CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 10001 del 16 maggio 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – SICUREZZA SUL LAVORO – ESPOSIZIONE ALL’AMIANTO – BENEFICIO CONTRIBUTIVO – RICONOSCIMENTO – ULTRADECENNALE DEL LAVORATORE A MANSIONI COMPORTANTI UN EFFETTIVO E PERSONALE RISCHIO MORBIGENO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1 – La Corte di Appello di Roma ha respinto le impugnazioni proposte dagli attuali ricorrenti avverso la sentenza del Tribunale di Latina che, pronunciando nei giudizi riuniti promossi da numerosi dipendenti della C.P. s.p.a., all’esito della consulenza tecnica d’ufficio, aveva ritenuto infondata la loro domanda, volta ad ottenere li riconoscimento del beneficio contributivo di cui all’art. 13 della legge n. 257/1992, come modificata dal d.lgs n. 271/1993.
2 – La Corte ha osservato che:
a) era onere dei ricorrenti provare l’adibizione ultradecennale a mansioni comportanti un effettivo e personale rischio morbigeno a causa della presenza nei luoghi di lavoro di una concentrazione superiore ai valori limite indicati nella normativa prevenzionale di cui al d.lgs n. 277/1991;
b) il consulente tecnico d’ufficio, ispezionati i luoghi ed assunte informazioni anche dagli stessi ricorrenti, oltre che dall’azienda, aveva ritenuto che il limite fosse stato superato solo per coloro che svolgevano mansioni di carattere esecutivo ed operativo (falegname allestitore, lavorazione vetroresina, magazziniere, elettricista, verniciatore, motorista, impiegato tecnico con mansioni operative nel cantiere);
c) gli appellanti, pur asserendo di essere stati esposti all’amianto nella stessa misura degli operatori impiegati direttamente nella produzione, non avevano indicato nel ricorso di primo grado e nei gravame quali fossero le loro mansioni, sicché tardive ed inammissibili dovevano ritenersi tutte le deduzioni e le istanze istruttorie formulate solo dopo il deposito della consulenza tecnica e finalizzate ad accertare i compiti in concreto svolti dai ricorrenti;
d) la prova testimoniale assunta nel primo grado di giudizio era stata generica in relazione alle mansioni svolte dagli appellanti e valutativa nella parte in cui i testi avevano fatto riferimento alla esposizione all’amianto;
e) la documentazione prodotta dagli appellanti (studi scientifici e consulenze tecniche disposte in altri giudizi) non smentiva in alcun modo le conclusioni alle quali il consulente tecnico era pervenuto, poiché l’ausiliare aveva ritenuto sussistente la esposizione per i lavoratori addetti alla produzione delle Imbarcazioni e l’aveva esclusa per i soli impiegati che, non partecipando all’attività esecutiva, erano stati esposti al solo rischio derivante dalla presenza di fibre aerodisperse nell’ambiente di lavoro, non sufficiente a determinare il superamento della soglia;
f) in relazione alla posizione di L.P. non era ravvisabile alcuna contraddittorietà della sentenza di primo grado, che conteneva solo un errore materiale, consistito nell’avere inserito il nome “nell’incipit del dispositivo” relativo ai ricorrenti per i quali la domanda era stata accolta.
3 – Per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso L.P., N.C., G.D.V., A.G. e L.D. sulla base di quattro motivi.
L’INPS ha resistito con tempestivo controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.1 – Con il primo motivo i ricorrenti denunciano ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. “violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 416 e 436 c.p.c. (e della norma di cui all’art. 132 n. 4 c.p.c.)”. Rilevano che l’INPS in entrambi i gradi di giudizio si era costituito con comparsa assolutamente generica, senza contestare in modo specifico la documentazione prodotta, le circostanze allegate negli atti introduttivi, I motivi di gravame. La Corte, pertanto, avrebbe dovuto ritenere dimostrati, in conseguenza della non contestazione, la esposizione ultradecennale ed il superamento della soglia limite di legge.
1.2 – Il motivo è infondato.
L’obbligo imposto al resistente dall’art. 416 c.p.c. presuppone che nel ricorso l’attore, sul quale grava l’onere di allegare e provare i fatti costitutivi del diritto azionato, specifichi le relative circostanze in modo dettagliato ed analitico, giacché solo in detta ipotesi sorge il dovere del convenuto di prendere specifica posizione su tali puntuali allegazioni e di contestarle ovvero di ammetterle. Va, poi, qui ribadito che il principio di non contestazione di cui all’art. 115, 10 comma, c.p.c., riguarda esclusivamente i profili probatori del fatto, per cui lo stesso non può essere invocato in relazione alla qualificazione giuridica, ad espressioni definitone, a circostanze Implicanti un’attività di giudizio ( in tal senso, in fattispecie analoga a quella oggetto di causa, Cass. n. 5929/2015 e Cass. 17171/2012).
