CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 gennaio 2018, n. 2
Incentivo all’esodo – Alternativa in relazione al programmato trasferimento di dipendenti dalla sede – Missiva erroneamente indirizzata al lavoratore – Soggetto non coinvolto nel piano di outplacement – Pretesa creditoria insussistente
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di ROMA con sentenza n. 2708 del 24 marzo – 27 luglio 2011, in riforma della pronuncia n. 2931/07, impugnata dalla convenuta soccombente S.I. S.r.l. contro l’attore M.R., all’esito della ammessa ed espletata prova testimoniale rigettava la domanda di costui, volta al pagamento della somma di 135.235,25 euro oltre accessori a titolo di incentivo all’esodo, pari a trenta mensilità della retribuzione, in base a missiva di parte datoriale in data 5 dicembre 2003 (a seguito di pregressi accordi sindacali), contenente varie proposte alternative in relazione al programmato trasferimento di vari dipendenti dalla sede di Roma a quella di Milano, cui il dipendente aveva dichiarato di aderire come da lettera di gennaio 2004, non accettando quindi il trasferimento e senza perciò accettare neanche la possibilità di altra sistemazione lavorativa presso aziende partener di S. localizzate in quel di ROMA.
Secondo la Corte di Appello, la pretesa creditoria azionata dal lavoratore era infondata, poiché l’anzidetta missiva risultava erroneamente indirizzata al M., che invece era stato assunto, con decorrenza dal primo febbraio 2004, a Roma, dalla società F. del gruppo S. per intervento di quest’ultima, risultando in proposito attendibili le dichiarazioni rese dal teste C., a differenza di quanto dichiarato dalla teste C., considerato inoltre che l’onere probatorio circa le modalità di tale nuova assunzione erano a carico del dipendente, essendo il M. tenuto a dimostrare il reale svolgimento dei fatti e che quindi la sua assunzione da parte della F. non rientrasse nel prospettato piano di outplacement. Per contro, era da ritenersi provato che ciò avvenne in base ai pregressi rapporti tra le due società, per cui il M. era stato già distaccato presso la F., sicché quando già erano sicuramente in corso i contatti per tale assunzione il lavoratore aveva cercato in qualche modo di approfittare dell’errore, consistito nell’invio da S. della lettera, per ricevere anche l’incentivo, che non gli era comunque dovuto, essendosi di fatto già realizzata, anche se non del tutto perfezionata, una celle ipotesi alternative previste dall’accordo sindacale, che del resto non indicava alcun termine per la sua realizzazione.
Avverso l’anzidetta pronuncia di appello ha proposto ricorso per cassazione M.R. con atto in data 23 – 24 gennaio 2012, affidato a quattro motivi, cui ha resistito S.I. S.p.A. mediante controricorso del 1 marzo 2012.
Le parti, in seguito, hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente ha lamentato omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio, laddove la Corte distrettuale aveva affermato che l’onere della prova sarebbe stato in capo al M., nonché violazione e / o falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c..
Con il secondo motivo il ricorrente ha lamentato omessa e / o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, laddove la Corte di Appello aveva esaminato con una erronea valutazione il testo di un documento (accordo sindacale del 30 settembre 2003), ignorando il significato delle parole scritte nel passaggio più rilevante dell’atto, indicendo un evidente vizio della decisione oltre che della motivazione. Di conseguenza, S.I. avrebbe potuto favorire o una soluzione con un semplice distacco presso una società terza partener (mentre esso ricorrente era stato invece assunto il primo febbraio 2004 da F.), ovvero una “soluzione consensuale” presso una società partner di S.. Quindi, stante l’assunzione di febbraio 2004 presso F. I.C., l’ipotesi astrattamente possibile con riferimento specifico all’accordo sarebbe stata necessariamente quella dell’assunzione presso partner di S. con soluzione consensuale, donde la necessità di un accordo tra il vecchio datore di lavoro S.I., il nuovo datore F. e lo stesso M.. Per contro, secondo la Corte di Appello, risultava provato che l’attore entrò in contatto con la F. sulla base dei pregressi rapporti tra quest’ultima e la S. e non già per una mera iniziativa personale. Di conseguenza, la Corte capitolina aveva ignorato il testo del decisivo passaggio deI documento, in cui si parlava espressamente di una soluzione consensuale, quindi con la necessaria partecipazione all’accordo dei tre soggetti coinvolti. Il vizio, inoltre, era decisivo, perché mancava agli atti qualsivoglia evidenza sul verificarsi di una soluzione consensuale nel passaggio di M. in F. ed anzi vi era la prova che egli quel posto se lo era trovato da scio.
