CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 settembre 2017, n. 21767
Tributi – Cessione di ramo d’azienda – Separata vendita delle merci – Applicazione IVA – Riqualificazione come atto unitario riconducibile alla cessione di ramo d’azienda – Recupero Iva detratta dalla cessionaria
Rilevato che
– l’Agenzia delle Entrate impugna per cassazione la decisione di annullamento dell’avviso di accertamento emesso nei confronti dell’acquirente F. Srl per recupero di indebita detrazione IVA in conseguenza della riqualificazione di una cessione di beni mobili quale cessione di ramo d’azienda, assumendo, con tre motivi, la violazione degli artt. 20, d.P.R. n. 131 del 1986, 1362-1366 c.c. e 19, d.P.R. n. 633 del 1972 (primo motivo) e insufficiente motivazione su fatti controversi e decisivi (secondo e terzo motivo);
Considerato che
– l’Agenzia delle Entrate si duole, in sostanza, che il giudice d’appello abbia ingiustificatamente qualificato come cessione di beni sciolti il negozio traslativo che viceversa l’avviso di accertamento aveva motivatamente qualificato come unitaria cessione di ramo d’azienda, operazione soggetta a imposta di registro ed esclusa da IVA (art. 2, comma 3, lett. b, d.P.R. 633 del 1972);
– va disattesa, preliminarmente, l’eccezione di inammissibilità per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., risultando articolati in termini chiari, univoci e con riferimento alla vicenda concreta sia il quesito di diritto che i momenti di sintesi;
– nel merito, i motivi, da esaminare unitariamente perché strettamente connessi, sono fondati nei termini che seguono;
– nella concreta vicenda la cessionaria (F. Srl) ha acquistato dalla cedente (J. Italia Spa) i due rami d’azienda, costituiti da due esercizi commerciali siti in Ravenna e a Brescia, escluse le merci in rimanenza, le quali sono state tutte separatamente e successivamente acquistate dalla stessa cessionaria, in parte direttamente dalla cedente, in parte attraverso l’interposizione di altra società (C. Spa), partecipata e controllata dalla cessionaria;
– in esito alla complessiva operazione economica, quindi, i due rami d’azienda, ivi comprese le rimanenze, sono transitati dalla J. Italia Spa alla F. Srl, ancorché i distinti passaggi interni siano stati realizzati con separati atti contrattuali;
– la CTR, nel valutare la vicenda, ha considerato il dato strettamente contrattuale e, interpretando la volontà delle parti, ha ritenuto che per i diversi rapporti si applicasse un diversificato regime impositivo; a tale impostazione si contrappone l’Agenzia delle entrate che, ancorandosi al portato dell’art. 20, d.P.R. n. 131 del 1986, reputa che il complesso dei rapporti debba essere soggetto ad una valutazione unitaria;
– giova preliminarmente osservare che, ai fini tributari, l’opera di qualificazione non si esaurisce, necessariamente, nell’esame del solo dato contrattuale ma investe, più specificamente, il fenomeno economico che il rapporto (o i rapporti) mira a realizzare, sì da valutare l’effettiva consistenza dell’operazione e, in caso di pluralità di operazioni, se esse abbiano una medesima “sostanza economica” anche se vi sia una differente “sostanza giuridica”;
– tale indicazione, invero, è esplicitamente e positivamente regolata in numerose disposizioni quali, ad esempio, l’art. 109, comma 8, tuir (v. Cass. n. 11872 del 2017) od anche l’art. 20, d.P.R. n. 131 del 1986 (v. Cass. n. 6758 del 2017); risponde, peraltro, ad un criterio di ordine generale, tant’è che pure in materia di Iva, seppure ciascuna prestazione deve essere normalmente considerata distinta e indipendente, come risulta dall’articolo 1, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva IVA, vi sono tuttavia casi in cui più prestazioni formalmente distinte, che potrebbero essere fornite separatamente e dar così luogo, separatamente, a imposizione o a esenzione, devono essere considerate come un’unica operazione quando non sono indipendenti;
