CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 2113 del 3 febbraio 2016

LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO PROCEDURA DI MOBILITA’ – RECESSO DAL RAPPORTO DI LAVORO – CRITERI DI SCELTA – PERCENTUALE DI MANODOPERA FEMMINILE OCCUPATA – ACCERTAMENTO

L’art. 5 comma 2 della L. n. 223 del 1991 prevede che “Nell’operare la scelta dei lavoratori da collocare in mobilità, l’impresa è tenuta al rispetto dell’articolo 9 ultimo comma, del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, della legge 25 marzo 1983, n. 79. L’impresa non può altresì collocare in mobilità (“licenziare” per effetto della modifica apportata dall’art. 2 comma 73 della L. 92/2012) una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione.

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 

Con distinti ricorsi, gli attuali ricorrenti (ed altri ex colleghi) adivano il Giudice del lavoro di Ancona ed esponevano che con lettera del 27.4.1010 la (…) S.p.A., al termine di una procedura di mobilità ex L. 223/1991 riguardante n. 70 lavoratori, aveva loro comunicato il recesso dal rapporto di lavoro per collocamento in mobilità.

Lamentavano l’”illegittimità e/o nullità e/o inefficacia” del licenziamento loro intimato, per plurimi motivi attinenti la procedura adottata e l’interpretazione ed applicazione dei criteri di scelta. Sostenevano altresì la violazione della quota di riserva relativa al collocamento obbligatorio ex L. 68/1999 ed il carattere discriminatorio con riferimento al sesso ed all’appartenenza sindacale.

Nello specifico di ogni singola posizione che qui ancora rileva, ciascuno poi lamentava l’illegittima valutazione e quantificazione dei carichi familiari e delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative, nonché, per le lavoratrici, la violazione della normativa a tutela dell’occupazione femminile.

Chiedevano pertanto in via principale l’accertamento e la dichiarazione della nullità e/o dell’illegittimità e/o dell’inefficacia del licenziamento collettivo loro intimato dalla (…) S.p.A. e l’immediata reintegra nel posto di lavoro, il pagamento di tutte le retribuzioni dal licenziamento alla effettiva reintegra ed il risarcimento del danno ex art. 18 Legge 300/70, con ogni discendente diritto economico e normativo o in via subordinata, l’accertamento e la dichiarazione dell’obbligo della (…) S.p.A. a dare loro precedenza ex art. 15 della legge n. 264/49 nelle assunzioni di essa azienda successive licenziamento, con conseguente loro assunzione.

Il Tribunale rigettava tutti i ricorsi con tre distinte sentenze, che, previa riunione dei procedimenti, venivano confermate dalla Corte d’ appello di Ancona con la sentenza n. 910, depositata il 26 settembre del 2012.

La Corte d’appello argomentava che la risoluzione dei rapporti di lavoro, disposta con il licenziamento collettivo per riduzione del personale, risultava legittima sotto i tre profili della giustificazione della riduzione del personale, della correttezza del procedimento e dell’individuazione del personale licenziato. Quanto al primo aspetto, argomentava che la riduzione era stata consistente ed effettiva, avendo riguardato sessanta dipendenti, circa la metà dell’organico. Non aveva rilievo la tesi degli appellanti secondo la quale la riduzione del personale non sarebbe stata necessaria, in quanto l’imprenditore può, con discrezionalità insindacabile, cessare l’impresa così come ridurne le dimensioni, in ossequio alla libertà di impresa, sancita dall’art. 41 della Costituzione, ed anche perché nessun soggetto può, in fatto, essere costretto a svolgere una specifica attività contro la sua volontà. Né poteva essere valutata la sussistenza del denunciato errore imprenditoriale, poiché non è dato, al giudice, sostituire la sua valutazione, eventualmente difforme, a quella dell’imprenditore, con irrilevanza sul piano giuridico della praticabilità di soluzioni alternative. Né poteva desumersi dagli argomenti sviluppati negli appelli un’illegittimità dei fini perseguiti dall’imprenditore, in quanto, con riferimento alla sussistenza o meno di una grave crisi economica, compete all’imprenditore la facoltà di scegliere, e attuare la politica imprenditoriale da lui ritenuta più vantaggiosa; con riferimento alla limitazione della misura a un solo opificio, ciò era la naturale conseguenza del fatto che l’impresa ha una sola struttura produttiva; con riguardo al ricorso al lavoro straordinario ed a collaborazioni ed esternalizzazioni, l’argomento proposto dalla società, della scarsa rilevanza di tali strumenti, rispetto alla situazione precedente, e comunque nei confronti dell’entità complessiva dell’impresa, non era stato confutato da dati convincenti, e nemmeno significativi. Quanto alla possibilità del ricorso ad ammortizzatori sociali, rilevava che trattasi di mera facoltà, che presuppone la temporaneità della riduzione della attività, e quindi una politica imprenditoriale diversa rispetto a quella adottata per pervenire ad una riduzione del personale con effetto voluto come definitivo. In merito poi alla denuncia di due illegittime discriminazioni, astrattamente idonee a configurare una illegittimità della operazione di licenziamento collettivo – una discriminazione di genere, per essere state licenziate dipendenti di sesso femminile in numero proporzionalmente superiore alla percentuale delle lavoratrici in servizio, e una discriminazione antisindacale, per una presenza, tra i licenziati, di un numero sproporzionato ed eccessivo di aderenti a uno specifico sindacato -la Corte territoriale rilevava che l’assunto avrebbe potuto fondarsi soltanto su dati numerici specifici.

