Commissione Tributaria Regionale per la Toscana sezione 21 sentenza n. 1125 depositata il 7 giugno 2018
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Nei confronti della ……… S.p.A. veniva emesso un avviso di accertamento ad opera dell’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Firenze. L’accertamento, fondato sulle risultanze di un processo verbale di constatazione, portava a determinare una maggior imposta IRES per Euro 146.211,00, una maggior IRAP per Euro 18.830,00, una maggior IVA per Euro 58.830,00, conseguentemente all’irrogazione di sanzioni per Euro 219.315,50. La società contribuente proponeva ricorso alla CTP di Firenze, deducendo la “carenza di motivazione per infondatezza di presupposti legislativi in fatto ed in diritto, in particolare, contestava i singoli punti del p.v.c. che avevano dato luogo al successivo accertamento: 1) la rilevata componente negativa del fondo cassa al 2.2.2004 era invece da ritenersi positiva (per Euro 572,58) comunque di entità così inconsistente da non poter condurre ad un giudizio di inattendibilità della contabilità. 2) era infondato il rilievo afferente la presenza di un associato in partecipazione, cui erano riconosciuti utili in misura dell’1 % quale compenso per prestazioni di controllo tecnico e di sicurezza; 3) era erroneo il recupero a reddito (operazione che l’Ufficio aveva qualificato come “rettifica inventariale”) della differenza di 330.862 kg (il ricorso non lo precisava, ma doveva intendersi come la differenza ponderale tra il materiale sottoposto a lavorazione e quello destinato allo scarto), pari ad Euro 251.445,00; sul punto, i funzionari verbalizzanti non avevano compreso che negli scarti di produzione un aspetto preponderante era costituito dall’acqua, acqua che accompagnava il materiale in entrata nello stabilimento della contribuente e veniva poi smaltita allorché il materiale ne era stato liberato; 4) era infondato il recupero a tassazione della minusvalenza di Euro 117.117 relativa alla vendita di un macchinario, dal momento che dalla documentazione esibita in sede di verifica e nuovamente depositata col ricorso, risultava che il macchinario di cui si trattava, acquistato dalla contribuente al prezzo di Euro 139.136,85 e dimostratosi inidoneo per l’uso cui era destinato, era stato poi ceduto ad altra società del medesimo gruppo per un eventuale riutilizzo; 5) quelli afferenti gli affitti passivi costituivano errori di nessuna importanza; 6) in ordine al rimborso dei pedaggi autostradali non allegava alcunché; 7) i rilievi formulati dai verificatori in ordine ai costi accessori agli acquisti ed alle vendite costituivano rilievi formali ed afferivano a rimborsi di spese sostenute dai dipendenti per l’uso del mezzo proprio per recarsi nelle località dove si trovavano i clienti; quegli esborsi erano documentati dalla relative ricevute rilasciate dagli interessati; 8) il recupero dell’IVA di cui alla pag. 26 del p.v.c. si riferiva all’utilizzo di uno schema contrattuale che aveva consentito ad essa contribuente di adattare i locali alle proprie esigenze; 9) l’IVA relativa alle note di variazione per clienti in procedura concorsuale era detraibile, stante la natura trasparente di detta imposta; 10) la spesa di Euro 714,71 per multe sui mezzi di trasporto aveva costituito oggetto di mero errore materiale.
L’Agenzia delle Entrate si costituiva, preliminarmente eccependo l’inammissibilità del ricorso per mancata esposizione dei motivi di censura dell’avviso di accertamento. Nel merito, contestava le doglianze che erano state mosse al p.v.c. e, per conseguenza, deduceva l’infondatezza dei rilievi che per relationem potevano ritenersi riferiti all’avviso di accertamento. Nello svolgere la detta difesa, l’Ufficio esaminava partitamente le censure relative al conto cassa, alla presenza dell’associato in partecipazione, alle scritture ausiliarie di magazzino (qui, in particolare, il resistente Ufficio esaminava la questione degli scarti di produzione e della presenza di acqua nel prodotto in entrata), alle minusvalenze patrimoniali, agli affitti passivi, ai rimborsi dei pedaggi autostradali, ai costi accessori ad acquisti e vendite, alla manutenzione su beni di terzi, alle variazione dell’IVA per i clienti in procedura concorsuale, alle spese per multe sui mezzi di trasporto. La C.T.P. affermava l’ammissibilità del ricorso in quanto tutti i rilievi fiscali erano stati impugnati e motivati. Riteneva altresì che l’avviso di accertamento fosse parzialmente motivato nei suoi elementi essenziali. Riteneva che le rettifiche inventariali non fossero giustificate, perché i verbalizzanti si erano limitati al controllo della documentazione contabile in entrata ed in uscita, senza tener conto della perizia di un tecnico specializzato che era stata depositata dalla società ricorrente. Per tutti gli altri aspetti controversi, affermava il primo giudice che la documentazione fornita dalla contribuente non fornisse prova certa delle tesi sostenute da parte ricorrente. Ritenuti dunque inconsistenti i maggiori ricavi per Euro 251.455,12, limitava a quest’aspetto l’accoglimento del ricorso.