– come infatti ribadito recentemente dalla Corte di Giustizia, 8 dicembre 2016, Stock ’94 Szolgáltató Zrt, C-208/15, una pluralità di prestazioni vanno considerate “un’unica operazione quando due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo sono strettamente connessi a tal punto da formare, oggettivamente, una sola prestazione economica indissociabile la cui scomposizione avrebbe carattere artificioso. Ciò accade anche nel caso in cui una o più prestazioni costituiscono una prestazione principale, mentre la o le altre prestazioni costituiscono una o più prestazioni accessorie cui si applica la stessa disciplina tributaria della prestazione principale. Una prestazione dev’essere considerata accessoria e non principale quando non costituisce per la clientela un fine a sé stante, bensì il mezzo per fruire al meglio del servizio principale offerto dal prestatore” (§ 27);
– la Corte di Giustizia ha precisato ulteriormente che per stabilire se una pluralità di prestazioni costituisca più prestazioni indipendenti o una prestazione unica, occorre “individuare gli elementi caratteristici dell’operazione di cui trattasi”, tenendo conto “dell’obiettivo economico di tale operazione” (§ 29; v. anche Corte di Giustizia 19 novembre 2009, Don Bosco Onroerend Goed, C-461/08, § 39), nonché “dell’interesse dei destinatari delle prestazioni” (Corte di Giustizia, 16 aprile 2015, Wojskowa Agencja Mieszkaniowa w Warszawie, C 42/14);
– tale esito del resto è coerente con il principio, generale, per cui (in specie nei casi, come è quello in giudizio, di imposizione alternativa) il contribuente ha l’obbligo di corrispondere il tributo previsto dalla legge e non quello da lui scelto in base a sue considerazioni soggettive (v. Cass. n. 18764 del 2014) comunque esse siano state tradotte in atti formali;
– da tali premesse consegue, pertanto, che, per identificare la nozione di cessione d’azienda utile ai fini tributari, occorre individuare le disposizioni che a tale operazione sono dedicate;
– l’art. 2, secondo comma, lett. b, d.P.R. n. 633 del 1972, nel testo vigente ratione temporis, invero prevede che “non sono considerate cessioni di beni: …b) le cessioni… che hanno per oggetto aziende o rami d’azienda”; occorre quindi prendere in considerazione la disciplina dell’imposta di registro a cui implicitamente la disposizione rinvia: il mancato assoggettamento all’Iva, difatti, consegue all’applicazione, per queste operazioni, dell’imposta di registro;
– l’art. 20 d.P.R. 131 cit. dispone che “l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici, degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente” e, quindi, considera preminente, nell’imposizione, la causa reale dell’operazione e l’effettiva regolamentazione degli interessi realmente perseguita dai contraenti, e ciò anche se rinveniente in pattuizioni collegate (Cass. n. 1955 del 2015);
– come già precisato dalla Corte, poi, la scelta legislativa di privilegiare la sostanza dell’operazione comporta che “gli stessi concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscano a semplici elementi della fattispecie tributaria”, sicché nella individuazione della materia imponibile ha preminenza assoluta la “causa reale sull’assetto cartolare” (Cass. n. 19752 del 2013; Cass. n. 10740 del 2013 sottolinea altresì “l’indisponibilità della qualificazione contrattuale ai fini fiscali”);
– sono quindi prive di rilievo le questioni relative all’interpretazione dei contratti e all’autonomia negoziale delle parti: ha importanza non cosa le parti abbiano scritto, ma ciò che esse abbiano effettivamente realizzato col complessivo regolamento negoziale adottato, anche indipendentemente dal contenuto delle dichiarazioni rese (Cass. n. 3481 del 2014; Cass. n. 24594 del 2015; da ultimo, in termini ampi, Cass. n. 6758 del 2017);
– quanto alla nozione di azienda, l’art. 51, comma 4, d.P.R. n. 131 del 1986 prevede che “per gli atti che hanno per oggetto aziende o diritti reali su di esse il valore di cui al comma 1 è controllato dall’ufficio con riferimento al valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso l’avviamento ed esclusi i beni indicati nell’art. 7 della parte prima della tariffa, al netto delle passività risultanti dalle scritture contabili obbligatorie o da atti aventi data certa a norma del codice civile, tranne quelle che l’alienante si sia espressamente impegnato ad estinguere e quelle relative ai beni di cui al citato art. 7 della parte prima della tariffa e art. 11 bis della tabella. considera l’azienda, quindi, come oggetto unitario della vicenda traslativa ovvero come unitaria realtà economica, da cui la commisurazione del tributo al “valore complessivo dei beni che la compongono”;