Con il terzo motivo il M. si è doluto di omessa e /o insufficiente e/o illogica e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio, avendo la Corte; territoriale motivato omettendo le risultanze della prova per testi (in particolare, omessa disamina di molte delle risultanze della prova testimoniale, con conseguente vizio nella motivazione adottata e decisione in senso difforme da quanto la Corte avrebbe fatto se avesse disaminato le medesime risultanze: i vari non ricordo di cui alla testimonianza resa 10 giugno 2010 da E. C., capo del personale S.I., a fronte di quanto dichiarato dalla teste C., secondo cui l’attore si rivolse spontaneamente a F. per l’assunzione, assunto da quest’ultima a seguito di un’apposita selezione e l’unico degli uffici amministrativi di S. ad essere assunto in F.).
Infine; con il quarto motivo il ricorrente ha censurato l’impugnata pronuncia per omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, laddove la Corte di Appello, travisando gli esiti delle risultanze istruttorie (deposizioni testimoniali C. e C.) aveva valutato erroneamente il verificarsi delle ipotesi di cui all’accordo, nonché omesso la disamina di due documenti sul termine di scadenza dell’opzione, ossia la lettera di S.I. a! M. con l’offerta in data 5 dicembre 2003 e la missiva dello stesso M. in data 9 gennaio 2004, con esplicita negazione di qualsivoglia soluzione consensuale e l’esercizio dell’opzione per le 30 mensilità, pervenuta a S. il 19 gennaio 2004, mai riscontrata da quest’ultima. Peraltro, il termine per rispondere a S.I. con l’adesione alla proposta, inizialmente fissata 9 gennaio 2004, era stato in seguito prorogato al 21 gennaio 2004 come da accordo sindacale del 19 dicembre 2003 (documento cinque fascicolo di parte attrice di primo grado), anche esso evidentemente sfuggito all’esame della Corte distrettuale.
Le anzidette doglianze vanno disattese in forza delle seguenti considerazioni.
Ed invero la pretesa creditoria, così come prospettata da parte attrice, appare comunque infondata.
Infatti, il M. invoca l’incentivo all’esodo sulla scorta della sua asserita accettazione, di cui alla propria missiva in data 9/19 gennaio 2004, relativamente alla proposta ricevuta da parte datoriale come da lettera di S.I. in data 5 dicembre 2003, donde l’ipotizzata formazione di consenso contrattuale in ordine al rivendicato incentivo.
Sta di fatto che l’anzidetta accettazione di gennaio 2004 non appare ad ogni modo conforme alle preferenze per cui la società aveva chiesto, con la missiva di dicembre 2003, al dipendente di esprimersi (in vista del trasferimento della sede della direzione amministrazione finanza e controllo a Milano, <<con decorrenza dall’inizio del prossimo anno>>), tra le ipotesi definite dall’accordo sindacale in data 30 settembre 2003 di cui all’allegato A, espressamente accluso alla lettera con altri due documenti, B e C, contrassegnando quella scelta: A) trasferimento volontario…; B-1) piano di ricollocazione presso altre aziende del gruppo – outplacement – sul territorio romano, unitamente all’erogazione di un importo a titolo di incentivo all’esodo pari a 24 mensilità; B-2) INCENTIVAZIONE all’ESODO, per cui a fronte della risoluzione contestuale del rapporto di lavoro, senza il ricorso all’outplacement, sarebbe stato riconosciuto un importo a titolo di incentivo pari a trenta mensilità di stipendio netto; CONTATO CENTER; OUTSOURCING (tanto in base a quanto enunciato testualmente dal ricorrente).
