CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 settembre 2017, n. 22288
Demansionamento – Lesione alla dignità personale ed al prestigio professionale – Lesione in ambito di responsabilità contrattuale di diritti inviolabili costituzionalmente garantiti – Danno non patrimoniale ricomprendente anche il danno di tipo esistenziale – Sussistenza del danno provata anche a mezzo di presunzioni semplici
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Milano, con sentenza depositata il 12/2/2010, rigettava il gravame interposto da A. Service S.r.l. avverso la pronunzia del Tribunale della stessa sede che, in parziale accoglimento del ricorso presentato dal dipendente D.F.R., aveva condannato la società al pagamento, in favore del ricorrente, della somma di euro 18.200,00 a titolo di risarcimento del danno da attribuzioni di mansioni inferiori per il periodo compreso tra giugno 2003 ed agosto 2005, respingendo la domanda con riguardo al periodo successivo.
Per la cassazione della sentenza ricorre la A.A. Energia S.p.A. (già A. Service S.r.l. in essa fusa per incorporazione) sulla base di quattro motivi.
Il D.F. resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione dell’art. 2103 c.c..
Al riguardo, la società lamenta che la Corte di merito non abbia proceduto ad alcuna comparazione tra la declaratoria della categoria di appartenenza del dipendente e le mansioni cui egli è stato adibito tra il 2003 ed il 2005; ed anzi, non abbia menzionato alcuna declaratoria.
1.1. Il motivo è inammissibile, avendo la parte ricorrente omesso di procedere alla comparazione tra declaratorie contrattuali, necessaria al fine di dimostrare la lamentata violazione dell’art. 2103 c.c.. E ciò, a fronte della motivata ricostruzione operata dalla Corte distrettuale, nel pieno rispetto del procedimento c.d. trifasico, attraverso il quale la stessa Corte è pervenuta alle censurate conclusioni (cfr., tra le molte, Cass. n. 10864/2009).
2. Con il secondo motivo, formulato in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c., la parte ricorrente deduce che la precedente doglianza si presti ad essere valutata anche sotto il profilo del vizio motivazionale, non potendosi considerare, a parere della società, idoneo a giustificare la decisione un iter logico viziato in partenza dall’adozione di un termine di riferimento assolutamente incongruo e, di per sé, non sufficiente (cioè la declaratoria della categoria A.S.S., che ne richiama per relationem un’altra, la quale però non viene esplicitata).
2.2. Neppure tale motivo è fondato.
Invero, correttamente, i giudici di seconda istanza hanno enucleato un giudizio in ordine al demansionamento del D.F. attraverso un procedimento logico-giuridico ineccepibile fondato sulle acquisizioni probatorie assunte che non è censurabile in sede di legittimità (cfr., tra le molte, Cass. nn. 13173/2009, 2649/2004).
Nel caso di specie, pertanto, le doglianze articolate dalla parte ricorrente sotto il profilo di errores in iudicando ed altresì come generico vizio di motivazione appaiono inidonee, per i motivi anzidetti, a scalfire la coerenza della sentenza sotto il profilo dell’iter logico-giuridico.
3. Con il terzo mezzo di impugnazione viene denunciato, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2697 c.c. e 432 c.p.c., e si lamenta, in particolare, che i giudici del merito non avrebbero indagato sull’esistenza di un effettivo danno, ma avrebbero agito sul presupposto che sussistesse un danno non patrimoniale di tipo esistenziale consistente non in alterazioni degli assetti relazionali ed al conseguente forzato mutamento in peius di abitudini di vita, ma in una “lesione alla dignità personale ed al prestigio professionale”. Operando in tal modo, a parere della parte ricorrente, si sarebbe omesso di considerare che non ogni demansionamento provoca necessariamente un danno e la pronunzia oggetto del giudizio di legittimità sarebbe stata emessa in difetto della prova dello stesso.
4. Con il quarto motivo la società denuncia, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c., la violazione dei principi generali in tema di illecito e di danno di cui agli artt. 1218, 1223, 1226, 2043, 2056, 2059, 2087 c.c. e lamenta che la Corte di merito avrebbe liquidato un risarcimento in totale carenza di deduzioni da parte del D.F. che non avrebbe allegato neppure un suo turbamento soggettivo o un suo dolore intimo, né direttamente né indirettamente, limitandosi a dare per scontato che dal demansionamento debbano derivare necessariamente danni non patrimoniali.
3.3; 4.4. Il terzo ed il quarto mezzo di impugnazione, da trattare unitamente, stante l’evidente connessione, non sono meritevoli di accoglimento.
In sostanza, la parte ricorrente si duole del fatto che, a suo dire, nella sentenza oggetto del presente giudizio si sarebbe erroneamente considerato che il risarcimento del danno non patrimoniale, sotto il profilo di danno esistenziale, così come richiesto dal D.F. rilevi di per sé.
In realtà, la Corte milanese, in linea con gli arresti giurisprudenziali di legittimità (cfr. Cass., S.U., n. 6572/2006; Cass. n. 13877/2007) ha correttamente reputato che il danno non patrimoniale che ricomprende anche il danno di tipo esistenziale, deve essere risarcito quando sia conseguenza, come nel caso di dequalificazione professionale del lavoratore subordinato, di una lesione in ambito di responsabilità contrattuale di diritti inviolabili costituzionalmente garantiti e che la sussistenza di tale danno possa essere provata anche a mezzo di presunzioni semplici, sulle quali il giudice può fondare in via esclusiva il proprio convincimento. E, nel pieno rispetto dei principi enunciati dalla Suprema Corte ed alla luce delle risultanze di causa, motivatamente delibate, i giudici di seconda istanza hanno ritenuto che nella fattispecie si colgano “quegli indici presuntivi della presenza del danno c.d. non patrimoniale di tipo c.d. esistenziale, quale la lesione alla dignità personale ed al prestigio professionale….”.
Pertanto, per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso deve essere respinto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
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