Proponevano separati appelli entrambe le parti. La contribuente si doleva per il mancato accoglimento delle censure non accolte dalla CTP, ad iniziare da quella afferente il conto cassa: il saldo non era negativo, a differenza di quanto ritenuto dall’avviso d’accertamento per farne discendere un giudizio di inattendibilità della contabilità. Ribadiva che il compenso corrisposto all’associato in partecipazione e recuperato a tassazione dall’Ufficio era motivato dalle prestazioni del detto associato, come risultava dal regolare contratto di associazione in partecipazione. Ribadiva, in ordine alle contestate minusvalenze relative alla cessione di una macchina, le argomentazioni già proposte in prime cure. Per gli affitti passivi, ribadiva trattarsi di errori modesti. Stessa ripetizione degli argomenti già spesi in primo grado per i rimborsi dei pedaggi autostradali ed i rimborsi chilometrici, collegati ai costi accessori agli acquisti ed alle vendite. In quanto ai costi sostenuti per la manutenzione degli immobili di terzi, utilizzati per l’esercizio dell’impresa, ribadiva che il relativo contratto rispondeva ad un uso commerciale dei magazzini generali per consentire l’uso dei propri locali. Ribadiva, per l’IVA sui clienti in procedura concorsuale e per le spese per le multe sui mezzi di trasporto, quanto già dedotto in primo grado. Appello incidentale era proposto dall’Agenzia delle Entrate, per ribadire preliminarmente quell’eccezione di inammissibilità del ricorso iniziale per difetto d’indicazione dei motivi di censura (salvo quelli afferenti le scritture ausiliarie di magazzino e le minusvalenze).
Contestava nel merito la sentenza gravata in relazione a quell’affermazione, in essa contenuta e relativa al valore probatorio attribuito alla perizia di parte, prodotta nel corso del giudizio ma non esibita ai verificatori. Questi ultimi avevano bensì chiesto, in corso di verifica, maggiori chiarimenti in ordine al tipo di prodotto o residuo di lavorazione cui fossero ascrivibili i cali evidenziati dalle parte, ma la risposta che era stata fornita non era esaustiva, essendo essa limitata alla deduzione che v’erano cali di lavorazione e presenza di acqua. Ricordava poi l’Ufficio gli elementi a suffragio del rilievo di cui si trattava; in particolare, la stessa relazione del perito di parte aveva riferito che non era possibile determinare le quantità d’acqua presenti negli imballaggi né il valore dell’umidità perduto dal prodotto finito per effetto dell’asciugatura. Osservava ancora l’Ufficio sul medesimo argomento che era la stessa contribuente ad allegare che in media l’umidità sarebbe del 15%, il che avrebbe comportato un residuo di oltre 1000 litri d’acqua al giorno nell’ambito di un impianto che, sempre per affermazione della società appellante principale, non venivano smaltiti per evaporazione ma destinati ad un ciclo chiuso, cioè esclusivamente interno al percorso di lavorazione e non immessi all’esterno. Contestava poi l’Ufficio i punti su cui era fondato l’appello principale. La CTR di Firenze formulava un giudizio lapidario:
gli argomenti della contribuente che concernevano le rettifiche inventariali erano stati valutati attentamente dalla CTP, che parimenti con la dovuta considerazione aveva esaminato la relazione peritale; le altre argomentazioni dell’appellante principale non erano invece suffragate da idonea documentazione. Confermava dunque la sentenza gravata e compensava le spese. Il ricorso per cassazione, proposto in via principale dalla società contribuente, si fondava su di un unico motivo: la sentenza di secondo grado era immotivata, essendosi quel giudice limitato ad affermare la carenza di documentazione adeguata a suffragare le doglianza di essa ….. nonostante il deposito di specifica documentazione; il