Corte di Cassazione sentenza n. 9110 del 15 aprile 2013
LAVORO AUTONOMO – PROFESSIONI LIBERALI – AVVOCATO E PROCURATORE – STUDIO ASSOCIATO – MANDATO ALL’INCASSO – LEGITTIMITA’
massima
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Lo studio professionale associato deve annoverarsi nei fenomeni di aggregazione di interessi cui la legge attribuisce la capacità di porsi come autonomi centri di imputazione di rapporti giuridici. Ciò rilevato, può ritenersi sussistente la legittimazione di uno studio professionale alla richiesta di pagamento per le prestazioni svolte dai singoli professionisti, del medesimo facenti parte, in favore del cliente conferente l’incarico.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Tribunale di Torino, accogliendo un ricorso dell’avv. M. C., ingiunse all’ing. V. K. il pagamento di euro 26.852,19 oltre accessori e spese, per compensi dovuti per l’attività professionale prestata in favore dell’ingiunto, nell’ambito di una causa innanzi allo stesso Tribunale; il K. propose opposizione assumendo: di aver corrisposto acconti non contabilizzati; che per alcuni periodi in cui si era svolta l’attività professionale vi sarebbe stata una fattura di saldo; che il valore della controversia – relativa ad atti di concorrenza sleale- era stato erroneamente indicato. Concessa la provvisoria esecuzione del decreto, l’adito Tribunale respinse l’opposizione. La Corte di Appello di Torino, decidendo sul gravame del K., l’accolse in parte, rideterminando il dovuto in via capitale in euro 10.662,41; compensando le spese di lite al 50% e ponendo il residuo a carico del K.
Per la cassazione della detta sentenza ha proposto ricorso l’avv. C.,sulla base di quattro motivi, illustrati da successiva memoria; il K. ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I – Con il primo motivo viene denunziata la violazione/falsa applicazione delle norme di diritto con riferimento all’art. 113 c.p.c.; agli artt. 2 e 4, comma 1, D.M. 05.10.1994 n. 585; agli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c.; agli artt. 2233 c.c. e 1199 c.c. , nonché la mancata applicazione dei principi relativi: all’inderogabilità dei minimi di tariffa; al valore da attribuire alla quietanza di pagamento; alla residuale possibilità di determinazione giudiziale del dovuto, in mancanza di pattuizione espressa o di previsione di tariffa; al vincolo, nel caso di determinazione opere judicis del compenso, rappresentato dal parere dell’ordine professionale e dai minimi di tariffa.
I.a – Lamenta il ricorrente che la Corte dell’appello abbia ritenuto saldati: i diritti attinenti all’attività prestata anteriormente al 25 marzo 1996 e sino a tutto il 26 marzo 2000; gli onorari relativi dal 25 marzo 1996 al 26 marzo 2000, attraverso la corresponsione di lire 3 milioni, somma che, per la sua minima entità, era al di sotto dei minimi tariffari, stante il valore della causa – lire 1.149.500.000; assume poi che nella fattispecie l’imputazione del pagamento “a saldo” sarebbe stata fatta dal debitore e non già dal creditore (esso ricorrente) e, per di più, dopo l’effettuato pagamento e non già all’atto del medesimo.
I.b – Sottolinea , al fine di pervenire alla indicata conclusione critica, che vi sarebbe stata un’erronea interpretazione:
1 – della fattura n. 52/1996, in quanto la indicazione a saldo non avrebbe potuto significare la rinunzia alla differenza ancora dovuta, se non fosse stata accompagnata da ulteriore manifestazione di volontà diretta chiaramente alla rinunzia ad ogni ulteriore diritto – per quel titolo – nei confronti del debitore;
2 – della fattura n. 45/2000, in quanto non recante alcun elemento temporale o letterale dal quale poter inferire – come invece apoditticamente fatto dalla Corte di Appello – che si trattasse di fattura a saldo e che riguardasse i periodi indicati sub I.a.
I.c – Lamenta poi il ricorrente l’esiguità del ritenuto saldo al fine di remunerare un’onerosa attività professionale durata quasi quattro anni.
II – Va innanzi tutto messa in evidenza la non applicazione – ratione temporis – del ed. filtro a quesiti, introdotto con l’art. 366 bis epe in relazione ad impugnazioni di sentenze pubblicate dopo il 3 marzo 2006 – e prima del 4 luglio 2009, giorno dell’abrogazione della norma ad opera della legge 69/2009-; ne deriva che i pur formulati quesiti di diritto non verranno presi in esame al fine della decisione del ricorso.