Nel caso di specie la Corte territoriale ha ritenuto determinante, per escludere la fondatezza dell’appello, la mancanza di prova in relazione ad un diretto coinvolgimento dei ricorrenti in quelle fasi del processo produttivo che, secondo la valutazione del consulente, avevano comportato una esposizione all’amianto superiore ai limiti di legge ed ha precisato che nel ricorso di primo grado gli attori non avevano allegato, come sarebbe stato loro onere, “in cosa consistessero le loro precise e concrete mansioni che li avrebbero esposti ad amianto in misura uguale agli operatori impiegati direttamente nella produzione”.
La pronuncia è, quindi, sul punto conforme ai principi di diritto sopra richiamati, posto che solo le circostanze indicate in modo specifico e puntuale possono ritenersi provate per effetto della non contestazione da parte del resistente.
2.1 – Con li secondo motivo I ricorrenti denunciano, ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 116, 191, 421, 437, 445, 409 e ss., 433 e ss., 442 e ss. c.p.c., 2697 c.c., 24 e 111 Cost., 6 CEDU, 13, comma 8, della legge n. 257/1992, 3 del D.M. 27.10.2004. Rilevano, in sintesi, che la Corte territoriale: a) aveva omesso di considerare il valore confessorio della rinuncia all’appello proposto dall’Istituto previdenziale nei confronti dei ricorrenti che avevano vista accolta la loro domanda, rinuncia implicante riconoscimento della morbilità dell’ambiente lavorativo; b) aveva ritenuto dl potere operare una differenziazione fra lavoratori esposti al medesimo rischio, quando, in realtà, ciò che rileva non è la mansione bensì l’ambiente lavorativo; c) non aveva valutato gli accertamenti tecnici compiuti dal consulente di parte dell’INPS, il quale aveva confermato il rischio morbigeno; d) aveva respinto l’istanza, con la quale era stato sollecitato un supplemento di istruttoria sulla natura delle mansioni concretamente svolte dagli appellanti, in violazione dell’art. 437 c.p.c., non considerando la documentazione prodotta a sostegno del gravame che rendeva necessario l’approfondimento sollecitato; f) aveva respinto anche la richiesta di innovazione della consulenza tecnica d’ufficio, in violazione del diritto di difesa degli appellanti e senza alcuna specifica motivazione. Una rubrica analoga a quella del secondo motivo i ricorrenti antepongono al terzo, con il quale lamentano nuovamente la violazione e falsa applicazione delle norme sopra indicate, alle quali aggiungono anche gli artt. 2, 38, 35 e ss della Carta Costituzionale nonché gli artt. 24 e 31 del d.lgs 277/1991. Insistono sulla erroneità del mancato rinnovo della consulenza tecnica d’ufficio e rilevano che la Corte territoriale avrebbe dovuto approfondire gli accertamenti tecnici in considerazione della pacifica presenza dell’amianto nel cantiere navale, riconosciuta anche dall’istituto previdenziale.
2.2. – I motivi, da trattarsi congiuntamente perché connessi, sono in parte inammissibili ed In parte infondati.
Secondo il costante insegnamento di questa Corte quando nel ricorso per cassazione è denunziata violazione e falsa applicazione di norme di diritto, il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto non solo mediante la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti, intese a dimostrare motivatamente in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina; diversamente il motivo è inammissibile, richiedendo un inesigibile intervento integrativo della Corte che, per giungere alla compiuta formulazione del motivo, dovrebbe individuare per ciascuna delle doglianze lo specifico vizio di violazione di legge o del vizio di motivazione (Cass. n. 328/2007; Cass. n. 21611/2013; Cass. n. 20957/2014; Cass. n. 635/2015 ).
Nella specie il ricorrente non specifica quale delle affermazioni contenute nella sentenza sarebbe in contrasto con ciascuna delle molteplici norme denunciate, e pertanto deve ritenersi formulata in modo non idoneo la deduzione di “errori di diritto” Individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme asseritamente violate, senza una specifica illustrazione, nell’ambito del motivo, delle ragioni per le quali li giudice di merito avrebbe errato nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia.
L’esame, pertanto, va limitato alle sole violazioni di legge che, indicate in rubrica, risultano poi illustrate nel motivo.
2.3 – Sostengono i ricorrenti che la Corte territoriale avrebbe violato l’art. 13, comma 8, della legge 257/1992 nel ritenere che si possano operare differenziazioni fra lavoratori impegnati a svolgere mansioni diverse nel medesimo ambiente lavorativo, atteso che al rischio è esposto non solo l’operaio a contatto diretto con materiale contenente amianto, ma anche il dipendente che renda la prestazione in un luogo nel quale vi sia comunque diffusione e concentrazione delle fibre.