ricorso incidentale proposto dall’Ufficio era parimenti fondato su di un unico motivo, che faceva rilevare come nell’atto d’appello fosse stata analiticamente confutata la tesi della contribuente relativa ai cali ponderali del prodotto, cali che la contribuente aveva addotto a giustificazione delle rettifiche inventariali. La Corte di Cassazione accoglieva entrambi i ricorsi: il carattere estremamente astratto e generico della sentenza gravata non consentiva di stabilire se le circostanze rappresentate dalla contribuente fossero state apprezzate dalla CTR, il che dava luogo ad un deficit motivazionale di quella decisione; il rinvio operato dalla CTR alla sentenza di prime cure si era fondato esclusivamente al contenuto letterale della perizia, senza peraltro far cenno a quel carattere di opinabilità della stima, ammesso dallo stesso perito, che era stato evidenziato dal ricorso incidentale; anche qui si era dunque verificato un deficit motivazionale. Rimetteva alla CTR di Firenze, altre sezione.
Procedeva alla riassunzione la società contribuente, che riepilogava il precedente iter processuale e ribadiva le ragioni che aveva già proposto quale sostegno all’appello. Si costituiva l’Ufficio, parimenti ricordando lo svolgersi della procedura di verifica iniziale, il contenuto dell’avviso d’accertamento, i pregressi gradi di giudizio e contestando infine le opposte tesi; concludeva per il rigetto del ricorso in riassunzione.
Va esaminata anzitutto quella serie di doglianze, che la società contribuente ha portato col proprio atto d’appello all’intervenuto rigetto, ad opera di questa CTR, dei motivi che erano stati addotti a suffragio dell’iniziale ricorso. Quest’ultimo, com’è stato accennato all’inizio della narrativa, ha riguardato direttamente, più che l’avviso d’accertamento, il p.v.c. che di quell’atto costituiva il fondamento istruttorio. L’Ufficio, con le difese proposte in primo grado, aveva bensì rilevato la questione, senza farne discendere un’eccezione di nullità; nullità che per vero ben potrebbe venir rilevata d’ufficio in ogni grado ma che, in questa sede, parrebbe una forzatura, potendosi intendere (come con ogni probabilità la contribuente aveva inteso) che l’avviso d’accertamento veniva fatto oggetto di ricorso deducendo, per relationem, censure nei confronti del p.v.c. che ne era il presupposto logico indispensabile. Resta tuttavia la circostanza che, ancora nella presente sede, le argomentazioni della parte contribuente sono rivolte a rilievi contenuti, più che nell’avviso d’accertamento, al p.v.c., atto quest’ultimo che non è stato prodotto dalla ricorrente ma dall’Ufficio, con le conseguenze che si diranno appresso. Iniziando dunque dal primo dei rilievi contestati (quello che, nelle difese di entrambe le parti, viene definito come “conto cassa”), occorre rilevare come il p.v.c., alla pag. 8, contesti un errore materiale, l’aver cioè la contribuente appostato quale rimborso spese ad un dipendente l’importo di Euro 1.000,67 anziché quello di Euro 100,67. Da ciò era conseguito, nella prospettazione dell’Ufficio, che il conto relativo alla cassa presentasse, al 2 febbraio 2004, un saldo negativo di Euro 236,85.
La difesa della contribuente è fondata invece sul differente assunto che la rilevata componente negativa del fondo cassa al 2.2.2004 era invece da ritenersi positiva (per Euro 572,58). L’evidente incongruenza tra le due posizioni non può essere superata con la lettura dell’intero processo verbale di constatazione ed in particolare con la pagina n. 9, che dovrebbe essere successiva a quella appena citata ma che non è invece presente nella copia del p.v.c. prodotto in giudizio dall’Ufficio. Ne discende che la censura proposta dall’attuale appellante si dimostra sprovvista di fondamento documentale e va rigettata .