Orbene, l’anzidetto accordo sindacale del 30 settembre 2003, espressamente richiamato ed allegato altresì nella nota del 5 dicembre 2003 (riportato alle pagine 36 / 38 del ricorso), prevedeva, tra l’altro, l’impegno dell’azienda a promuovere, in alternativa alle altre possibilità ivi contemplate, un <<piano di incentivazione all’esodo e ricollocazione territoriale rivolto ai lavoratori non disponibili al trasferimento, i quali potranno accedere ad una risoluzione consensuale incentivata del rapporto di lavoro, mediante erogazione di una somma pari a 24 mensilità nette, comprensive dell’indennità sostitutiva del preavviso, previa sottoscrizione in sede sindacale di transazioni individuali ex art. 2113 c.c..
In aggiunta a detto trattamento, sarà implementato un piano di ricollocazione territoriale (outplacement) …>>.
Senonché, a tale proposta faceva seguito nel successivo mese di gennaio la comunicazione, scritta, del M., che, richiamando la lettera del 5 dicembre 2003, nonché l’accordo del 30 settembre, rappresentava di aderire alla risoluzione contestuale del rapporto di lavoro, senza il ricorso all’outplacement, rassegnano quindi le sue dimissioni anche in considerazione del fatto di non aver raggiunto alcuna soluzione consensuale in merito ad altra collocazione lavorativa presso società terze, partner di S. localizzate in Roma o presso altre sedi del gruppo S., informando altresì che dal primo febbraio 2004 non sarebbe già stato alle dipendenze della Società.
Pertanto, tali dimissioni (atto unilaterale recettizio, pervenuto alla società il 19 gennaio 2004), peraltro neanche corrispondenti alla contestualità di cui alla missiva del 5 dicembre 2003, non risultano conformi alla precedente proposta, che faceva riferimento, invece, alla risoluzione, evidentemente consensuale, occorrente pure in base al testo del connesso ed allegato accordo sindacale 30 settembre 2003, più volte richiamato. Ne deriva che non può ritenersi concluso il contratto, nei sensi auspicati dal ricorrente, però diversamente disciplinati dall’art. 1326 c.c. (segnatamente, poi, in base all’ultimo comma, secondo cui un’accettazione non conforme alla proposta equivale a nuova proposta).
Dunque, non vi è stata la necessaria e prevista risoluzione consensuale (ossia il mutuo consenso per lo scioglimento del rapporto), che andava per di più formalizzata con apposite transazioni individuali ex art. 2113 c.c., in ambito sindacale (donde l’insufficienza anche del mero scambio epistolare, secondo lo schema codicistico di cui all’art. 1326 e ss. c.c., occorrendo evidentemente la partecipazione di altri soggetti ex artt. 410 e ss. o 420 c.p.c.), sicché difetta il fatto costitutivo del preteso incentivo, insussistente per le conclamate dimissioni, per giunta rassegnate non contestualmente alla loro comunicazione, ma oltre il termine assegnato (09-01-2004) dalla proponente con la lettera del 5 dicembre 2003 e con effetti altresì differiti, rispetto anche al preannunciato trasferimento di sede (inizio anno 2004).
Pertanto, una volta dimessosi e reperita, autonomamente (come sostiene lo stesso attore – ricorrente), altra occupazione di lavoro, dal primo febbraio 2004, senza alcun intervento della sua ex datrice di lavoro, S.I., nulla può rivendicare fondatamente il M. nei confronti della società convenuta, attuale controricorrente, in base a quanto a suo tempo da quest’ultima propostogli con la lettera del 5 dicembre 2003 e del connesso accordo sindacale 30 settembre 2003.
