COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per l’Emilia Romagna sez. 11 – Sentenza n. 2661 depositata il 2 ottobre 2017
FATTO
La controversia trae origine da un avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate di Bologna, sulla base delle risultanze di un p.v.c. della Guardia di Finanza, ha contestato alla MT s.r.l., a fini IVA e per l’anno 2005, l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, per essere la società parte di una cd. frode carosello, in particolare avendo utilizzato le fatture della cartiera I. s.r.l. per un imponibile di oltre 3 milioni di euro: pertanto l’Ufficio ha operato una rettifica della dichiarazione annuale IVA ai sensi dell’articolo 54 comma 4 DPR n. 633/1972, con conseguente recupero a tassazione della somma di ? 613.395,42, oltre interessi e sanzioni. L’avviso è stato impugnato avanti alla CTP di Bologna dalla MT, eccependo sia vizi formali relativi alla mancanza del potere di firma del funzionario ed alla decadenza dalla potestà di accertamento, sia vizi sostanziali relativi all’infondatezza dei rilievi e all’illegittimità del cumulo delle sanzioni.
Ha resistito l’Ufficio. Il ricorso del contribuente è stato disatteso dall’adita CTP, sul presupposto ella correttezza formale e sostanziale dell’accertamento.
Avverso la pronuncia di primo grado ha interposto appello il contribuente, censurando la pronuncia sotto i quattro angoli visuali della illogicità e contraddittorietà della motivazione; della decadenza dalla potestà di accertamento in ragione della non operatività del raddoppio dei termini di accertamento invocato dall’Ufficio; dell’insussistenza di operazioni soggettivamente inesistenti; dell’illegittimità del cumulo delle sanzioni irrogate. E’ stata invece abbandonata ogni contestazione in ordine alla firma del provvedimento.
Costituendosi in giudizio, l’Agenzia ha domandato il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza di primo grado. La controversia, identica a numerose altre relative alle stesse parti e con l’unica diversità derivante dal fatto di avere ad oggetto annualità diverse, è stata discussa in pubblica udienza, così come da richiesta dell’appellante.
L’appellante ha altresì depositato memoria illustrativa ex art. 32 D.Lgs. n. 546/1992.
DIRITTO
a) L’appello è infondato, e va pertanto rigettato.
Invero, con riferimento alla prima doglianza, relativa alla pretesa illogicità e contraddittorietà della sentenza, in ragione del fatto che essa riconoscerebbe “l’insufficienza delle argomentazioni e degli elementi offerti a sostegno della pretesa della resistente Agenzia delle Entrate, ma nonostante ciò accoglie le ragioni di quest’ultima confermando l’avviso impugnato” (pag. 5 appello), è facile replicare che trattasi di contestazione del tutto erronea già in linea di fatto.
In realtà, la sentenza qui appellata in nessun passaggio sostiene “l’insufficienza delle argomentazioni e degli elementi offerti a sostegno della pretesa della resistente Agenzia delle Entrate”; ma anzi, chiaramente indica che l’Ufficio “ha compiutamente e dettagliatamente ricostruito il meccanismo sostanzialmente frodatorio posto in essere dalla ricorrente, tramite numerose società interposte, ed ha parimenti dimostrato l’inesistenza soggettiva delle prestazioni oggetto di contestazione” (pag. 4 sentenza).
Quanto poi al fatto che, secondo l’ appellante, sarebbe “del tutto incomprensibile” il fatto che l’Ufficio stesso riconosce come “le prestazioni siano reali” (pag. 6 appello), deve replicarsi che nessuna incomprensibilità sussiste: viene infatti contestata non già l’inesistenza oggettiva delle prestazioni, bensì l’inesistenza soggettiva, e pertanto “non è qui in discussione la circostanza che un qualche soggetto abbia fornito certe merci all’opponente società, ma il fatto che tali prestazioni siano state rese proprio dal soggetto che ha emesso le fatture contestate” (pag. 5 sentenza). Nessuna illogicità e contraddittorietà è quindi ascrivibile alla pronuncia qui appellata, ciò che comporta il rigetto del primo motivo di appello.
