COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per il Lazio sentenza n. 2416 sez. V depositata il 17 aprile 2019
Maggiore imposta – Iscrizione a ruolo – Ipotesi
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con distinti atti di appello, riuniti, reciprocamente notificati, l’Agenzia delle entrate, Direzione Provinciale di Latina, e la società Gruppo B.S. s.r.l. hanno chiesto la riforma della sentenza n. 117/02/15 della Commissione tributaria provinciale di Latina, depositata il 30/1/2015, inerente l’avviso di accertamento n. (omissis)/2013 relativo all’anno 2008, imposte dirette ed Iva, con il quale, a seguito di processo verbale di constatazione, è stato rettificato il valore dei corrispettivi dichiarati dalla società Gruppo B.S. s.r.l. in relazione a cessioni immobiliari.
Quest’ultima ha impugnato in primo grado l’atto lamentando l’illegittimità e l’infondatezza della ripresa a tassazione sulla base delle stime OMI, in quanto presunzioni semplici, non suffragate da altri idonei elementi indiziari, quali non possono reputarsi la presunta antieconomicità rispetto al costo di produzione (calcolata approssimativamente dall’Ufficio e comunque limitata a 3 o 5 cessioni su 32), l’inferiorità del valore di cessione al mutuo attribuito dalla banca (sostanzialmente spiegabile con l’affidabilità dell’impresa), la superiorità dell’importo preso a mutuo da alcuni acquirenti rispetto al prezzo di cessione (ascrivibile ad altri impegni di spesa degli acquirenti e ad ulteriori circostanze dei loro rapporti con le banche e comunque limitata a 3 cessioni su 32). La società osservava che il ricalcolo dei valori sulla base delle stime OMI conduce, peraltro, a valori comunque diversi, per eccesso o per difetto, agli importi dei mutui. La ricorrente ha dedotto, inoltre, la natura di caparra confirmatoria e non di acconto delle somme corrisposte da alcuni acquirenti prima della stipula dei contratti definitivi di compravendita, con conseguente non applicazione degli obblighi di fatturazione, contabilizzazione e versamento Iva (risultando il titolo di caparra dalle ricevute rilasciate dalla società, che i promissari acquirenti avrebbero avuto semmai interesse a far correggere affinché si parlasse di acconto, e non rilevando, in senso contrario, la mancata conservazione da parte della società dei contratti preliminari, in quanto il patto di caparra non richiede necessariamente forma scritta).
L’Agenzia delle entrate ha resistito al ricorso, prospettando un’analisi degli elementi indiziari diversa e, per certi versi, specularmente opposta rispetto a quella delineata dalla ricorrente: valori OMI presi al minimo e adeguati con coefficienti; costi di costruzione semmai sottostimati, con effetti di antieconomicità consistenti; valore del credito erogato non giustificabile con le caratteristiche dell’imprenditore; somme mutuate da alcuni acquirenti in ammontare superiore al prezzo di acquisto dell’immobile; incoerenza fra prezzi di vendita degli immobili; onere del contribuente di dimostrare il fondamento contrattuale della caparra, mentre in caso di incertezza deve ritenersi che la dazione di una somma sia avvenuta a titolo di acconto.
La Commissione provinciale ha accolto parzialmente il ricorso, riducendo del 40% la rettifica operata dall’Ufficio, ritenendo fondati alcuni dei rilievi di quest’ultimo, ma non anche altri.
L’Agenzia delle entrate nel suo appello censura la sentenza per l’apoditticità della decisione e per l’erroneità della stessa a fronte delle deduzioni svolte in primo grado, che vengono riproposte e ribadite; chiede che, riformando la decisione di primo grado, sia dichiarata la validità dell’operato dell’Ufficio relativamente alle imposte, facendo invece acquiescenza all’intrasmissibilità delle sanzioni.