II.a – In secondo luogo il richiamo alla violazione degli artt. 113, c.p.c. 1362; 1363; 1366 c.c. – contenuto in tutti e quattro i mezzi di ricorso- è inidoneo a sostenere il pur dedotto vizio di cui all’art. 360, 1° comma , n. 3 c.p.c., perché la prima disposizione attiene al generico dovere del giudice di giudicare secondo diritto; quanto poi alle regole di ermeneutica contrattuale, non viene articolata alcuna critica specifica dalla quale emerga che , nell’esame di atti negoziali – con presumibile riferimento alle parcelle ed alle relative quietanze – il giudice dell’impugnazione abbia errato nel valutare i confini applicativi di dette regole di interpretazione.
III – E’ inammissibile, in quanto priva di idoneo sviluppo argomentativo e, pertanto conducente ad una non consentita rivalutazione di fatto delle produzioni documentali, la dedotta violazione dei minimi di tariffa – richiamando il D.M. n. 585/1984 che però deve intendersi “1994”- con riferimento al valore della pratica, considerato che il mezzo, contestando la imputazione a saldo del pagamento di lire tre milioni, non andava ad incidere sulla valutazione in assoluto della corrispondenza di quanto liquidato rispetto al valore della causa – e quindi allo scaglione tariffario applicato – ma era diretto a contestare la valutazione di saldo; quanto a tale aspetto – come visto, censurato dal ricorrente per l’unilateralità dell’imputazione- la critica contenuta nel motivo è priva della necessaria specificità – nei termini imposti dall’art. 366 n. 4 c.p.c. – atteso che non si è contestata la valutazione della Corte del merito che, esaminato -cronologicamente e per titolazione (la fattura in questione infatti fu emessa a titolo “onorari intera procedura”) – il complesso delle fatture spedite dal professionista al cliente, aveva concluso per il riferimento della fattura n. 52/1996 ai diritti ed onorari maturati sino al 25 marzo 1996.
III.a – La pretesa unilateralità di imputazione dunque viene a cadere nel momento in cui viene demandato al giudice del merito di valutare a quale procedimento ed in quale senso dovesse essere interpretato, in detto documento contabile, il riferimento agli “onorari dell’intera procedura” (e non solo dunque alla “integrazione del fondo spese”come assunto nel ricorso) come riportato nel testo della fattura 56/1996 riprodotto nello specchietto riassuntivo a fol. 32 della gravata decisione.
III.b – La inidoneità dei referenti normativi indicati sub I – alla luce delle ragioni esposte sub II.a – a sostenere il motivo in esame si riscontra anche nell’esame che il ricorrente compie della motivazione attinente alla imputazione della fattura n. 45/2000: si duole anche in questo caso della non corrispondenza del testo della fattura – che parla di diritti ed onorari – e la valutazione operata dal giudice del merito, assumendo che se l’acconto percepito fosse stato a saldo, ciò avrebbe dovuto esser specificato.
III.b1- Anche in questo caso la critica non è fondata in quanto tralascia di considerare che alla imputazione a saldo delle prestazioni professionali effettuate sino alla data dell’emissione della fattura il giudice dell’appello pervenne – con ragionamento ad excludendum – dall’esame della precedente fattura n. 56/1996 quanto ai parametri temporali di riferimento; per quello che concerne poi la definitività dell’accettazione della somma che con tale documento fiscale si riscontrava, la Corte torinese la ricavò dalla constatazione che l’emittente la fattura era sempre stato preciso nello specificare quando il documento dava ricevuta di un acconto e che invece nella specie tale indicazione non era presente in fattura.
IV – Con il secondo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 113 c.p.c.; 7 D.M. n. 585/1994; degli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c.. nonché del principio secondo il quale , in caso di incarico conferito a più avvocati, ciascuno di essi avrebbe diritto alla liquidazione degli onorari: in punto di fatto assume il ricorrente che la Corte di appello avrebbe computato la fattura n. 21/1992, emessa dallo studio associato C., F., Fo. e S., tra quelle da ricomprendersi nel calcolo dei compensi corrisposti dal K. al C. che di quello studio associato fece parte per un certo periodo di tempo; contesta il ricorrente che allo studio associato potesse dirsi conferito implicitamente un mandato all’incasso da parte dei singoli associati in relazione ai compensi per le prestazioni professionali rese da ciascuno di essi.