I dati tuttavia erano stati contestati dalla società appellata, che aveva prospettato dati diversi, e nulla gli appellanti avevano replicato in proposito. Con riferimento all’osservanza della procedura per il licenziamento collettivo, la Corte d’appello argomentava che le censure sollevate dagli appellanti, aventi ad oggetto la tempistica della procedura, avrebbero potuto rilevare, in assenza di sanzione di invalidità, solo se ne fosse derivato un qualche effettivo e consistente pregiudizio per la correttezza della operazione di riduzione del personale, ma nessun pregiudizio era stato denunciato, né era astrattamente configurabile.

In merito all’individuazione del personale licenziato, riferiva che l’impresa aveva impiegato, in concorso tra loro, i criteri previsti dall’art. 5 della L. 223 del 1991, in modo ragionevole e corrispondente ai canoni di correttezza e buona fede contrattuale. Riteneva poi che le obiezioni sollevate dagli appellanti, attinenti: 1) ai carichi di famiglia, perché valutati secondo criteri formali, ufficiali; 2) all’anzianità, perché riferita all’anzianità di servizio, anziché all’età anagrafica; 3) alle mansioni svolte, con riferimento all’idoneità allo svolgimento di diverse mansioni, non fossero fondate.

Quanto ai primi, non poteva censurarsi la scelta della condizione di famiglia risultante legalmente, rispetto a quella di fatto, che non implica obblighi giuridici effettivi ed attuali, né consente certezza. Analogamente, l’anzianità di servizio poteva essere ritenuta preminente, e preferibile rispetto all’anzianità anagrafica, che costituisce un dato estraneo al rapporto.

Infine, la valutazione dell’idoneità allo svolgimento di diverse mansioni ha sicuramente rilevanza per una determinazione della validità tecnica – operativa, ai fini organizzativi.

Inoltre, nel corso del giudizio non erano state sollevate obiezioni in ordine alla correttezza dell’individuazione delle diverse professionalità, ed alla distinzione dei dipendenti in corrispondenza alle mansioni, ed infine alla congruità dei risultati finali dell’operazione di scelta rispetto alle reali esigenze dell’azienda.

Conclusivamente, osservava poi che per un giudizio in ordine alla denunciata scorrettezza della scelta dei lavoratori licenziati, sarebbe stato necessario effettuare una “prova di resistenza”, mediante la comparazione del punteggio di tutti i lavoratori licenziati, con il punteggio di tutti i lavoratori che licenziati non siano stati, che non era stata proposta dagli appellanti.

Per la cassazione della sentenza (…), (…), (…), (…), (…), (…), (…), (…), (…), (…), (…), (…), (…), (…) e (…) (…) hanno proposto ricorso, affidato a 37 motivi, illustrati anche con memoria ex art. 378 c.p.c., cui ha resistito con controricorso (…) s.p.a. E’ pervenuta comunicazione dell’intervenuta rinuncia al mandato dei difensori di (…) s.p.a.