La società, nel proprio appello, censura la sentenza per aver inciso solo parzialmente sull’atto impositivo pur avendo ravvisato la fondatezza di una sola delle presunzioni richiamate dall’Ufficio e per non aver considerato il motivo di ricorso relativo alla qualificazione delle somme come anticipi invece che come caparra confirmatoria; ribadisce la ritenuta inconsistenza degli altri elementi indiziari prospettati dall’Agenzia; deduce, inoltre, la nullità dell’avviso di accertamento per carenza di idonea qualifica dirigenziale in capo al suo sottoscrittore; chiede che, in riforma della sentenza, sia annullata la pretesa fiscale dell’Amministrazione.
Con deposito di controdeduzioni, l’Agenzia ha chiesto il rigetto dell’appello della società, eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza della deduzione relativa alla qualifica dirigenziale e, per il resto, richiamando e riproponendo le argomentazioni del proprio atto di appello.
Anche la società ha depositato controdeduzioni, riproponendo temi e argomenti del suo gravame ed eccependo l’inammissibilità del motivo di appello dell’Ufficio relativo all’incongruenza dei prezzi di alcuni immobili confrontati fra di loro, giacché nuovo.
In udienza sono intervenute entrambe le parti, riportandosi ai rispettivi atti e alle relative conclusioni.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’appello dell’Agenzia delle entrate va respinto, mentre merita accoglimento quello della società.
Va premesso che la censura introdotta nell’appello della società, relativamente alla ritenuta nullità dell’avviso di accertamento per carenza di idonea qualifica dirigenziale in capo al suo sottoscrittore, è nuova rispetto ai motivi del ricorso in primo grado e, pertanto, inammissibile. Così come estranea alla motivazione dell’avviso di accertamento e pertanto inconferente è la deduzione dell’Ufficio inerente l’asserita incongruenza dei prezzi di cessione di alcuni immobili confrontati fra di loro.
Ai fini della decisione, favorevole alla società, risultano dirimenti le seguenti considerazioni.
Le incongruenze evidenziate dall’Ufficio sono in realtà ricorrenti soltanto in un numero esiguo di casi, del tutto minoritario rispetto alle cessioni poste in essere: tre/cinque casi su trentadue. Esse, inoltre, consistono in distonie di modesta entità e/o di opinabile fondatezza.
Per quanto riguarda il raffronto fra costi di produzione e valore di cessione, il differenziale negativo interessa cinque compravendite su trentadue e in due di questi cinque casi risulta di entità assai ridotta (in un caso cinquecento euro circa, nell’altro duemilaquattrocento euro circa). Il calcolo del costo di produzione è, peraltro, contestato dalla società, perché non tiene conto delle porzioni immobiliari comuni e tende, quindi, ad una sovrastima.
Per quel che concerne la maggior consistenza del mutuo chiesto dall’acquirente rispetto al valore dell’immobile dichiarato nell’atto, ciò si verifica in tre casi su trentadue e per importi contenuti. Non può escludersi, inoltre, che in questi pochissimi casi l’acquirente abbia inteso finanziare con il mutuo spese correlate all’acquisto dell’immobile e perciò abbia richiesto somme lievemente superiori al corrispettivo della cessione. La società ha evidenziato, altresì, che l’entità dell’eccedenza delle somme mutuate non corrisponde all’entità dello scarto fra valore di cessione dichiarato e valore di cessione rivalutato dall’Ufficio – posto che in due casi l’eccedenza (pari ad € 8.900,00 ed € 5.944,00) è largamente inferiore alla differenza (pari ad € 30.000) fra valore di cessione rideterminato e valore di cessione dichiarato, mentre in un caso la prima (€ 34.159,00) è ampiamente superiore alla seconda (€ 7.368,00) – sicché non emerge una correlazione economica fra l’una e l’altro.