IV.a – Premesse le osservazioni, in merito al vizio di violazione di legge, in precedenza esposte, va osservato che non è condivisibile la predicata impossibilità per lo studio professionale di ricevere un mandato all’incasso per i singoli associati , dal momento che, essendo l’ordinamento interno e l’amministrazione delle associazioni non riconosciute, regolati dagli accordi tra gli associati, questi ben possono attribuire all’associazione la legittimazione a stipulare contratti e ad acquisire la titolarità di rapporti, poi delegati ai singoli aderenti e da essi personalmente curati, con la conseguenza che, ove il giudice del merito accerti tale circostanza, sussiste la legittimazione attiva dello studio professionale associato – cui la legge attribuisce la capacità di porsi come autonomo centro d’imputazione di rapporti giuridici – rispetto ai crediti per le prestazioni svolte dai singoli professionisti a favore del cliente conferente l’incarico, in quanto il fenomeno associativo tra professionisti può non essere univocamente finalizzato alla divisione delle spese ed alla gestione congiunta dei proventi (così: Cass. Sez. I n. 15694/2011).
IV.a.1 – L’interpretazione dunque della normativa di settore è immune da censure mentre la diversa questione involgente la spiegazione del perché la Corte distrettuale avesse ritenuto conferito – dai singoli professionisti e, in particolare, dall’avv. C. – un mandato all’associazione di riscuotere e quietanzare i crediti dei singoli difensori, non ha formato oggetto di rilievo in termini di difetto di motivazione , di cui all’art. 360,1 comma n. 5 c.p.c.
V – Con il terzo motivo è fatta valere la violazione degli artt. 113 c.p.c.; 1362; 1363; 1366 e 2234 c.c. nonché del principio secondo il quale il cliente deve anticipare al prestatore d’opera intellettuale le spese occorrenti per il compimento della stessa nonché corrispondere, secondo gli usi, un acconto sul compenso: applicando tali principi sarebbe allora frutto di erronea interpretazione del dato processuale quella posta a base della decisione con la quale una fattura – n. 21/1992- causalmente identificata quale “fondo spese ed acconto su diritti ed onorari” sarebbe stata imputata al procedimento n.r.g. 4649/1992 innanzi al Tribunale di Torino: ciò, in quanto le spese di quella causa ancora non erano state ancora sostenute né tampoco sarebbero maturati i diritti di procuratore in relazione ad un processo che sarebbe stato incardinato di lì a tre mesi.
V.a – Il mezzo è infondato in quanto l’art. 2234 c.c. disciplina il principio secondo il quale il cliente del prestatore d’opera intellettuale è tenuto ad anticipare le spese e non già a rimborsarle dopo che costui le ha sostenute – ipotesi invece ricorrente nel caso del difensore antistatario; il concetto di acconto poi è sicuramente ricollegabile ad una prestazione professionale, relativa alla rappresentanza e difesa in giudizio, neppure iniziata, ben potendo la libera autonomia negoziale delle parti intendere di remunerare in tal modo le attività – ad esempio di studio della controversia e di predisposizione di atti- necessariamente antecedenti l’inizio del procedimento.
VI – Con il quarto motivo viene nuovamente denunziata la violazione degli artt. 113 c.p.c.; 1362, 1363 e 1366 c.c. nonché del principio secondo il quale l’associazione professionale non può sostituirsi al singolo professionista al momento della richiesta e della riscossione delle anticipazioni sostenute per l’esercizio delle prestazioni professionali -peraltro su tale aspetto valga quanto esposto al par IV.a – ; si assume inoltre l’erronea non applicazione, da parte della Corte torinese, dell’ulteriore principio secondo il quale l’esistenza di un credito più ampio di quello fatto valere in sede monitoria nei confronti del cliente farebbe escludere la rilevanza solutoria dell’eventuale corresponsione, da parte del debitore, di una somma eccedente rispetto a quella azionata in via monitoria, impedendo che il debitore possa eccepire in compensazione un importo, versato a titolo di “esposti di liquidazione”.
VI.a – Ricordato, come sopra messo in evidenza, che non può essere contestata, con il riferimento della violazione di legge di cui all’art. 360,1 comma n.3 c.p.c., la riferibilità al credito del singolo professionista del pagamento fatto alla associazione professionale, si rileva la inammissibilità del motivo sia per carenza di specificità nell’esposizione dei presupposti di fatto – esistenza di un credito maggiore, oggetto di liquidazione da parte del Consiglio dell’Ordine, rispetto a quello posto a base della richiesta monitoria, sia per la non conferenza della censura all’errata applicazione delle norme in scrutinio, atteso che non si va a sindacare l’ambito applicativo riconosciuto dalla Corte del merito alle dette norme né si denunzia una non corretta sussunzione della fattispecie concreta in quella recata dalla stesse, quanto piuttosto si fa valere una omessa valutazione di merito di un aspetto della controversia – attinente al rapporto tra compensi effettivamente dovuti, quelli richiesti e quelli riconosciuti- che non può essere legittimamente commesso alla Corte nell’ambito del vizio disciplinato dall’art. 360, I comma, n.3 c.p.c.
VII – Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate a carico del ricorrente secondo quanto illustrato nel dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese che liquida in euro 2.200,00 di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
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