– tale ampia nozione è peraltro coerente con la disciplina comunitaria dell’azienda nel sistema dell’Iva : l’art. 5, numero 8, della sesta direttiva iva (riprodotto dall’art. 19 della direttiva 2006/112/CE) stabilisce che, in caso di trasferimento a titolo oneroso o sotto forma di conferimento ad una società di una universalità totale o parziale di beni, gli Stati membri “possono considerare l’operazione come non avvenuta e che il beneficiario continua la persona del cedente”; la giurisprudenza comunitaria specifica, inoltre, che, a tal fine, il trasferimento di un’azienda o di un suo ramo corrisponde al trasferimento dell’insieme di beni, materiali e immateriali, i quali “complessivamente costituiscono un’impresa o una parte d’impresa idonea a continuare un’attività economica autonoma …” (Corte di Giustizia, 10 novembre 2011, Cristel Schriever, C-444/10, che ha ricompreso nel trasferimento d’azienda, in quanto tale non assoggettabile ad Iva, la cessione dello stock di merci e dell’attrezzatura di un negozio);
– tirando le fila del ragionamento, dunque, nella nozione di cessione d’azienda ai fini tributari assume rilevanza centrale l’elemento funzionale, ossia il legame fra il singolo elemento aziendale e l’impresa, sicché solo in assenza di questo legame il bene potrà essere considerato autonomamente, mentre in caso contrario, l’imposizione non può essere frazionata e l’intera operazione, ossia il complessivo negozio, dovrà essere considerato come cessione d’azienda, indipendentemente dal fatto che il bene sia stato esplicitamente o implicitamente previsto nel negozio giuridico di cessione e dalla genuinità della stessa operazione commerciale (non essendo prevista né richiesta una finalità elusiva);
– va, pertanto, affermato il principio per cui “nella qualificazione di un negozio come cessione d’azienda ai fini tributari, e, dunque, per la determinazione dell’imposta applicabile, assume rilievo preminente la valutazione della complessiva operazione economica realizzata, di cui occorre individuare gli elementi caratteristici alla luce dell’obbiettivo economico perseguito e dell’interesse delle parti alle prestazioni”;
– nella vicenda concreta la motivazione del giudice d’appello si è soffermata sulla clausola pattizia di esclusione delle giacenze, sull’accordo sul ritiro dell’invenduto e l’emissione delle fatture, nonché nell’attuabilità della cessione d’azienda senza le rimanenze, che conserva attitudine all’esercizio dell’impresa
– tuttavia, alla stregua dei principi sopra enunciati, l’imponibilità dell’operazione (e, dunque, l’assoggettamento ad imposta di registro ovvero ad Iva) va determinata attribuendo rilievo preminente agli effetti del negozio, ricercandone la causa reale e gli interessi effettivamente perseguiti dai contraente, piuttosto che alla volontà dichiarata (in particolare v. anche Cass. n. 23584 del 2012);
– orbene, le rimanenze, escluse originariamente dal contratto di cessione d’azienda, sono state tutte cedute (in parte con rapporto diretto tra cedente e cessionario, in parte attraverso l’interposizione di altra società partecipata e controllata dalla cessionaria) e tali beni costituiscono di norma “beni a servizio della impresa” (iscritte iscritte nello stato patrimoniale ex art. 2424 c.c.) e dunque, a tutti gli effetti, beni appartenenti al complesso aziendale (espressamente in termini, Cass. n. 20443 del 2011);
– è, pertanto, indubbio il legame funzionale tra i diversi atti e l’unicità dell’intera operazione;
– il ricorso va, pertanto, accolto e la sentenza va cassata; non essendo necessari ulteriori accertamenti di merito essendo i fatti pacifici in giudizio, va respinto il ricorso introduttivo del contribuente, restando le spese di questo giudizio regolate per soccombenza; vanno invece compensate le spese dei gradi di merito attesa la peculiarità della questione controversa;
P.Q.M.
In accoglimento del ricorso cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente. Condanna la parte soccombente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 7.500,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Compensa le spese dei gradi di merito.