Quanto all’inferiorità dei valori di cessione rispetto al credito bancario ottenuto dalla società, per un verso si tratta di profilo che, effettivamente, come dedotto dalla società, involge rapporti economico-contrattuali fra imprese che possono rispondere a logiche ed equilibri che trascendono le singole operazioni, per altro verso il raffronto risulta effettuato dall’Ufficio con riguardo a valori di cessione di appartamenti che appartengono a palazzine diverse da quelle alle quali è invece riferibile il credito erogato, sicché non è provata con certezza la pertinenza del rilievo.
Restano le divergenze fra valori dichiarati e valori ricavati dalla banca dati dell’OMI. Ma queste da sole non bastano a suffragare l’accertamento, trattandosi di elemento presuntivo che richiede riscontro in altri elementi indiziari (gravi, precisi e concordanti). La società, inoltre, ha evidenziato che il computo con le stime OMI conduce a valori che, a loro volta, non corrispondono, o per eccesso o per difetto, agli importi dei mutui. Ciò lascia intendere, per un verso, la valenza meramente orientativa delle stime in questione e, per altro verso, l’inattendibilità delle analisi di congruità basate su un raffronto puramente quantitativo fra consistenza del mutuo e valore di cessione.
Non è, infine, giuridicamente fondato l’assunto dell’Agenzia secondo cui le somme corrisposte da alcuni acquirenti prima della stipula dei contratti definitivi di compravendita avrebbero avuto natura di acconto e non di caparra confirmatoria. La pattuizione di quest’ultima non richiede di per sé la forma scritta, non essendo elemento costitutivo del contratto traslativo (cfr. Cass. n. 5158/2012), ed inoltre l’Ufficio non ha fornito elementi per ritenere che le quietanze rilasciate dalla società rechino falsamente l’annotazione relativa al versamento di una caparra. Posto che si tratta di operazioni giuridico-economiche portate a compimento con la stipula degli atti notarili di compravendita, non può essere rilevante neppure la mancata esibizione dei contratti preliminari. Non è, dunque, ravvisabile una situazione di incertezza obiettiva sulla natura del pagamento, che possa giustificare – secondo la giurisprudenza di legittimità richiamata dall’Agenzia, relativa, peraltro, a casi di divergenze fra le parti contrattuali – l’imputazione dei pagamenti ad acconto piuttosto che a caparra. Condivisibile è, altresì, l’osservazione della società concernente l’interesse degli acquirenti a far risultare semmai la natura di acconto del versamento, piuttosto che quella di caparra, date le conseguenze per loro sfavorevoli che quest’ultima comporta in caso di inadempimento del promissario acquirente.
Può dirsi, in conclusione, che l’accertamento tributario in esame, di cui all’avviso impugnato e al presupposto processo verbale di constatazione, si presenta incentrato, secondo quanto sin qui osservato, su elementi presuntivi di non sicura gravità e precisione, perché non certi e non univoci e/o perché relativi ad un’esigua minoranza delle cessioni sottoposte a verifica, sicché esso risulta, complessivamente, non adeguatamente motivato rispetto all’obiettivo perseguito, vale a dire quello di disattendere integralmente i valori di cessione di oltre trenta compravendite immobiliari.
La complessità della fattispecie e l’obiettiva presenza di dati suscettibili di valutazioni diverse giustifica la compensazione fra le parti delle spese processuali anche per questo giudizio di appello, come già in primo grado, tenuto anche conto della sentenza della Corte costituzionale n. 77/2018 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, c.p.c., nel testo modificato dall’art. 13, co. 1, del D.L. n. 132/2014, convertito, con modificazioni, nella L. n. 162/2014, nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni rispetto a quelle tipizzate nella norma del codice processuale).
P.Q.M.
a) rigetta l’appello dell’Agenzia delle entrate e, in accoglimento invece dell’appello della società Gruppo B.S. s.r.l., riformando la sentenza gravata, annulla l’avviso di accertamento impugnato in primo grado;
b) spese compensate.
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