A nulla rilevano sul punto le obiezioni sollevate dal ricorrente con la sua memoria ex art. 378 c.p.c. (pg. 23 – 25), in relazione a quanto dedotto al riguardo nel controricorso (pagine 22 e 23), laddove tra l’altro in tale memoria illustrativa il ricorrente (pag. 24) richiamando la proposta di S. in data 5 dicembre 2003 parla di risoluzione <<consensuale>> (non già contestuale, come invece indicato nel ricorso al riguardo), pienamente dunque in conformità al richiamato ed allegato accordo sindacale del 30-09-2003, che non poteva quindi dirsi affatto superato al riguardo, attesa la necessaria previa stipula di conciliazioni individuali in sede sindacale, attraverso le quali sarebbe stato definita appunto la risoluzione consensuale. Ne consegue che la risoluzione consensuale si appalesa antitetica alle unilaterali dimissioni, per contro rassegnate in data 9/19 gennaio 2004.
Né assume, ovviamente, rilevanza alcuna in questa controversia il fatto che ogni altro diritte – (eventualmente spettante) a favore del M. risulti ormai estinto per prescrizione (ovviamente previa relativa eccezione di parte).
Nemmeno è significativo il fatto che a seguito delle anzidette dimissioni S. abbia osservato un comportamento silenzioso, non riscontrando le successive istanze scritte del ricorrente, per il semplice fatto che, come già detto, la missiva del 9/19 gennaio 2004 con relative dimissioni non corrispondeva esattamente alla proposta del 5-12-2003, nei sensi occorrenti ex art. 1326 c.c., di guisa che parte datoriale, una volta cessato il rapporto per effetto di tali dimissioni, immediatamente operative una volta portate a conoscenza della società il 19 gennaio, ancorché con decorrenza 1-2-2004, non aveva più alcun dovere giuridico di riscontrare le istanze ex adverso avanzate (se non in ordine al conseguente t.f.r., di cui però non si controverte nella causa de qua).
Né occorreva un ricorso incidentale al riguardo, essendo lo stesso inammissibile per difetto di interesse processualmente apprezzabile della società, in quanto risultata del tutto vittoriosa all’esito del giudizio di merito (cfr. tra le altre Cass. lav. n. 658 del 16/01/2015, secondo cui è inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa in appello e diretto solo ad incidere sulla motivazione della sentenza impugnata. In senso conforme, id. n. 7057 del 24/03/2010, secondo la quale in tal caso alla sola modifica della motivazione della sentenza impugnata è possibile rimediare mediante correzione ottenuta tramite la semplice riproposizione delle difese nel controricorso o attraverso l’esercizio del potere correttivo attribuito alla Corte di Cassazione dall’art. 384 cod. proc. civ. Conformi, Cass. nn. n. 3654 e 6631 del 2006, nonché 6519 del 2007.
V. altresì Cass. lav. n. 21652 del 14/10/2014: deve ritenersi assorbito l’esame del ricorso incidentale nell’ipotesi in cui venga dichiarato inammissibile il ricorso principale avverso una sentenza di rigetto nel merito, in quanto l’interesse a proporre il ricorso incidentale sorge solo con la soccombenza e non è configurabile con riguardo ad un ricorso volto ad ottenere un “minus” – pronuncia di inammissibilità della domanda avversaria – rispetto alla sentenza impugnata, ovvero una mera modifica della motivazione.
V. ancora, più recentemente, Cass. I civ. n. 4472 del 07/03/2016, secondo cui il ricorso incidentale per cassazione, anche se qualificato come condizionato, presuppone la soccombenza e non può, quindi, essere proposto dalla parte che sia risultata completamente vittoriosa nel giudizio di appello).