Il secondo motivo riguarda le somme corrisposte come retribuzione a certo Signor ……., con cui la contribuente aveva stipulato un contratto di associazione in partecipazione. Il p.v.c. rilevava che le somme corrisposte al ………. differivano in maniera netta con quanto previsto nel contratto, il quale ultimo aveva riferimento alla partecipazione dell’associato agli utili (previsti in misura dell’1 %, dunque pari ad Euro 4.969,95) ed alle perdite della società, mentre gli importi liquidati erano stati determinati avendo riguardo ai ricavi (in misura di Euro 4.144,00) ed al compenso per la consulenza tecnica di classificazione dei materiali (per Euro 19.358,00); ne discendeva che gli importi corrisposti all’associato dovevano presumersi utili distribuiti al di fuori delle risultanze contabili. Le ragioni di doglianze che sul punto sono state espresse dalla contribuente consistono nell’affermare che all’associato in partecipazione erano state conferite mansioni di controllo tecnico e di sicurezza; queste prestazioni avevano trovato la loro remunerazione (assoggettata a ritenuta d’acconto) nell’ambito del medesimo contratto di associazione in partecipazione. Ciò era perfettamente legittimo, come affermato da Cass. 9264/2007. La tesi che a questo rilievo è stata contrapposta dall’Ufficio consiste nelle deduzione secondo cui, a termini del contratto di associazione in partecipazione, non era prevista e dunque non consentita la corresponsione di compensi che fossero ulteriori rispetto alla quota spettante all’associato; né la giurisprudenza di legittimità menzionata dalla contribuente era in realtà conferente. La lettura degli atti che la contribuente ha allegato al ricorso in appello e, in particolare, dei documenti che corredano il contratto di associazione in partecipazione (la prova documentale del possesso, da parte del ………, del titolo idoneo a svolgere le funzioni di responsabile del servizio di prevenzione e prevenzione, la nomina di lui (comunicata alla ASL ed all’Ispettorato del lavoro) quale responsabile di quel servizio, l’attività svolta dallo stesso ………. in tale veste (parimenti documentata dalla relazione 20 dicembre 1996) costituiscono adeguata dimostrazione documentale della circostanza allegata dalla ricorrente a fondamento del motivo d’impugnazione di cui si tratta. Ne consegue l’accoglimento del motivo in discorso e l’affermazione dell’illegittimità dell’avviso di accertamento, per il ridetto profilo.
L’esame del motivo afferente il recupero a tassazione delle minusvalenze patrimoniali per Euro 117.116,58 necessita della lettura del p.v.c. afferente la questione. In quella sede gli accertatori avevano riferito, in sede di p.v.c., che la minusvalenza di cui si tratta era da ricondurre alla vendita, ad opera della ………. S.p.A. ed in data 23 dicembre 2004, in favore della ………. S.p.A. (depositaria delle fatture contabili dell’odierna appellante) di un macchinario. Detto macchinario era stato acquistato ad opera delle ……… S.p.A., nel 2001, per l’importo di Euro 131.283,34. Il macchinario risultava consegnato all’acquirente in data 30 ottobre 2001 “in conto visione”; parimenti in conto visione era stata consegnata, in data 27 novembre 2001, la tramoggia che lo corredava. La contribuente, in sede di verifica, aveva dichiarato (ciò si legge sempre nel p.v.c.) di essersi avveduta solo successivamente che la consegna era avvenuta in conto visione; che lo stesso macchinario aveva immediatamente mostrato problemi di funzionamento, legati particolarmente alla sicurezza degli addetti alla lavorazione; la macchina era stata comunque utilizzata, con accorgimenti, fino al marzo 2003. Da subito, comunque, era stato avviato un contenzioso col fornitore, contenzioso ancora pendente al momento della verifica; in data 23 dicembre 2004 era stata emessa fattura per la vendita del macchinario alla …….. S.p.A., con l’avvertenza che essendo quest’ultima non estranea alla ….., la cedente avrebbe potuto rientrare in possesso del macchinario ove fosse stato necessario .