b) Con il secondo motivo (cfr. pagg. 7-21 appello) il contribuente contesta la decadenza dell’Ufficio dal potere di emettere l’avviso opposto, atteso che sarebbe inapplicabile 1’istituto del raddoppio dei termini di accertamento ex artt. 43 comma 3 DPR. n. 600/73 e 57 comma 3 DPR n. 633/1972, posto che lo stesso presupporrebbe una denuncia penale da parte dell’Ufficio prima della scadenza del termine originario, mentre nel caso che qui occupa non ci sarebbe stata una vera e propria denuncia penale e comunque l’eventuale denuncia sarebbe stata posta in essere tardivamente dopo la scadenza del termine di accertamento ordinario quadriennale. La doglianza è però infondata da entrambe le prospettive azionate. Infatti, da un primo angolo visuale, a stretto rigore, ai fini del raddoppio del termine di accertamento nemmeno deve ritenersi necessaria la denuncia penale, posto che, nella formulazione applicabile ratione temporis, l’art. 57 comma 3 DPR n. 633/72 prevedeva il raddoppio dei termini “in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal d lgs. 10 marzo 2000 n. 74”. La disposizione non richiedeva che fosse stata effettuata la denuncia, ma solo che fosse riscontrata una violazione che comporti l’obbligo di denunciare. E già la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 247/2011, aveva chiarito che “l’unica condizione per il raddoppio dei termini è la sussistenza dell’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorga ed indipendentemente dal suo adempimento” (cfr. punto 3.1), ribadendo poi al punto 5.1.2 della pronuncia che “è, perciò, del tutto irrilevante che detto obbligo, come osservato al punto 3.1., possa insorgere anche dopo il decorso del termine ‘breve ‘ o possa non essere adempiuto entro tale termine. Ciò che rileva è solo la sussistenza dell’obbligo, perché essa soltanto connota, sin dall’origine, la fattispecie di illecito tributario alla quale è connessa l’applicabilità dei termini raddoppiati di accertamento”. Infatti, i termini raddoppiati “non costituiscono una proroga di quelli ordinari. Al contrario, sono anch’essi termini fissati direttamente dalla legge, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva (allorché, cioè, sussista l’obbligo di denuncia penale per i reati tributari); pertanto, non può parlarsi di riapertura o proroga di termini scaduti perché i termini ‘brevi’ e quelli raddoppiati si riferiscono a fattispecie ab origine diverse, che non interferiscono tra loro, difatti i termini ‘brevi’ operano in presenza di violazioni tributarie per le quali non sorge l’obbligo di denuncia penale di reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000 e quelli raddoppiati operano, invece, in presenza di violazioni tributarie per le quali v’è l’obbligo di denuncia” (sempre Corte Costituzionale n. 247/2011). Ciò è ulteriormente confermato anche dalla giurisprudenza di legittimità ( cfr. Cass. n. 9974/2015). Di conseguenza e per concludere sul punto, essendo pacifico che trattasi di violazione tributaria per la quale vi è obbligo di denuncia penale di rati previsti dal D.Lgs. n. 74/2000, a nulla rileva che l’obbligo di denuncia sia sorto successivamente al decorso del termine ordinario di notificazione dell’accertamento, ed altrettanto irrilevante risulta la verifica dell’effettivo adempimento dell’obbligo di denuncia. Da un secondo punto di vista, deve in ogni caso e comunque osservarsi che la denuncia è effettivamente intervenuta. A pagina 2 del p.v.c. si legge infatti che il Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Rimini, svolgendo attività investigativa nell’ambito del procedimento penale n. 9486/2011 pendente presso la Procura di Rimini, aveva constatato situazioni di carattere penale che coinvolgevano MT s.r.l., ed aveva quindi trasmesso alla competente Procura delle Repubblica “informativa conclusiva e richieste della p.g. Comunicazione di Notizia di reato ex art. 347 c.p.p.” con nota n. X/2013 del 25/5/2013. Ciò detto, la denuncia ai fini dell’istituto in esame (raddoppio dei termini accertativi), comprende non solo l’atto formalmente previsto dall’art. 331 c.p. che comporta l’obbligo comunicativo da parte del pubblico ufficiale che venga a conoscenza dell’ipotesi di reato fiscale nel contesto della propria attività di servizio, ma, e a maggior ragione, anche quello previsto dall’art. 347 c.p.p. concernente l’obbligo per la polizia giudiziaria di riferire senza ritardo al Pubblico Ministero la notizia di reato acquisita direttamente, ovvero comunicatagli da altri pubblici ufficiali. Infatti, posto che il richiamato art. 331 c.p.p. fa salvo quanto prevede l’art. 347 c.p.p., deve ritenersi che il raddoppio dei termini di accertamento trovi applicazione anche nel caso in cui la notizia di reato sia comunicata all’Autorità giudiziaria direttamente dalla polizia giudiziaria (ad esempio, Guardia di Finanza, in quanto acquisita dalla stessa di propria