MOTIVI DELLA DECISIONE 

I. Sintesi dei motivi di ricorso.

I motivi di ricorso possono essere così riassunti:

1. Con il primo, che riguarda i lavoratori (…), (…), (…), (…), (…) e (…), si lamenta “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello che censura la contraddittorietà e illogicità della sentenza di primo grado rispetto all’ordinanza istruttoria che non ha ammesso le richieste istruttorie di parte ricorrente (non ammissione dei capitoli di prova testimoniale, omessa audizione di testi di parte ricorrente sulle medesime circostanze di parte resistente, omessa pronuncia sulla richiesta di produzione delle fatture pagate e dei libri contabili)”.

2. Con il secondo motivo, anch’esso relativo ai lavoratori (…), (…), (…), (…), (…) e (…), si lamenta la “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo di appello che censura la contraddittorietà e illogicità della sentenza di primo grado nella parte in cui il Tribunale ha affermato la non sindacabilità della sussistenza dei motivi addotti dal datore di lavoro a fondamento dell’attivazione della procedura di mobilità, ma, poi, è entrato nel merito delle scelte imprenditoriali”.

3. Come terzo motivo, anch’esso relativo ai lavoratori (…), (…), (…), (…) (…) e (…), si lamenta “omesso esame del motivo di appello che censura la valutazione delle risultanze istruttorie e la violazione e/o falsa applicazione per lo stesso motivo dell’articolo 112 del codice di procedura civile”.

4. Come quarto motivo, per i lavoratori (…) ,(…), (…), (…), (…), (…), (…), (…), (…) e (…) si lamenta “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4 comma 3 della L. n. 223 del 1991; omesso esame del motivo d’appello che censura l’omessa motivazione ed illegittima inversione dell’onere della prova da parte della sentenza di primo grado con riferimento alla non programmabilità di eventuali azioni per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale della procedura e non solo gli ammortizzatori sociali; violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.”

5. Come quinto motivo, per i lavoratori (…) ,(…), (…), (…), (…), (…), (…), (…), si lamenta “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello che censura la contraddittorietà e illogicità della sentenza rispetto all’ordinanza con la quale il Tribunale ha ritenuto le cause mature per la decisione (non ammissione dei capitoli di prova, omessa pronuncia sulla richiesta di esibizione in giudizio ex articolo 210 seguenti c.p.c. delle fatture pagate, dei libri contabili del certificato attestante lo stato di famiglia e i carichi di famiglia del signor (…)”.

6. Come sesto motivo, per i lavoratori (…), (…),(…) ,(…), (…), (…), (…), (…), “violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2697 c.c. la violazione e/o falsa applicazione degli articoli 356 e 437 c.p.c. con riferimento al motivo d’appello che censura l’errata considerazione delle risultanze relative agli straordinari”.

Si lamenta che la Corte abbia ritenuto la scarsa rilevanza del ricorso agli straordinari rispetto alla situazione precedente e comunque nei confronti dell’entità complessiva dell’impresa e che tale argomento non sia stato confutato da dati convincenti pur sulla base delle della ricostruzione fattuale operata dal giudice di primo grado, malgrado gli appellanti avessero chiesto sul punto di ammettere relativa prova testimoniale.

7. Come settimo motivo, per i lavoratori (…), (…), (…), (…), (…), (…), (…), (…), si deduce “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c.; violazione e/o falsa applicazione degli articoli 356 e 437 c.p.c. con riferimento al motivo di appello che censura l’errata valutazione delle risultanze relative alle esternalizzazioni”.

Si lamenta che la Corte abbia ritenuto non provata l’esternalizzazione sulla base della ricostruzione fattuale operata dal giudice di primo grado, secondo la quale non vi sarebbe stato un aumento dell’esternalizzazione rispetto al passato e il fenomeno avrebbe riguardato volumi di lavorazioni del tutto marginali, ritenendo che tale argomentazione non fosse confutata da dati convincenti, malgrado l’onere della prova in proposito incombesse sulla società.

8. Come ottavo motivo, per tutti i ricorrenti si deduce “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c.; violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4 comma 3 della L.n. 223 del 1991; violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello che censura l’omessa motivazione da parte del Tribunale con riferimento alla non programmabilità di eventuali azioni per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale della procedura e non solo agli ammortizzatori sociali”.