Invero, poi, questa Corte ha già in diverse occasioni affermato il principio in virtù del quale il giudice ha sempre l’obbligo di rilevare d’ufficio l’esistenza di una norma di legge idonea ad escludere, alla stregua delle circostanze di fatto già allegate ed acquisite agli atti di causa, il diritto vantato dalla parte, e ciò anche in grado di appello, senza che su tale obbligo possa esplicare rilievo la circostanza che in primo grado le questioni controverse abbiamo investito altri e diversi profili di possibile infondatezza della pretesa in contestazione e che la statuizione conclusiva di detto grado si sia limitata solo a tali diversi profili, atteso che la disciplina legale inerente al fatto giuridico costitutivo del diritto è di per se sottoposta al giudice di grado superiore, senza quindi che vi ostino i limiti dell’effetto devolutivo della proposta impugnazione (cfr. in tal sensi Cass. sez. un. civ. n. 10933 del 7/11/1997 ed analogamente si è pronunciata tra l’altro la II sez. civile di questa con l’ordinanza n. 7789 del 05/04/2011, precisando altresì che l’interposto gravame, pur limitato all’esame delle sole questioni oggetto di specifici motivi d’impugnazione, si estende ai punti della sentenza di primo grado che siano, anche implicitamente, connessi a quelli censurati, derivandone che non viola il principio del “tantum devolutum quantum appellatum” il giudice di appello che fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte; dall’appellante nei suoi motivi, ovvero esamini questioni non specificamente da lui proposte o sviluppate, le quali però appaiano in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi, e come tali comprese nel “thema decidendum”.
Del resto, il giudice ha comunque il dovere di rilevare di ufficio la mancanza del fondamento giuridico della domanda giudiziale – ex plurimis Cass. I civ. n. 695 – 11/03/1966 ed altre di segno conforme).
In tale contesto, dunque, va evidenziato, in ragione della funzione nomofilattica affidata a questa S.C. dall’ordinamento, nonché dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111, comma 2, Cost., il potere, alla stregua di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione, anche a fronte di un “error in procedendo”, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, pur quando si tratti dell’implicito rigetto della domanda perché erroneamente ritenuta assorbita, sempre che la questione non richieda ulteriori accertamenti in fatto, nell’ipotesi in cui il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame (cfr. al riguardo la recente pronuncia di Cass. sez. un. civ. n. 2731 del 02/02/2017, in senso conforme Cass. I civ. n. 28663 del 27/12/2013, nonché Cass. lav. n. 23989 – 11/11/2014, Cass. V civ. n. 16157 del 03/08/2016.
Parimenti, v. Cass. II civ. n. 2313 – 01/02/2010: alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo, come costituzionalizzato nell’art. 111, comma secondo, Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 cod. proc. civ. ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di Cassazione può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito, allorquando la questione di diritto posta con il suddetto motivo risulti infondata, di modo che la pronuncia da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello -determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito – sempre che si tratti di questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto.
Similmente, v. altresì Cass. V civ. n. 8622 del 30/05/2012, secondo è consentito alla Corte decidere nel merito, ai sensi dell’art. 384, comma secondo, cod. proc. civ., una questione di diritto che non richieda nuovi accertamenti di fatto, anche quando essa – ritualmente prospettata sia in primo che in secondo grado – sia stata totalmente ignorata dai giudici di merito. In tale eventualità, infatti, non solo non vi è stata alcuna limitazione al contraddittorio ed al diritto di difesa, ma la perdita per le parti di un grado di merito è compensata dalla realizzazione del principio costituzionale di speditezza, di cui all’art. 111 Cost..
V. ancora, Cass. II civ. n. 8561 del 12/04/2006, circa il doveroso uso del potere di correzione della motivazione della sentenza, integrando la decisione di rigetto mediante l’enunciazione delle ragioni di diritto che sostengono il provvedimento opposto, senza necessità di rimettere la causa ad altro giudice affinché dichiari infondato il motivo non esaminato).
Per altro verso, poi, le anzidette doglianze svolte da ricorrente appaiono ad ogni modo inconferenti, sicché vanno disattese, risultando comunque corretta la decisione di rigetto della domanda, alla luce altresì delle diverse considerazioni che precedono.
