CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 luglio 2017, n. 17736
Licenziamento – L. n. 92/2012 – Difetto del requisito dimensionale – Condotte punibili con sanzione conservativa
Fatti di causa
1. In sede di impugnativa di licenziamento proposta da F.G. nei confronti della M.B. srl ai sensi della I. n. 92 del 2012, il Tribunale di Roma, con ordinanza resa all’esito della fase sommaria, rigettò la domanda di nullità del recesso per asserita discriminatorietà e dichiarò il licenziamento illegittimo in quanto non risultava dimostrata “l’univoca riconducibilità dell’azione alla ricorrente”, con conseguente applicazione della tutela prevista dall’art. 8 della I. n. 604 del 1966 per difetto del requisito dimensionale.
Tale ordinanza venne confermata dallo stesso Tribunale con sentenza del 16 giugno 2014, reclamata dalla G. che ribadì la domanda di accertamento della nullità del licenziamento e, in subordine, chiese la condanna della M.B. ai sensi dell’art. 18, co. 4, I. n. 300 del 1970 novellato, “per insussistenza del fatto contestato ovvero perché rientrante fra condotte punibili con sanzione conservativa”.
Instaurato il contraddittorio, con sentenza del 6 febbraio 2015, la Corte di Appello di Roma, ha respinto l’impugnazione della G. nella parte relativa all’accertamento della discriminatorietà del recesso, ma, valutando non raggiunta la prova dell’occupazione da parte della società di un numero di dipendenti inferiori a sedici e ritenendo altresì che “non è più in discussione la illegittimità del licenziamento per insussistenza della giusta causa”, ha apprestato le tutele reintegratorie ed indennitarie previste dall’art. 18, co. 4, I. n. 300 del 1970.
2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso M.B. srl con sei motivi. Ha resistito F.G. con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 18, commi 4 e 5, Stat. Lav., per avere la sentenza impugnata erroneamente applicato il 4° comma della disposizione citata all’ipotesi di insussistenza per giusta causa.
In subordine con il secondo motivo si lamenta omesso esame di un fatto decisivo per non avere speso la sentenza alcuna parola “sul fatto posto a base della motivazione del licenziamento, e cioè la contestata diffusione all’esterno da parte della G., di dati aziendali riservati stampati da sistemi informatici”.
In ulteriore subordine il terzo motivo denuncia nullità della sentenza ex art. 112 c.p.c. per avere materialmente omesso la pronuncia sulla insussistenza del fatto contestato.
Ancora nullità della sentenza si denuncia con il quarto motivo per avere erroneamente applicato l’art. 18, co. 4, I. n. 300 del 1970, nonostante il passaggio in giudicato del capo di sentenza in cui si è affermata la sussistenza del fatto contestato.
Con il quinto motivo, in via ancor più gradata, si lamenta omesso esame di un fatto decisivo “per aver apoditticamente affermato che non fosse più in discussione l’illegittimità del licenziamento per giusta causa”.
2. Il Collegio giudica tali motivi, esaminabili congiuntamente per connessione, infondati.
Parte ricorrente trascura di considerare che la sentenza di prime cure aveva confermato l’ordinanza resa all’esito della fase sommaria, statuendo così l’illegittimità del licenziamento in quanto non risultava dimostrata “l’univoca riconducibilità dell’azione alla ricorrente”, in altre parole per non esserci la prova che la G. avesse commesso il fatto addebitato, con conseguente applicazione della tutela obbligatoria prevista dalla I. n. 604 del 1966 per la ritenuta mancanza del requisito dimensionale.
Tale statuizione circa l’illegittimità del licenziamento irrogato per fatto non riconducibile alla G. è passata in cosa giudicata in quanto la società, pur soccombente rispetto ad essa, non l’ha impugnata con il reclamo, proposto dalla sola lavoratrice, per cui, a parte la questione della discriminatorietà del recesso, alla Corte di Appello restava devoluta esclusivamente la questione della tutela applicabile, come richiesta dalla stessa reclamante in via subordinata.
Del tutto correttamente quindi la Corte romana ha ritenuto che “non è più in discussione la illegittimità del licenziamento per insussistenza della giusta causa”, per cui, una volta escluso, contrariamente al primo giudice, l’inferiore requisito dimensionale, ha applicato il quarto comma dell’art. 18 novellato che certamente ricomprende quale fatto insussistente quello che il lavoratore non ha commesso.
Invero la nozione di “insussistenza del fatto contestato” ai fini dell’applicabilità della tutela di cui al quarto comma dell’art. 18 della I. n. 300 del 1970, così come modificato dall’art. 1, co. 42, I. n. 92 del 2012, è stato precisato da plurime pronunce di questa Corte (da ultimo v. Cass. n. 13178 del 2017, con la giurisprudenza ivi richiamata; in particolare v. Cass. n. 10019 del 2016 che equipara ai casi di condotta materialmente inesistente anche quelli “di condotta che … non sia imputabile al lavoratore stesso”), sicché in tale comma va sussunta, per ragioni logiche prima che giuridiche, la fattispecie di condotta addebitata a soggetto che non vi è prova che l’abbia commessa, risultando irnplausibile che possa riconoscersi responsabilità disciplinare per un fatto fenomenicamente accaduto ma non attribuibile al lavoratore al quale è stato contestato.
3. Con il sesto mezzo si denuncia “nullità della sentenza per non avere ammesso d’ufficio le prove relative al numero dei dipendenti nel periodo antecedente il licenziamento”, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c..
Anche tale doglianza non può trovare accoglimento in quanto il mancato esercizio del potere officioso non può mai determinare un error in procedendo tale da causare la nullità della sentenza così come invece prospettato da parte ricorrente, ma può eventualmente ridondare in vizio dell’accertamento circa i fatti di causa (cfr. tra altre Cass. n. 16997 del 2002; Cass. n. 15633 del 2003), pur tuttavia sindacabile nei soli limiti imposti dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., osservando le prescrizioni enunciate da Cass. SS.UU. n. 8053 e 8054 del 2014 (principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici) ignorate invece dal motivo in esame.
4. Conclusivamente il ricorso va respinto.
Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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