COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE del Lazio sezione 4 sentenza n. 76 del 4 febbraio 2013
CONTENZIOSO TRIBUTARIO – RESPONSABILITA’ AGGRAVATA – SOMMA EQUITATIVAMENTE DETERMINATA – NATURA NON SANZIONATORIA
MOTIVI DELLA DECISIONE
1) Con ricorso del 9 febbraio 2011 avanti alla Commissione tributaria provinciale di Roma l’avv. R.D. faceva presente di aver appreso casualmente che la G. spa aveva iscritto due ipoteche a carico di un suo immobile in relazione a presunti debiti erariali e alla luce di n. 14 cartelle di pagamento per le quali era stata fornita evidenza telematica con l’indicazione del numero della cartella e del ruolo intimato. In particolare rilevava (indicando le ultime tre cifre della cartella) che la cartella risultavano emesse: 268) per omesso pagamento tassa registro anno 1959; 037) per omesso pagamento tassa registro anno 1999; 200) per omesso pagamento tassa registro anno 2006; 227) per omessa Iva anno 1998; 726) per omessa Iva anno 1998; 726) per omessa Iva anno 1993; 161) per omesso pagamento tassa auto anno 1999; 410) per omesso pagamento Inail anno 2002; 405) per omesso pagamento Inail anno 1999; 453) per omesso pagamento Irpef anno 1999; 924) per omesso pagamento Irpef anno 1995; 506) per omesso pagamento Irpef anno 1993; 264 per omesso pagamento Irpef anno 2004; 841) per omesso pagamento servizio idrico.
Preso altresì atto che l’Agente per la riscossione non aveva a distanza di oltre si anni introdotto l’esecuzione e, tenuto conto che in sede di vendita del bene gravato da ipoteca il venditore aveva trattenuto una parte del prezzo al fine del pagamento del debito erariale, il ricorrente conveniva in giudizio l’agenzia delle Entrate di Roma 1, l’Agenzia delle Entrate di Roma 2, A. snc, la Regione Lazio, direzione Bilancio Area 5 e l’Inail di Roma chiedendo alla Commissione adita di annullare le cartelle impugnate, disporre la restituzione delle somme eventualmente e medio termine pagate e condannare le convenute al pagamento di una somma a titolo di danni morali o comunque non patrimoniali non inferiore ad Euro 30.000. Nel ribadire che mai alcuna cartella esattoriale o avviso di accertamento o intimazione gli era stato notificato, a sostegno della domanda, contestava anche la tempestiva iscrizione a ruolo dei tributi richiesti invocando l’art. 76 del D.P.R. n. 131/86 per l’imposta di registro, l’art. 57 del D.P.R. n. 633/72 in materia iva, l’art. 43 del D.P.R. n. 600/73 in materia Irpef.
L’Agenzia delle Entrate di Latina, controdeducendo in giudizio sull’eccezione di prescrizione e decadenza nonché sulla tardiva iscrizione a ruolo, rilevava che proprio ai sensi del richiamato art. 76 del D.P.R. n. 181/86 l’avviso di liquidazione della tassa di registro relativo alla sentenza depositata il 15/03/2006 era stato “notificato nel luglio 2007 e l’iscrizione a ruolo era avvenuta nel triennio (21/04/2010. Quanto al difetto di notifica della cartella eccepiva la carenza di legittimazione passiva.
L’Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Roma, costituendosi in giudizio in relazione a 8 delle cartelle di pagamento indicate dal contribuente, in via preliminare eccepiva la carenza di legittimazione passiva per quanto riguardava la notifica della cartella di pagamento. Deduceva anche la violazione dell’art. 19 comma 3 del D.Lgs. n. 546/1992 il quale prevede che ognuno degli atti autonomamente impugnabili può essere impugnato solo per vizi propri. In particolare, per quanto concerne la cartella di pagamento 09720020121969924 di € 1.216,77 faceva presente che la stessa era stata ritualmente impugnata davanti alla CTP di Roma e che il ricorso era stato respinto con Decreto Presidenziale definitivo depositato il 21/02/2011.
Si costituiva in giudizio anche A. spa contestando i rilievi del ricorrente e producendo copia della cartella di pagamento debitamente notificata e opposta dal ricorrente avanti al GdP di Roma. La comparente inoltre eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice tributario.