Ed invero, quanto al primo motivo, non vi è dubbio che l’attore era comunque onerato, ex art. 2697 c.c., della prova in ordine ai fatti costitutivi del diritto da egli vantato, indipendentemente dalla valutazione di merito degli elementi all’uopo offerti, il cui concreto apprezzamento spetta e spettava comunque al giudice competente.
Infatti, mentre la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ., configurabile soltanto nell’ipotesi in il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma, integra motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la censura che investe la valutazione (attività regolata, invece, dagli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.) può essere fatta valere (ma nei limiti rigorosamente consentiti dalla norma di rito) ai sensi del numero 5 del medesimo art. 360 (Cass. III civ. n. 15107 del 17/06/2013. V. in senso analogo ancora Cass. n. 19064 del 05/09/2006, ed altre, secondo cui, in particolare, la violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. si configura soltanto nell’ipotesi che il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche: quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere.
Cfr., peraltro, Cass. lav. n. 13960 del 19/06/2014 – conforme Cass. n. 26965/2007 – secondo cui la deduzione della violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. è ammissibile ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria -come, ad esempio, valore di prova legale – nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è consentita ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.. Ne consegue l’inammissibilità della doglianza che sia stata prospettata sotto il profilo della violazione di legge ai sensi del n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ.).
Quanto, poi, al c.d. vizio di motivazione, l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, prevede l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione”, come riferita ad “un fatto controverso e decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico – naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate (Cass. V civ. n. 21152 – 08/10/2014.
V. altresì Cass. IlI civ. n. 17037 del 20/08/2015, secondo cui il riferimento – contenuto nell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (nel testo modificato dall’art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, applicabile “ratione temporis”) – al “fatto controverso e decisivo per il giudizio” implicava che la motivazione della “quaestio facti” fosse affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che fosse tale da determinare la logica insostenibilità della motivazione.
Cfr. inoltre – Cass. I civ. n. 17761 08/09/2016, secondo cui il motivo di ricorso con cui, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., come modificato dall’art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006, si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, deve specificamente indicare il “fatto” controverso o decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente, dovendosi intendere per “fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso e decisivo.
Conforme Cass. n. 2805 del 2011).
Orbene, le doglianze mosse dal ricorrente appaiono inammissibili, poiché si traducono in effetti in apprezzamenti delle acquisite risultanze istruttorie, diversamente da quanto accertato e valutato, con sufficiente e lineare argomentazione, dalla Corte di merito in proposito; ciò che non è consentito in sede di legittimità, nemmeno sotto la vigenza del precedente testo dell’art. 360 n. 5 c.p.c. (“per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”), poi sostituito dall’art. 54, D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr., tra le altre, Cass. I civ. n. 16526 del 05/08/2016, secondo cui in tema di ricorso per cassazione per vizi della motivazione della sentenza, il controllo di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.
V. altresì Cass. sez. 6 – 5, n. 91 del 7/1/2014, secondo cui la Corte di Cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, né porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n. 5024 del 28/03/2012. V. ancora Cass. I civ. n. 1754 del 26/01/2007, secondo cui il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti. Conforme Cass. n. 3881 del 2006. V. pure Cass. n. 7394 del 26/03/2010, secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione. In senso analogo anche Cass. n. 6064 del 2008 e n. 5066 del 5/03/2007. Similmente, v. altresì Cass. lav. n. 2272 del 02/02/2007, secondo cui il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poiché, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame -al fine di confutarle o condividerle- tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse. Parimenti Cass. sez. un. civ. n. 5802 – 11/06/1998: il vizio di omessa o insufficiente motivazione, ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., sussiste soltanto se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione).
Pertanto, nei sensi anzidetti il ricorso va respinto, con conseguente condanna della parte rimasta soccombente al rimborso delle relative spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida, a favore della società controricorrente, nella misura di euro 5000,00 (cinquemila/00) per compensi professionali ed in euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge
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