iniziativa. Irrilevante è poi il richiamo operato dalla difesa dell’appellante ai recenti interventi del legislatore sull’impianto normativo della disciplina del raddoppio dei termini, che hanno portato nel 2015 dapprima a ridurre la portata dell’impianto normativo originario con il D.Lgs. n. 128/2015, per poi pervenire all’abrogazione dell’istituto con la L. n. 208/2015. Infatti, l’art. 1 comma 132 della L. n. 208/2015 fa espresso riferimento agli avvisi di accertamento relativi ai periodi di imposta precedenti a quello in corso al 31 dicembre 2016 che “devono essere notificati” -a partire dal 1 gennaio 2016, data della sua entrata in vigore – entro il termine di decadenza, mentre omette del tutto la menzione degli atti di controllo già notificati alla data della sua entrata in vigore. Dal tenore letterale della disposizione si evince che la L. n. 208/2015 ha quindi inteso modificare le precedenti disposizioni soltanto con riferimento agli atti di controllo relativi ai periodi di imposta precedenti al 2016 che, al 1 gennaio 2016, non siano ancora stati notificati. Gli avvisi di accertamento già notificati alla data di entrata in vigore delle nuove norme rimangono pertanto assoggettati alla disciplina dell’art. 2 del D.Lgs. n. 128 del 2015, ivi incluse le disposizioni che fanno salvi gli effetti degli atti impositivi già notificati al 2 settembre 2015, in vigenza delle precedenti disposizioni, per i quali, pertanto, il raddoppio dei termini per 1 ‘accertamento opera in presenza di violazione che comporti 1’obbligo di denuncia, a prescindere dalla trasmissione o presentazione della stessa entro il termine ordinario dell’accertamento. Ciò, dopo una iniziale divergenza interpretativa nell’ambito della giurisprudenza di merito, è stato definitivamente chiarito dalla Suprema Corte, confermando le pronunce favorevoli all’Amministrazione finanziaria: è stato così statuito che per gli atti impositivi già notificati al 2 settembre 2015, il raddoppio dei termini per l’accertamento opera in presenza di violazione che comporti l’obbligo di denuncia, a prescindere dalla trasmissione o presentazione della stessa entro il termine ordinario dell’accertamento (cfr. Cass. n. 26037/2016 e Cass. n 16728/2016, le cui massime ufficiali recitano: “In tema di accertamento tributario, i termini previsti dagli artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 per l’IRPEF e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’IVA, nella versione applicabile “ratione temporis”, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016 e già notificati, incidano le modifiche introdotte dall’art. 1, commi da 130 a 132, della 1. n. 208 del 2015, attesa la disposizione transitoria ivi introdotta, che richiama l’applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 128 del 2015, che fa salvi gli effetti degli avvisi già notificati”.). Da tale autorevole insegnamento il Collegio non ha motivo discostarsi. Pertanto ed in conclusione sul punto, sulla base delle statuizioni delle menzionate sentenze della Corte di Cassazione, deve ritenersi destituita di fondamento la tesi di parte appellante relativa alla decadenza dal potere accertativo, in quanto nel caso di specie l’avviso di accertamento, emesso per il 2006, è stato notificato in data 23/12/14, sotto la vigenza della norma di salvaguardia fissata dal citato comma 3 dell’art. 2 D.Lgs. n. 128/2015. e) Con il terzo motivo (cfr. pagg. 21-69 appello), la società contesta l’esistenza di operazioni soggettivamente inesistenti, e comunque deduce di non avere avuto contezza dell’esistenza di fatturazioni soggettivamente inesistenti da parte di I.. Sul punto, si osserva che, nei casi di operazioni soggettivamente fittizie di tipo triangolare nelle quali un soggetto (colui che emette la fattura) si interpone tra il reale esecutore della prestazione di servizio o della vendita di beni ed il contribuente, l’onere probatorio a carico dell’Agenzia delle Entrate, “può esaurirsi nella prova che il soggetto interposto è privo di dotazione personale e strumentale adeguata all’esecuzione della prestazione fatturata (è, cioè, una cartiera), costituendo ciò, di per sé, elemento idoneamente sintomatico della mancanza di buona fede del cessionario, poiché l’immediatezza dei rapporti tra i soggetti coinvolti nella frode induce ragionevolmente ad escludere l’ignoranza incolpevole del contribuente in merito all’avvenuto versamento dell’IVA a soggetto non legittimato alla rivalsa né assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta” (Cass. n. 5173/2017 e Cass. n. 24426/2013). Ciò premesso, nella fattispecie de qua assume rilievo il fatto che il contribuente non abbia mai spiegato quanto emergente dal p.v.c., e cioè come fosse possibile acquistare merci da un soggetto come I., senza sedi operative ma solo titolare di un deposito fiscale presso XX (BO), con sede legale presso lo studio del depositario