La Commissione tributaria provinciale di Roma, con sentenza n. 291/37/11 depositata l’il luglio 2011, affermava il difetto di giurisdizione per quanto riguarda il ricorso proposto contro A. spa, nondimeno condannando il ricorrente al pagamento delle spese di lite a favore della convenuta. Dichiarava inammissibile il ricorso proposto nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, Ufficio provinciale di Latina e dell’Agenzia delle Entrate Direzione provinciale 1 di Roma, con condanna alle spese di lite nei confronti delle convenute. Condannava infine il ricorrente al pagamento, ai sensi dell’art. 96, comma 3 del c.p.c., al pagamento di Euro 1.000 a favore di ciascuna parte intimata.
2) Contro questa decisione popone appello l’Avv. R.D.
L’appellante in via preliminare eccepisce l’erroneità e illegittimità della decisione per essere stata dichiarata l’inammissibilità del ricorso a fronte di richiesta, da parte dei due Uffici dell’Agenzia delle Entrate, di declaratoria di carenza di legittimazione passiva. Fa altresì rilevare di aver ottenuto la cancellazione delle ipoteche iscritte da E. spa previo pagamento della somma di Euro 11.670,74.
Deduce comunque la sussistenza della legittimazione passiva delle agenzie erariali e l’ammissibilità del ricorso avanzando istanza di accertamento negativo dei crediti riferiti alle cartelle di cui al ricorso. Quanto alla domanda nei confronti di A. spa, per la quale il giudice di primo grado ha affermato il difetto di giurisdizione, eccepisce l’obbligo della translatio iudicii, anche ai sensi dell’art. 40 epe, con conseguente riforma di quanto disposto in termine di spese di lite. In relazione alle maggiorazioni ex art. 96 c.p.c. contesta le motivazioni poste a fondamento della somma sanzionatoria.
Si costituiscono in giudizio l’Agenzia delle Entrate Direzione provinciale di Latina e l’Agenzia delle Entrate Direzione provinciale 1 di Roma chiedendo il rigetto dell’appello.
Nonostante siano state regolarmente intimate risultano contumaci in questo grado di giudizio la Regione Lazio e l’INAIL.
3) Nel contenzioso tributario il meccanismo d’instaurazione del processo è imperniato sull’impugnazione del provvedimento impositivo volta ad ottenere il sindacato giurisdizionale sulla legittimità formale e sostanziale del medesimo. Il carattere impugnatorio del giudizio comporta che l’indagine sul rapporto tributario è limitata ai motivi di contestazione che il contribuente deve specificatamente dedurre nel ricorso introduttivo. In buona sostanza l’interessato deve indicare quale è l’atto tributario che ritiene lesivo dei propri diritti e specificare le ragioni della sua illegittimità.
La Corte di Cassazione a S.U. con la sentenza n. 16412/2007, richiamata dallo stesso appellante, ha affermato che “la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto della sequenza ordinata secondo una progressione di determinati atti, con le relative notificazioni, destinati con diversa e specifica funzione, a farla emergere e a portarla nella sfera di conoscenza dei destinatari, soprattutto allo scopo di rendere loro possibile un efficace esercizio del diritto di difesa”. Gli atti che in sequenza devono essere notificati al contribuente e che sono autonomamente impugnabili, sono quelli indicati dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/92; elenco che, alla luce della ormai consolidata giurisprudenza, non è da considerarsi tassativo. In particolare sono stati considerati atti impugnabili avanti al giudice tributario anche il preavviso ed il fermo amministrativo nonché l’iscrizione ipotecaria, sottratta questa alla competenza del giudice ordinario. In quanto tutti atti impugnabili autonomamente, il mancato esercizio di impugnativa da parte dell’interessato rende definitivo l’atto, con la conseguenza che quello sequenziale può essere impugnato solo per vizi propri. Ne segue, ad esempio, che una cartella di pagamento, portante la richiesta di quanto iscritto a ruolo dall’amministrazione finanziaria a seguito di avviso di accertamento definitivo, può essere impugnata solo per vizi propri, non essendo possibile rimettere in discussione quanto definitivamente accertato in relazione alla debenza d’imposta.
La richiamata sentenza del giudice superiore stabilisce inoltre “in tale sequenza l’omissione della notificazione di un atto presupposto costituisce vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto conseguenziale notificato e tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta o di impugnare, per tale semplice per tale semplice vizio, l’atto conseguenziale notificatogli, o di impugnare cumulativamente anche l’atto presupposto (non notificato) per contestare radicalmente la pretesa tributaria”. La pronuncia, che peraltro risponde alla logica di dare un ordine al rito processuale, non offre dubbi interpretativi. Laddove un contribuente ritenga di essere leso da un provvedimento di natura tributaria, e ciò per il fatto che gli atti presupposti non gli sono stati notificati, la scelta o di impugnare l’atto lesivo deducendone l’illegittimità per omessa notifica degli atti presupposti, oppure di impugnare congiuntamente l’atto conseguenziale e quelli presupposti invocando la nullità degli stessi per omessa notifica. Quello che certamente non è possibile è impugnare un atto senza il rispetto della conseguenzialità.