La censura è infondata.
Invero, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, l’attribuzione del beneficio cui alla L. n. 257 del 1991, art. 13, comma 8, (nel testo risultante dalle modifiche apportate dal D.L. n. 169 del 1993, art. 1, comma 1, convertito in L. n. 271 del 1993) presuppone l’adibizione ultradecennale del lavoratore a mansioni comportanti un effettivo e personale rischio morbigeno a causa della presenza, nei luoghi di lavoro, di una concentrazione di fibre di amianto che, per essere superiore ai valori limite indicati nella legislazione prevenzionale di cui al D.Lgs. n. 277 del 1991 e successive modifiche (valori espressamente richiamati dalla predetta L. n. 257 del 1991, art. 3, così come modificato dalla L. n. 128 del 1998, art. 16), renda concreta e non solo presunta la possibilità del manifestarsi delle patologie che la sostanza è idonea a generare. La esplicita previsione normativa di tale doppia “soglia” (riguardante cioè sia la durata che l’intensità dell’esposizione) non contrasta con i principi costituzionali di parità di trattamento di situazioni uniformi, come riconosciuto dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 5 del 2000 e 127 del 2002….. La norma contenuta nella L. n. 257 del 1992, art. 13, comma 8, deve, pertanto, essere Interpretata nel senso che il beneficio pensionistico ivi previsto spetta unicamente ai lavoratori che, in relazione alle lavorazioni cui sono stati addetti e alle condizioni dei relativi ambienti di lavoro, abbiano subito per più di dieci anni (periodo in cui vanno valutate le pause fisiologiche, quali riposi, ferie e festività) una esposizione a polveri di amianto superiori ai limiti previsti dal D.Lgs. n. 277 del 1991, artt. 24 e 31″ ( Cass. 20.7.2012 n. 12703).
Poiché il riconoscimento del beneficio è legato, non alla soia presenza di fibre aerodisperse nel luogo di lavoro, bensì alla dimostrazione di un effettivo e personale rischio morbigeno, sussistente solo in presenza del superamento della soglia limite, è evidente che il lavoratore, onerato della prova degli elementi costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, non può limitarsi ad affermare di aver reso la prestazione in ambienti nei quali vi era dispersione di amianto, ma deve anche dimostrare, sia pure nei limiti del rilevante grado dl probabilità, di essere stato personalmente esposto ad una concentrazione di fibre superiore alla soglia legale.
Inoltre, poiché la maggiore o minore esposizione è necessariamente legata ad una pluralità di fattori ( caratteristiche dell’ambiente di lavoro, composizione dei materiali utilizzati, natura e modalità delle operazioni direttamente compiute), ben può verificarsi che, pur a fronte dell’accertamento della presenza della sostanza nociva nell’ambiente di lavoro, la soglia limite risulti superata solo per i lavoratori addetti ad alcune lavorazioni e non per quelli per i quali, l’esposizione sia rimasta limitata alle fibre disperse dai materiali con i quali lo stabilimento era stato realizzato (in tal senso in motivazione Cass. n. 6507/2011, Cass. n. 20194/2013 e Cass. n. 16136/2014).
A detti principi di diritto si è correttamente attenuta la Corte territoriale che, con ampia ed articolata motivazione, dopo avere richiamato la giurisprudenza di questa Corte, ha escluso che per gli appellanti il limite fosse stato superato, recependo il calcolo probabilistico effettuato dal consulente tecnico d’ufficio il quale, come si sottolinea della sentenza impugnata, sulla base dei dati scientifici, della diretta ispezione dei luoghi, delle informazioni assunte dalla azienda nonché dai ricorrenti, aveva per ciascuno quantificato il livello di esposizione, ritenendo raggiunta la soglia solo per i lavoratori impegnati “nelle operazioni di montaggio sulle imbarcazioni di componentistica fonoassorbente, fonoisolante, termoresistente”.
2.4 – Il ricorso è infondato anche nella parte in cui censura la sentenza impugnata per non avere dato ingresso a prove ulteriori che, a detta dei ricorrenti, avrebbero consentito di dimostrare che, contrariamente a quanto asserito dall’ausiliare, anche gli impiegati con mansioni amministrative o contabili erano tenuti a lavorare nello stabilimento dove si svolgeva il ciclo produttivo ” a gomito a gomito” con gli operai.
Nel rito dei lavoro l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio deve avvenire contemperando Il principio della ricerca della verità con quello dispositivo, sicché Io stesso non può riguardare fatti non allegati tempestivamente dalle parti o non acquisiti al processo in modo rituale ( Cass. S.U. n. 11353/2004).