In effetti, sempre secondo le dichiarazioni della contribuente, la macchina era rimasta presso la …. in conto deposito. I verificatori ravvisavano nella vendita un’operazione fittizia, dal momento che la cessionaria non svolgeva alcuna attività di produzione e lavorazione di polimeri, il macchinario non era funzionante, era rimasto nei locali della cedente, il contenzioso col produttore del macchinario non era concluso e dunque non si poteva essere certi che avrebbe dato luogo ad una minusvalenza, le parti della cessione avvenuta nel 2004 non erano tra loro estranee. Quell’importo che era stato indicato come minusvalenza era dunque recuperato a tassazione. La tesi proposta dalla contribuente col ricorso in prime cure consisteva nel dedurre che il macchinario si era subito dimostrato inidoneo all’uso cui era stato destinato per difetto dei requisiti di sicurezza, era iniziato in contenzioso col fornitore, poi essa acquirente aveva ritenuto di cedere la macchina ad altra società del gruppo per un eventuale riutilizzo in altri settori; non poteva dunque ravvisarsi un’operazione fittizia. Sempre in primo grado la contribuente aggiungeva, con la propria memoria illustrativa, che il macchinario si era mostrato inadatto per l’uso cui era stato destinato inizialmente ed altresì inadatto anche per triturare materiali più morbidi, quali legno e cartone, cosicché era fermo e non utilizzato; escludeva dunque trattarsi di un conto deposito macchinario. Osserva il collegio che la tesi che la contribuente ha proposto in sede contenziosa contrasta con quanto la stessa società aveva dichiarato in sede d’accertamento; va, ancora, ricordato che per stessa ammissione della contribuente resa in sede di p.v.c. il macchinario è stato utilizzato per anni (lo attesta anche il C.T.U. incaricato nell’ambito del giudizio civile instaurato tra acquirente e produttore della macchina); esso è poi rimasto, nonostante la formale cessione, nella disponibilità della ……… Ne discende che la cessione per prezzo irrisorio (Euro 1.000,00) ad altra società del gruppo, senza il trasferimento del possesso, di un macchinario non perfettamente adeguato ma che per anni era pur stato impiegato, è stata correttamente qualificata dagli accertatori come fittizia ed il relativo motivo di doglianza della contribuente va respinto.
In esito a rilievi contenuti nel p.v.c., l’avviso di accertamento ha recuperato a tassazione gli importi (ritenuti non inerenti) che la contribuente ha indicato come affitti passivi, importi corrispondenti ad Euro 5.134,44 quale canone versato in favore della società …….. (società di cui è legale rappresentante la stessa persona che è legale rappresentante della ……..) per un immobile concesso in uso ad un dipendente della contribuente, nonché Euro 1.026,84 per IVA indebitamente detratta ed afferente quel medesimo bene. In ordine a detta parte del p.v.c. e dell’avviso di accertamento, l’odierna riassumente aveva dedotto, col ricorso introduttivo, che “trattasi di modesti errori di nessuna importanza”. Stessa dizione si legge nel ricorso che era stato proposto alla CTR avverso la decisione di primo grado. Nella presente sede di riassunzione, per questa parte dell’atto impositivo è stata formulata dalla riassumente la deduzione secondo cui si tratterebbe di questioni di modesta entità che ha già ricevuto ampia trattazione avanti alla Commissione Provinciale per cui si chiede che il rilievo venga accolto.
In realtà, come s’è appena detto, alcun rilievo era stato proposto alla CTP; al contrario, quella sintetica allegazione che s’è ricordato equivaleva ad ammettere l’errore che è stato riscontrato dall’Ufficio ed a non proporre rilievi affinché la corrispondente parte dell’atto impositivo venisse dichiarata illegittima. Va conseguentemente disattesa la domanda che, per la prima volta, viene proposta in questa sede di riassunzione.