delle scritture contabili, dott. YTY, che ha dichiarato alla polizia tributaria di avere avuto solo rapporti con FR di Bologna, il quale formalmente avrebbe dovuto essere estraneo ad I.. Né la contribuente ha mai spiegato perché la merce, formalmente di proprietà di I., veniva gestita dai fratelli G. (della MT) nei magazzini presi in locazione da FR, senza la presenza di personale riconducibile a I.. Pertanto, il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare il sospetto di una operazione soggettivamente inesistente e a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente (Corte di Giustizia, in C-285/11, Bonik; Corte di Giustizia, in C277/14, Ppuh, par. 50), tenuto conto che la società I. che fatturava a MT le prestazioni, non aveva, né aveva mai avuto, nessun tipo di operatività, era priva di una propria struttura aziendale, di propri automezzi e di personale dipendente, ed era quindi un vuoto schermo giuridico, intestato a prestanomi, creato per alterare la disciplina dell’IVA comunitaria. Deve quindi concludersi che, quantomeno, MT sapeva di partecipare ad una frode carosello, ciò che è di per sé sufficiente a far ritenere legittimo l’accertamento. Più probabilmente, di tale frode carosello MT era addirittura parte integrante e promotore, poiché le intercettazioni telefoniche (pagg. 43 ss. p.v.c.) hanno evidenziato continui contatti tra MG (MT SRL), FR (I. SRL) e MS (cartiere di primo livello), ed hanno evidenziato come G., impartendo ordini a R., controllasse I., trasferendo soldi a R. stesso per il pagamento di fatture inviate da operatori comunitari alle società cartiere. Ne discende che è infondato anche il terzo motivo di appello. d) Con il quarto ed ultimo motivo (cfr. pagg. 69-71 appello), viene invece contestato il cumulo delle sanzioni, derivante dal fatto che sono state irrogate sanzioni sia per l’infedele dichiarazione, sia per l’illegittima detrazione d’imposta, ciò che violerebbe il principio di proporzionalità nella determinazione della sanzione irrogata. In realtà, anche questa argomentazione è destituita di fondamento. Infatti, nel caso concreto l’Ufficio ha correttamente individuato due specifici comportamenti illeciti: l’utilizzo di fatture soggettivamente false, finalizzato ad operare un’illegittima detrazione di imposta, in sede di registrazione e liquidazione dell’Iva da versare periodicamente, sanzionato ai sensi dell’art. 6 comma 6 D.lgs. 471/1997; e la redazione di un’infedele dichiarazione annuale mediante l’indicazione di un’Iva detraibile e, quindi, a credito non spettante, sanzionata ai sensi dell’art. 5 comma 4 D.Lgs. 471/1997. A ciò si aggiunga che, ai fini della determinazione della misura delle sanzioni irrogate con l’avviso di accertamento oggetto del presente giudizio, si rende applicabile l’art. 7 comma 1 D.Lgs. 472/97, che prevede come “nella determinazione della sanzione si ha riguardo alla gravità della violazione desunta anche dalla condotta dell’agente, all’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze, nonché alla sua personalità e alle condizioni economiche e sociali.”. L’applicazione della misura massima delle sanzioni previste è stata ragionevolmente motivata con la partecipazione della ricorrente ad una imponente frode carosello, fenomeno particolarmente insidioso e tale da poter generare gravi ripercussioni sociali. Conseguentemente, l’eccezione deve essere rigettata. e) In ragione di tutto quanto sopra, l’appello va integralmente respinto.
Non vi sono motivi per derogare ai principi generali codificati dagli artt. 15 D.Lgs. n. 546/1992 e 91 c.p.c. in tema di spese di lite, che, liquidate come da dispositivo con riferimento al D.M. n. 55/2014, sotto i minimi tenendo conto che la medesima questione è affrontata in plurime controversie oggi discusse, sono quindi poste a carico del soccombente contribuente appellante ed a favore della vittoriosa Agenzia. Il Collegio, trattandosi di atto dovuto, dà atto che, essendo l’impugnazione stata integralmente respinta, l’appellante è tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi dell’articolo 13 comma I quater DPR n. 115/2002 inserito dall’articolo I comma 17 L. n. 228/2012, norma ritenuta costituzionalmente non illegittima rispondendo alla ragionevole ratio di scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose, e ponendo a carico di chi le pone in essere un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’ apparato giudiziario o della vana erogazione delle limitate risorse a sua disposizione (Corte Cost, 30/5/2016, n. 120).
P.Q.M.
la Commissione Tributaria Regionale di Bologna sez. XI rigetta l’appello; condanna MT s.r.l. a rifondere all’Agenzia delle Entrate le spese di lite del grado, che liquida in ? 10.000 oltre accessori; dà atto che sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma I quater, DPR n. 115/2002.
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