Cassa Nazionale del Notariato – Indennità di maternità – Reddito professionale
Fatti di causa
Con ricorso al Tribunale di Sondrio in data 8.6.2006 il notaio M. B. M. agiva nei confronti della Cassa Nazionale del Notariato chiedendo condannarsi la cassa – previo accertamento della inadeguatezza della misura della indennità di maternità erogatale nell’anno 2004, in quanto non proporzionata al suo reddito e pertanto non conforme ai parametri costituzionali e comunitari – al pagamento di una somma pari all’80% del reddito, in proporzione dei cinque mesi della maternità ed, in subordine rapportata al reddito medio dei notai iscritti alla cassa, oltre accessori.
Il Tribunale, con sentenza del 264-18.5.2007 (nr. 47/2007), rigettava la domanda.
La Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 19.11.2009-18.1.2010 ( nr. 1046/2010), rigettava il gravame della M..
La Corte territoriale rilevava che le doglianze dell’appellante erano fondate sulla dedotta contrarietà dell’articolo 1 legge 289/2003, nella parte in cui introduceva un limite massimo alla indennità di maternità di cui all’articolo 70 D.Lgs. 151/2001, ai principi costituzionali, in quanto la indennità liquidatale non era idonea ad assicurare il mantenimento dell’abituale tenore di vita nonché a coprire le spese per la gestione ordinaria della attività lavorativa nel periodo di astensione. L’appellante altresì lamentava che la Cassa, con l’articolo 4 dello Statuto, aveva recepito il tetto legale massimo senza esercitare la facoltà di elevarlo in ragione delle capacità reddituali della categoria professionale.
Sul primo punto la previsione dell’articolo 70 D.Lgs. 151/2001 era conforme ai principi costituzionali degli articoli 31 e 32.
La indennità di maternità non era posta a garanzia del reddito ma aveva lo scopo di evitare il realizzarsi di situazioni gravemente pregiudizievoli quali lo stato di bisogno, la sostanziale menomazione economica, la radicale diminuzione del tenore di vita; la misura massima della prestazione legislativamente fissata, pari a cinque volte l’importo minimo, sebbene non paragonabile alla capacità reddituale di un notaio era un supporto economico idoneo a garantire la tranquillità della madre.
La dott. M. non aveva allegato alcun elemento di prova circa l’insorgere di effettivi ostacoli allo svolgimento del proprio ruolo materno sotto il profilo di un rilevante pregiudizio al proprio tenore di vita; il suo reddito professionale dal 2002 al 2004,anzi, non aveva subito una diminuzione rilevante.
Alle libere professioniste era poi consentito non astenersi dal lavoro potendo conciliare le esigenze familiari con quelle lavorative in ragione della possibilità di autodeterminazione; d’altro canto la indennità spettava anche in caso di continuazione della attività lavorativa nel periodo della maternità.
Neppure sussisteva un contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, in quanto la protezione del valore della maternità poteva essere attuata con strumenti e modalità diverse in relazione alle caratteristiche specifiche delle situazioni da tutelare, restando illegittima soltanto una disciplina che si risolvesse nella negazione della tutela.
La disposizione legislativa aveva autorizzato le singole casse ad elevare l’importo massimo tendendo conto della capacità reddituali, economiche e contributive delle relative categorie professionali nonché della compatibilità con i propri equilibri finanziari.
La scelta della Cassa del Notariato di non elevare l’importo massimo (delibera del CdA nr 103 del 28.11.2003) risultava adeguatamente motivata dalla necessità di contenere i costi della gestione maternità entro criteri di economicità, a fronte dei saldi negativi registrati negli anni precedenti.
Per la Cassazione della sentenza ha proposto ricorso il notaio M. B. M., articolando due motivi.
Ha resistito con controricorso la Associazione Cassa Nazionale del notariato, illustrato con memoria.
La ricorrente ha depositato dichiarazione di rinunzia al ricorso notificata alla controparte in data 29.11.2016.
Ragioni della decisione
La fattispecie è disciplinata dall’articolo 390 c.p.c. nella formulazione vigente, applicabile, ai sensi dell’articolo 75 co. 2 DL 69/2013, ai giudizi dinanzi alla Corte di Cassazione nei quali il decreto di fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio sia adottato a partire dal giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione dello stesso decreto legge (legge 9 agosto 2013 nr 98, entrata in vigore il 21.8.2013).
A tenore della norma processuale citata la parte può rinunciare al ricorso principale o incidentale finché non sia cominciata la relazione alla udienza o siano notificate le conclusioni scritte del pubblico ministero nei casi di cui all’articolo 380-ter. La rinuncia deve farsi con atto sottoscritto dalla parte e dal suo avvocato o anche da questo solo se è munito di mandato speciale a tale effetto. L’atto di rinuncia è notificato alle parti costituite o comunicato agli avvocati delle stesse, che vi appongono il visto.
Nel giudizio in cassazione, dunque, diversamente da quanto previsto dall’articolo 306 epe. la rinunzia al ricorso è produttiva di effetti a prescindere dalla accettazione delle altre parti, che non è richiesta dall’articolo 390 epe.
La rinuncia al ricorso per cassazione, essendo atto unilaterale recettizio , produce l’estinzione del processo a prescindere dalla accettazione, purché risulti perfezionata nel termine previsto dall’articolo 390 epe e, cioè, a condizione che la controparte ne abbia avuto comunque conoscenza prima dell’inizio della udienza pubblica; gli adempimenti previsti dalla norma sono finalizzati invece soltanto ad ottenere l’adesione delle altre parti ed evitare la condanna alle spese del rinunziante ex articolo 391 epe. (Cass. 05/02/2016, n. 2317; 26/02/2015, n. 3971 ; 29/07/2014 nr. 17187; 10 giugno 2014 n. 13052).
Nella fattispecie di causa le spese, in assenza di accettazione , devono essere compensate tra le parti in ragione della novità delle questioni poste con il ricorso.
Sulla interpretazione dell’articolo 70 D.lgs. 151/2001 e sulla compatibilità della disposizione con le norme costituzionali soltanto in epoca recente si è avuta una pronunzia di questa Corte di legittimità ( Cass. sez. lav. 12 maggio 2016 nr 9757) cui ha fatto seguito la rinunzia al ricorso.
P.Q.M.
Dichiara estinto il giudizio. Compensa le spese.