Con il ricorso introduttivo del giudizio in primo grado, la società contribuente aveva trattato di due temi differenti (rimborso dei pedaggi autostradali e costi accessori alle vendite), che avevano costituito oggetto di rilievo ad opera del p.v.c. e di conseguente recupero a tassazione (nel primo caso di Euro 1.287,15 + Euro 12.281,15, nel secondo di Euro 9.667,68) perché e nel secondo caso perché nel primo caso non era individuabile la missione che era stata rimborsato e l’automezzo personale il cui uso era stato autorizzato, nel secondo caso non era possibile individuare quale fosse stata la persona che aveva usufruito dei pranzi e cene che erano stati spesati. Per tutte queste ipotesi, la contribuente aveva dedotto, avanti al giudice di primo grado, che si trattava comunque di rilievi formali, che l’uso del proprio mezzo di trasporto ad opera dei dipendenti era implicitamente autorizzato e conseguentemente il diritto al rimborso ne conseguiva in automatico; indicava comunque il nominativo dei dipendenti cui era stato affidato un portafoglio clienti da seguire. La contrapposta tesi dell’Ufficio, ribadita anche nel grado presente, non può venir condivisa: una volta che sia stato dato per scontato che quegli esborsi (per rimborsare i dipendenti dell’uso del mezzo proprio per recarsi presso clienti e per intrattenere detti clienti a pranzo od a cena) siano costi effettivamente sostenuti per le finalità anzidette, la mancata individuazione delle singole trasferte (i soggetti che le avevano compiute sono invece determinati; parimenti agevole la determinazione delle località, dal momento che si tratta anche dei pedaggi autostradali) risulta questione risibile ed il diniego al riconoscimento della detraibilità di quei costi è sprovvisto di giustificazione normativa.
La società contribuente utilizzava alcuni immobili di proprietà di altra società (quella società ……… che s’è già vista a proposito della questione afferente la deducibilità degli affitti passivi) in forza di un accordo contrattuale che il p.v.c. ha definito “non avente titolo preciso”) e del quale era fatta menzione in uno scambio di corrispondenza documentato dagli allegati n. 18 al ricordato p.v.c .. Questa serie di documenti definiscono quel rapporto col termine “vuoto per pieno”; e che la contribuente definisce come l’accordo in forza del quale un immobile viene posto a disposizione di una parte (sottinteso, a titolo gratuito). Le spese di manutenzione per uno di questi immobili sono state sostenute dalla conduttrice …….; il relativo costo e la conseguente IVA erano stati portati in deduzione, ma l’Ufficio li aveva recuperati a tassazione, sul rilievo che più che di rapporto di locazione doveva parlarsi di prestazione di servizi, ovvero di messa a disposizione di locali a soggetto diverso dal proprietario. A sostegno di detta tesi nel p.v.c. si era rilevato come nei documenti anzidetti era stata usata la locuzione “vuoto per pieno” in luogo di “locazione” e che la destinazione degli spazi non era stata specificata. In aggiunta a questo, non era stato documentato un accordo che prevedesse l’assunzione dei costi di manutenzione da parte del fruitore del locale. In quanto prestazione di servizi, i relativi costi non erano dunque deducibili. La ricorrente aveva allegato alla CTP che il contratto “vuoto per pieno” costituiva “un contratto tipico dei magazzini generali”, consistente nella messa a disposizione di un locale, con onere per l’utente di adattarlo alle proprie esigenze d’uso; da ciò sarebbe derivato l’obbligo di sostenere i costi di adattamento. Ritiene il collegio che in questa fase giurisdizionale deve presumersi che le parti utilizzino i termini in senso giuridicamente appropriato. Se così è, la locuzione “contratto tipico” ha il senso individuato dalla scienza giuridica per quei contratti che siano specificamente previsti dal codice civile o da leggi speciali. Nel caso concreto, il contratto dei magazzini generali (lo si scrive con le lettere minuscole, perché così in ricorso introduttivo) è un tipico contratto di deposito, tema che non si attaglia alla specie; la locuzione “vuoto per pieno” è utilizzata invece dal gergo giuridico per indicare una modalità di calcolo dei lavori edilizi. In conclusione, alcuna delle espressioni indicate dalla contribuente è idonea a definire un contratto tipico. Ciò significa che quel rapporto va qualificato dall’interprete utilizzando gli elementi di prova che sono disponibili. In particolare, dallo scambio di corrispondenza che è stato allegato al p.v.c. risulta che quel locale fosse stato concesso un uso all’attuale ricorrente in cambio di un prezzo; il che consente di ravvisare (in conformità, del resto, con quanto propone la stessa ricorrente) un rapporto di locazione, che è un contratto tipico regolato, per la parte che qui interessa, dalle norme di cui agli artt. 1576 e 1593 cod. civ .. Quei lavori, il cui costo la ricorrente ha portato in deduzione, non costituiscono ordinaria manutenzione, cui debba essere onerato il conduttore; costituiscono se del caso addizioni, che danno luogo alle obbligazioni di cui al ricordato art. 1593 cod. civ .. ; legittima per conseguenza ne è la ripresa a tassazione.
