. 68/1999, applicabile alla fattispecie essendo la R. avviata obbligatoriamente.
La Corte ha, altresì, sottolineato che la Fondazione non aveva esplicitato neppure le esigenze organizzative e funzionali impeditive della concessione dell’aspettativa fondando il rifiuto solo sul certificato medico inviato dalla lavoratrice e pervenuto alla datrice di lavoro in data 15/6/2006 con la richiesta di un ulteriore periodo di malattia.
Deve, altresì, rilevarsi che la ricorrente fa più volte riferimento ad un certificato medico del 15/3/2006 (del quale non vi è alcuna menzione nella sentenza impugnata), ma omette, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, di indicare il momento processuale nel quale è entrato nel giudizio e la sua attuale collocazione onde consentire a questa Corte di esaminarlo al fine di valutarne il significato, la rilevanza e decisività. Le censure, pertanto, con riferimento a detto certificato, non rispondono al dettato di cui all’art. 366 n 3 e 6 c.p.c. che impone un onere di specificità e compiutezza espositiva dei fatti rilevanti e di indicazione dei documenti o atti processuali sui quali il ricorso si fonda (cfr Cass n. 6937/2010, 17915/2010).
Con il quarto motivo la ricorrente denuncia omessa motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio (art. 360 n 1 e 5 c.p.c.) in particolare omessa motivazione circa la non ammissione dei mezzi istruttori tempestivamente richiesti dalla ricorrente ai fini della prova dell’aliunde perceptum da parte della R. e della conseguente detrazione del relativo importo dal risarcimento danni ex art. 18 Sta. Lav.
Anche tale motivo è infondato. Deve rilevarsi, infatti, che “Il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative” (Cass. ord n. 17915/2010).
Nella specie la ricorrente, cui gravava l’onere di provare l’avvenuta percezione da parte della R. di compensi da detrarre dal risarcimento ad essa riconosciuto, ha omesso di indicare le prove, ritenute decisive ai fini della quantificazione del risarcimento del danno, non valutate dalla Corte territoriale, con la conseguenza che, sotto tale profilo, il ricorso non risponde al principio di autosufficienza che deve caratterizzare il ricorso in Cassazione. In ogni caso l’unica richiesta che sembra aver formulato la ricorrente di assunzione di informazioni presso i Servizi per il Collocamento Obbligatorio appare meramente esplorativa ed inidonea a provare l’avvenuta percezione di somme di denaro da parte della lavoratrice.
In conclusione, pertanto, le censure della ricorrente non sono idonee ad invalidare la decisione impugnata con conseguente rigetto del ricorso.
Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Respinge il ricorso e condanna la ricorrente a pagare alla controricorrente le spese processuali liquidate in euro 50,00 per esborsi ed euro 3.500,00 per onorari, oltre accessori di legge.
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