Questa Corte ha anche precisato che detto esercizio involge un giudizio di opportunità rimesso ad un apprezzamento meramente discrezionale, che può essere sottoposto al sindacato di legittimità soltanto come vizio di motivazione nei casi in cui la sentenza di merito non adduca un’adeguata spiegazione per disattendere la richiesta di mezzi istruttori relativi ad un punto della controversia che, se esaurientemente istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione (Cass. n. 12717/2010).
Nel caso di specie la Corte territoriale ha ampiamente motivato sulle ragioni per le quali il supplemento di prova testimoniale non poteva essere ammesso, evidenziando che tardive ed inammissibili dovevano ritenersi “le affermazioni, formulate dal procuratore dei ricorrenti in primo grado a verbale, solo dopo le conclusioni peritali secondo le quali anche gli impiegati avevano mansioni operative (peraltro non specificate) ed erano solo formalmente impiegati ma nella sostanza operavano nel sito industriale”.
2.5 – E’ infondata anche la doglianza relativa alla mancata rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio.
Premesso che la consulenza non costituisce un mezzo di prova, ma è finalizzata all’acquisizione, da parte del giudice, di un parere tecnico necessario, o quanto meno utile, per la valutazione di elementi probatori già acquisiti o per la soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze (ex plurimis Cass. 21.4.2010 n. 9461), va detto che rientra nei poteri discrezionali dei giudice di merito la decisione sulla necessità o meno della rinnovazione, che ben può essere omessa, anche a fronte di una esplicita richiesta della parte, ove l’indagine tecnica effettuata nel primo grado di giudizio risulti completa ed esente da critiche (Cass. n. 20958/2014; Cass. n. 17693/2013; Cass. n. 20227/2010).
La Corte territoriale ha compiutamente indicato ie ragioni per le quali la richiesta degli appellanti non poteva essere accolta, rilevando che le conclusioni dell’ausiliare, già oggetto di ampliamenti ed integrazioni nel primo grado di giudizio, dovevano essere ritenute complete ed esaustive, in quanto il CTU, dopo la diretta ispezione dei luoghi, aveva tenuto conto degli studi scientifici richiamati nell’elaborato, dei dati statistici relativi alla entità ed alla durata della esposizione, delle informazioni fornite dall’azienda, dall’INAIL e dagli stessi ricorrenti, dell’esito delle analisi disposte su materiali reperiti.
Va poi aggiunto che nel giudizio di cassazione “la parte che lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, ai fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale dei difetto di motivazione.” ( Cass. n. 16368/2014 e negli stessi termini Cass. n. 3224/2014).
I ricorrenti, che nel ricorso hanno trascritto le sole conclusioni dell’elaborato, si sono limitati a censurarle perché l’ausiliare non aveva tenuto conto delle mansioni effettivamente svolte e perché aveva contraddittoriamente ritenuto di escludere solo per il personale impiegatizio la esposizione qualificata. Entrambe le doglianze risultano essere manifestamente infondate per quanto sopra si è detto in merito alla infondatezza degli ulteriori motivi di ricorso.
2.6 – E’ poi evidente, a fronte della diversità delle posizioni dei lavoratori impiegati nel medesimo opificio industriale, la irrilevanza della scelta processuale dell’INPS di rinunciare all’appello proposto nei confronti di coloro che avevano vista accolta la domanda. Dei tutto impropriamente nei ricorso si sostiene che detta rinuncia avrebbe valore confessorio, posto che la confessione, che ha ad oggetto fatti e non valutazioni, deve provenire personalmente dalla parte e non è ravvisabile a fronte di affermazioni riferibili al difensore o al consulente, i quali, Inoltre, hanno riconosciuto la fondatezza della pretesa avanzata da altri soggetti e non dagli attuali ricorrenti.
3.1. – Con l’ultimo motivo di ricorso, relativo alla posizione del solo L.P., si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 324 c.p.c., 13 della legge 257/1992, 24 e 111 della Costituzione. Si sostiene che l’INPS, rinunciando all’appello proposto anche nei confronti del Pacifici, avrebbe determinato il passaggio in giudicato del capo della decisione favorevole al ricorrente, non impugnato da quest’ultimo.
3.2 – Il motivo è manifestamente infondato, in quanto la Corte ha dato atto dell’errore materiale commesso dal Tribunale nel dispositivo della sentenza ( nel quale il nome del P. era stato inserito sia “nell’incipit” del dispositivo di accoglimento sia nell’elenco dei lavoratori che avevano visto respinta la domanda) ed ha escluso, con esaustiva motivazione, non censurata nel ricorso, che l’errore avesse determinato nullità della sentenza per contrasto insanabile fra le diverse parti della decisione.
4 – Il ricorso va, pertanto, rigettato. La complessità delle questioni trattate e la natura della controversia giustifica no la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.
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