La società contribuente aveva fornito beni a società poi dichiarate fallite; ha portato il residuo credito parte a perdite su crediti, parte a credito IVA per clienti in procedura concorsuale. L’Ufficio ha ritenuto che da questo operato, di per sé legittimo, non avrebbe tuttavia potuto discendere la variazione consistita nel portare in detrazione i relativi importi finché non fossero state concluse le ridette procedure esecutive concorsuali. Avverso questo rilievo la contribuente, col proprio ricorso alla CTP, ha opposto semplicemente che la natura trasparente dell’IVA avrebbe legittimato il ridetto comportamento. Per contro, l’Ufficio ha ricordato il dato testuale costituito dall’art. 26 del D.P.R. 633/1972, deducendo che quelle variazioni non potevano essere effettuate prima della conclusione della procedura concorsuale. Ricorda in proposito il Collegio, nella consapevolezza che la posizione espressa. dall’Ufficio nel presenta caso è conforme all’indirizzo più generale assunto dal Ministero delle Finanze che, anche dopo la riforma della normativa fallimentare, la variazione in diminuzione è consentita, in casi siffatti, solo dopo la conseguita certezza della rilevata infruttuosità del credito e dunque alla scadenza del termine per le osservazioni al piano di riparto finale oppure, in sua assenza, di quello per opporre reclamo contro il decreto di chiusura del fallimento. La questione ha formato oggetto di pronuncia ancora recente ad opera della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che, con la sentenza 23 novembre 2017, C-246/16, ha affermato l’incompatibilità dell’art. 26, comma 2, del D.P.R. 633/1972 (nel testo antecedente alla legge 28 novembre 2015) con la direttiva europea in materia di Iva laddove tale procedura può durare più di dieci anni (hanno testualmente affermato i giudici europei che “l’art. 11, parte C, paragrafo 1, comma 2, della Sesta Direttiva deve essere interpretato nel senso che uno Stato membro non può subordinare la riduzione della base imponibile dell’IVA all’infruttuosità di una procedura concorsuale qualora una tale procedura possa durare più di dieci anni”. Ricorda ancora il Collegio che con la menzionata legge di stabilità 208/2015 è stata ammessa anche nel nostro Paese che in Italia, come in altri Paesi europei, la detraibilità dell’Iva, in caso di mancato pagamento del prezzo, dalla data di apertura della procedura concorsuale. Tale disposizione si applica, però, solo alle procedure concorsuali avviate successivamente al 31 dicembre 2016, mentre la pregressa disciplina continua a applicarsi alle procedure concorsuali anteriori a tale data. Osserva poi il Collegio che il portato dalle pronunce della Corte Europea non è di diretta applicabilità nel diritto interno, rimanendo necessario il preventivo vaglio del giudice delle leggi, come la Corte Costituzionale non ha mancato di ribadire con l’ancora recente sentenza n.269/2017. In conclusione, va disattesa la doglianza che sul punto la contribuente ha (sia pur nel modo assai succinto che s’è detto sopra) proposto in ordine alla ripresa a tassazione di cui si tratta.
Pacifica, infine, (si utilizza quest’ultimo avverbio nel senso che con il presente rilievo si conclude l’esame del ricorso principale) la questione della ripresa a tassazione delle spese per multe sui mezzi di trasporto: la contribuente ha riconosciuto trattarsi di un errore materiale.
La questione proposta dall’Ufficio anche nella presente sede, questione che aveva già formato oggetto dell’appello incidentale proposto dal medesimo Ufficio avverso la sentenza della CTP e successivamente di ricorso incidentale alla corte di legittimità, è quella che presenta il profilo di maggior importanza economica dell’intera controversia.