Nel caso in discussione l’atto che il contribuente ritiene pregiudizievole è l’avvenuta iscrizione ipotecaria, anche questa a suo dire non notificata, giustificata da omessi pagamenti di cartelle esattoriali (non notificate) portanti somme indebitamente iscritte a ruolo dall’Amministrazione finanziaria in quanto derivanti dal atti impositivi anch’essi non notificati.
Ebbene l’unica impugnativa che era concessa al contribuente era quella contro l’iscrizione ipotecaria effettuata da E.G. spa con l’opzione: di contestare l’omessa notifica dell’iscrizione (impugnazione diretta dell’atto); oppure di contestare l’omessa notifica degli atti presupposti per ottenere la declaratoria di illegittimità dell’iscrizione; oppure di impugnare congiuntamente l’iscrizione e gli atti presupposti (le Cartelle di pagamento e gli atti impositivi) per contestare radicalmente la pretesa tributaria).
Non era dato invece all’odierno appellante di impugnare esclusivamente gli atti presupposti senza impugnare l’atto conseguenziale. Il ricorso originario, non diretto contro l’iscrizione di ipoteca, ma solo contro gli uffici impositori appare pertanto inammissibile. Trattasi di eccezione rilevabile d’ufficio che sostanzialmente conferma, seppur per motivazioni completamente diverse, la pronuncia dei giudici di primo grado.
Appaiono invece parzialmente legittime le eccezioni del contribuente in relazione alle spese di giudizio.
Innanzi tutto, avendo il giudice del grado ritenuto il difetto di giurisdizione nei confronti della cartella di pagamento relativa al credito vantato da A. spa, doveva disporre la remissione al giudice competente a nulla rilevando che avanti a questo fosse già pendente un giudizio. Eventuali eccezioni in tal senso andavano, al caso, risolte in sede di riassunzione. Certamente la CTP non poteva disporre in relazione alle spese, per il principio della translatio iudiccii. La sentenza di primo grado, ferma la legittimità del diniego di giurisdizione, cui segue l’onere per la parte interessata di riassumere il giudizio avanti al giudice ordinario, va invece riformata per quanto riguarda le spese di lite liquidate a favore di A. spa che non sono dovute.
Per quanto concerne le spese liquidate dai giudici di primo grado in applicazione dell’art. 96, comma 3, del c.p.c. a titolo sanzionatorio , esse non appaiono minimamente motivate. L’art. richiamato prevede che, laddove la parte soccombente abbia agito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna oltre che alle spese, al risarcimento dei danni. Va innanzi tutto rilevato che tale richiesta è stata avanzata solo da A. spa e non dai due Uffici dell’Agenzia delle Entrate. Inoltre la richiesta deve essere ristoratrice di un danno che in base ai principi generali deve essere provato. Circa l’affermata natura sanzionatoria della norma, almeno nell’applicazione al processo tributario, essa si innesta in una serie di pronunce dei giudici tributari di primo grado che non sono condivise da questo collegio il quale ritiene di non discostarsi da quanto stabilito in via generale nel processo civile. La Suprema Corte ha costantemente affermato (ex multis Ordinanza n. 21570 del 30/11/2012) che la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata, ex art. 96 3° comma epe, presuppone l’accertamento della mala fede o colpa grave della parte soccombente, non solo perché la relativa previsione è inserita nella disciplina della responsabilità aggravata, ma perché agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sé rimproverabile.
Ma anche a voler accedere alla natura sanzionatoria della norma, non si comprende come essa possa essere applicata, come sostenuto dai primi giudici, per violazione dei principi di buona fede di cui all’art. 10 dello statuto del contribuente che impone regole di trasparenza a carico dell’amministrazione finanziaria.
In concreto, quindi, va ritenuta legittima le sentenza di primo grado nella parte in cui ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso e la condanna alle spese di Euro 500,00 a favore dei due Uffici dell’Agenzia delle Entrate. La sentenza va invece riformata per la parte relativa alle spese liquidate ad A. spa e a quelle ulteriormente liquidate ex art. 96 comma 3 c.p.c. Euro 1.000,00) ai tre convenuti.
4) Il parziale accoglimento dell’appello legittima la compensazione delle spese di questo grado.
P.Q.M.
Accoglie parzialmente l’appello per le motivazioni riportate in premessa. Spese compensate.
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