CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 18208 del 2 maggio 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – SICUREZZA SUL LAVORO – VIOLAZIONE DELLA NORMATIVA ANTINFORTUNISTICA – RESPONSABILITA’ – PERSONE ESTRANEE AL RAPPORTO DI LAVORO – APPLICABILITA’ DELLE DISPOSIZIONI PREVENZIONALI
Ritenuto in fatto
L.V. ricorre avverso la sentenza che, riformando quella di primo grado, che lo aveva riconosciuto corresponsabile del reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica in danno di D.F., dichiarava non doversi procedere per intervenuta prescrizione.
Per quanto interessa, l’imputato, nella qualità di titolare di un’impresa esercente la attività di lavorazione in ferro, era stato chiamato a rispondere della morte del lavoratore sopra indicato D.F. che, mentre era impegnato a eseguire lavori di montaggio di una ringhiera in ferro ad un balcone esterno di un fabbricato in costruzione, era precipitato al suolo dall’alto, riportando lesioni mortali.
L’addebito di colpa era stato ravvisato nell’avere l’imputato omesso le adeguate misure precauzionali atte a prevenire le cadute dall’alto: in assenza di impalcati di protezione o parapetti, adeguata cintura di sicurezza.
La Corte di merito riteneva di pronunciare la sentenza di non doversi procedere, in ragione della concessione delle attenuanti generiche, valorizzando peraltro gli elementi già concordemente valutati dal primo giudice, attraverso una rinnovata considerazione delle plurime convergenti dichiarazioni dei congiunti del deceduto, ritenute attendibili, che trovavano riscontro negli esiti della caduta (che escludeva la tesi difensiva della caduta da un marciapiede e comunque da una bassa altezza), nonché, sotto il profilo della colpa, attraverso la considerazione dello stato del cantiere, dove, all’atto del sopralluogo, non era stato rinvenuto il necessario strumentario di sicurezza.
Nessun rilievo per escludere la responsabilità poteva farsi discendere dalla mancanza di un formale rapporto lavorativo tra vittima e imputato (la collaborazione della vittima era basata su un rapporto amicale), perché tale circostanza non escludeva l’obbligo del rispetto della normativa cautelare.
Per l’effetto, secondo il giudicante, non vi era spazio per un proscioglimento nel merito.
Con il ricorso si invoca il proscioglimento pieno, o mediante pronuncia di annullamento senza rinvio o, comunque, previo annullamento con rinvio, sostenendosi una diversa lettura delle dichiarazioni acquisite in atti, che si assumono male interpretate dai giudici di merito, anche in punto di ricostruzione dell’incidente, e riproponendosi la tesi della collaborazione amicale che escluderebbe l’applicabilità della normativa prevenzionale.
Considerato in diritto
Il ricorso è manifestamente infondato.
Come è noto, in presenza di una (già avvenuta) declaratoria di improcedibilità per intervenuta prescrizione del reato, è precluso alla Corte di cassazione un riesame dei fatti finalizzato ad un eventuale annullamento della decisione per vizi attinenti alla sua motivazione. Il sindacato di legittimità circa la prospettata mancata applicazione del comma 2 dell’articolo 129 c.p.p. deve essere invece circoscritto all’accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire ad una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule ivi prescritte: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell’insussistenza del fatto o dell’estraneità ad esso dell’imputato risulti evidente sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini ed ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l’operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata. Pertanto, qualora il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall’articolo 129 c.p.p., l’esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all’imputato, deve prevalere l’esigenza della definizione immediata del processo (Sezione IV, 6 marzo 2008, Scupola).
Detto altrimenti, in presenza della causa estintiva del reato non sarebbe quindi applicabile la regola probatoria prevista dall’articolo 530, comma 2, c.p.p., da adottare quando il giudizio sfoci nel suo esito ordinario, ma è invece necessario che emerga “positivamente” dagli atti, e senza necessità di ulteriori accertamenti, la prova dell’innocenza dell’imputato. Da ciò consegue che non è consentito al giudice di applicare l’articolo 129, comma 2, c.p.p. in casi di incertezza probatoria o di contraddittorietà degli elementi di prova acquisiti al processo, anche se, in tali casi, ben potrebbe pervenirsi all’assoluzione dell’imputato per avere il quadro probatorio caratteristiche di “ambivalenza probatoria”. E consegue, altresì, con riguardo al giudizio di Cassazione, che il giudice di legittimità, a fronte dell’obbligo di immediata declaratoria della causa di non punibilità, non può rilevare il vizio di motivazione della sentenza impugnata, che dovrebbe ordinariamente condurre all’annullamento con rinvio (Sezione IV, 28 maggio 2008, Rago ed altri).
Ebbene, qui la sentenza di merito non ammette censure, anche a fronte di un ricorso meramente assertivo, in cui ci si limita a proporre censure di merito sull’apprezzamento del compendio probatorio, tra l’altro conformemente valutato in primo e secondo grado.
Infondata è la doglianza basata sull’assenza di formale rapporto di lavoro, ove si consideri che le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i lavoratori (e solo i lavoratori) possano subire danni nell’esercizio della loro attività, ma sono dettate finanche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono nei cantieri o comunque in luoghi ove vi sono macchine che, se non munite dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, possono essere causa di eventi dannosi. Le disposizioni prevenzionali, infatti, sono da considerare emanate nell’interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell’impresa (Sezione IV, 6 novembre 2009, Morelli): non è dubbia quindi l’applicabilità nel caso di interesse, laddove è pacifica l’attività comunque prestata dalla vittima in favore dell’imputato, quale che ne sia stata la “causale” (amicizia o altro).
E’ una situazione che non consente certamente l’adozione della invocata decisione, non potendo questa Corte rinnovare una valutazione di merito, in un contesto che neppure consente di apprezzare quella “evidenza” che è la condizione per l’adozione della decisione richiesta con il ricorso.
Alla inammissibilità del ricorso, riconducibile a colpa del ricorrente (Corte Cost., sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), consegue la condanna del ricorrente medesima al pagamento delle spese processuali e di una somma, che congruamente si determina in mille euro, in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.
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