Essa ha avuto origine dall’azione degli accertatori, che avevano riscontrato una discrasia contabile tra le quantità di prodotto lavorato, le quantità di scarti di lavorazione e le quantità di prodotto finito. Già in sede di accertamento, ravvisata un’insufficienza nella documentazione che accompagnava i cicli di lavorazione (non esistevano le normali schede di lavorazione, compilate in modo specifico per ciascun singolo processo, ma v’era una semplice indicazione trimestrale dei cali complessivi, senza indicazione della relativa natura), si erano altresì rilevate altre incongruenze (in proposito, pagg. 14-16 del p.v.c.): la differenza enorme tra materiale lavorato, scarti di lavorazione e prodotto finito era stata ricondotta alla presenza di acqua nel materiale in entrata nello stabilimento, poi precisato che si sarebbe trattato di umidità presente nella materia prima ed essiccata nel corso della lavorazione; quest’ultima, invero, si svolgeva a ciclo chiuso, onde non era ipotizzabile una eliminazione dell’acqua residua mediante uno smaltimento (che sarebbe comunque dovuto avvenire non attraverso il sistema fognario ma con modalità speciali e dunque documentato), con la conclusione che l’impianto avrebbe conosciuto (ipotesi ritenuta irrealistica dagli accertatori) un’evaporazione di 1.000 litri al giorno. In sede contenziosa, la parte privata aveva prodotto una relazione tecnica, che aveva costituito uno dei due caposaldi sui quali era stato argomentato l’accoglimento del ricorso per la parte afferente il tema in oggetto: i verbalizzanti si erano limitati al controllo della documentazione contabile (prima censura all’operato dell’Ufficio) e non avevano tenuto conto della perizia (seconda censura). In grado d’appello, l’Ufficio aveva ricordato che i chiarimenti chiesti alla parte in ordine alla documentazione non erano stati forniti e che la relazione peritale presentava tali insufficienze (il tecnico si era limitato ad esaminare, per accertare la presenza di umidità, soltanto quattro campioni di merce ed aveva esplicitamente ammesso che non era possibile determinare con sufficiente precisione la quantità di umidità presente nei cartoni (s’intende, coi quali era imballato il materiale in ingresso nello stabilimento) e la quantità di umidità smaltita, nel ciclo chiuso, mediante evaporazione. Proprio questo mancato esame del motivo di gravame ad opera della CTR (che si era limitata ad un rinvio alla decisione di prime cure) ha poi costituito la ragione per cui la corte di legittimità ha accolto, con rinvio, il ricorso incidentale. Nella presente sede occorre ricordare un dato numerico evidente ed incontestato: al fenomeno dell’evaporazione la società contribuente (che, è opportuno ribadirlo, non ha fornito allo scopo idonea documentazione ma soltanto quella relazione peritale che s’è detta) vorrebbe ricondurre la differenza di circa 1.000 kg di prodotto al giorno. Attese le dimensioni dell’impianto e la sua capacità di effettuare lavorazioni (i dati numerici sono presenti in giudizio e facilmente valutabili), avuto altresì riguardo alla circostanza che si tratta di una lavorazione a ciclo chiuso, quella differenza di 1.000 kg al giorno (già detratti i residui solidi o fangosi dei quali l’Ufficio ha ben tenuto conto) non è configurabili come scarto ma costituisce, con la certezza che proviene anche dalla considerazione della più volte rilevata carenza di documentazione, rettifica inventariale effettuata per adeguare la consistenza di magazzino alle registrazioni contabili, cioè per dissimulare cessioni non risultanti dalla contabilità.
Il presente giudizio si conclude con un parziale accoglimento di entrambi gli strumenti di gravame; la società contribuente è tuttavia soccombente in termini sostanziali, atteso il ben diverso peso economico dei punti che hanno visto prevalere le tesi dell’Ufficio. A quest’ultimo dovranno dunque essere rifuse le spese di lite, che sono liquidate in complessivi Euro 1.000,00, oltre accessori di legge, per ciascuno dei quattro gradi che hanno avuto svolgimento.
In parziale accoglimento dell’appello proposto dalla società contribuente ed in accoglimento dell’appello dell’Ufficio, in parziale riforma della decisione impugnata, dichiara la legittimità dell’avviso di accertamento per ciò che si riferisce ai seguenti punti:
a) conto cassa; b) recupero a tassazione delle minusvalenze patrimoniali; c) recupero a tassazione degli importi per affitti passivi; d) recupero a tassazione delle spese per il locale appartenente a ………….; e) recupero a tassazione dei crediti verso clienti falliti; f) recupero a tassazione delle spese per multe sui mezzi di trasporto; g) recupero a tassazione delle somme ascritte dall’Ufficio a rettifica inventariale. Condanna la società contribuente a rifondere all’Ufficio le spese dell’intero giudizio, liquidate per ciascun grado in Euro 5.000,00, oltre accessori di legge.
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