Si lamenta che la Corte abbia confermato la sentenza di primo grado che aveva ritenuto onere dei lavoratori ricorrenti l’indicazione delle azioni programmabili per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale dell’attuazione del programma, nonché l’omesso esame del motivo d’appello che riguardava tale deduzione, essendosi la corte limitata soltanto ad esaminare il riferimento alla possibilità di ricorso agli ammortizzatori sociali.

9. Come nono motivo, per tutti i lavoratori si deduce “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4 c. 3 della L. n. 223 del 1991; violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello che censura l’illegittima disapplicazione della norma ex art. 4 comma tre della legge 223/1991 sull’indicazione dei tempi di attuazione del programma di mobilità”.

Si lamenta che la Corte abbia confermato la sentenza di primo grado che aveva ritenuto che l’obbligo per l’azienda di indicare i tempi di attuazione del programma di mobilità sarebbe stato assolto con l’indicazione “nel più breve tempo possibile”: tale soluzione si scontrerebbe con la “ratio” della norma, consistente nella possibilità di esercitare un controllo da parte dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali nei confronti della procedura di licenziamento collettivo. Si lamenta inoltre che la Corte marchigiana non abbia esaminato il motivo d’appello formulato in relazione a tale aspetto.

10. Come decimo motivo, per tutti i lavoratori ricorrenti, si deduce “falsa applicazione e/o violazione dell’art. 4 commi 5, 6 e 7 della L.n. 223 del 1991; violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello che censura l’asserita rilevanza della violazione dei termini di cui all’articolo quattro, commi 5, 6 e 7”.

Si ribadisce che se l’interpretazione della Corte d’appello sulla valenza delle previsioni normative sul rispetto dei termini previsti dall’art. 4 fosse vera, la norma sarebbe inutile, non ripercuotendo alcuna conseguenza sulla legittimità della procedura di licenziamento. Si lamenta poi che la Corte nulla abbia detto con riferimento al motivo d’appello che censurava l’asserita irrilevanza della violazione dei termini suddetti.

11. Come undicesimo motivo, per tutti i lavoratori ricorrenti, si deduce “violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1175 e 1375 c.c.; violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo di appello che censura l’asserita non obbligatorietà della comunicazione relativa alle esternalizzazioni”.

Si lamenta che la Corte d’appello abbia ritenuto, non pronunciandosi sulle argomentazioni formulate negli appelli, che non vi sarebbe alcuna norma che obblighi l’azienda a comunicare l’intenzione di effettuare eventuali esternalizzazione di attività, con l’affermazione che viola e/o applica falsamente le norme che prevedono che le parti obbligate si comportino secondo correttezza e buona fede. Al contrario, l’obbligo di informare i lavoratori e le organizzazioni sindacali sulla situazione dell’azienda costituirebbe un preciso obbligo del datore di lavoro.

12. Come dodicesimo motivo, per tutti i lavoratori ricorrenti, si deduce “violazione e/o falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. 2709 c.c.; violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello con il quale si lamenta che il Tribunale non ha rilevato la non contestazione da parte dell’azienda della circostanza relativa al licenziamento di otto lavoratori anziché sette nel reparto assemblaggio, come oltretutto confermato dai cedolini depositati dall’azienda”.

Si ribadisce che l’azienda nella memoria difensiva di costituzione non aveva contestato la circostanza relativa al licenziamento di otto lavoratori nel reparto assemblaggio, circostanza oltretutto confermata dai cedolini, e ciò comporterebbe che la comunicazione di avvio della procedura con l’indicazione degli esuberi sarebbe stata disattesa.

13. Come tredicesimo motivo, per tutti i lavoratori ricorrenti di deduce “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 comma 1 lett. b) della L.n. 223 del 1991, per avere la Corte ritenuto ragionevole che l’azienda abbia applicato il criterio di scelta dell’anzianità con riferimento all’anzianità di servizio e non anagrafica”.

Si sostiene che tale interpretazione contrasterebbe con il sistema normativo e con la ratio della legge, in quanto si creerebbe un irragionevole “doppione” rispetto al criterio delle esigenze tecnico produttive ed organizzative; inoltre, la scelta del legislatore di attribuire valore al criterio dell’anzianità in senso anagrafico si giustificherebbe in una prospettiva solidaristica e socialmente orientata ai sensi degli articoli 2, 3, 4 e 41 Cost., sulla base della considerazione della maggiore difficoltà che incontra un lavoratore anagraficamente più anziano nel trovare una nuova occupazione.

14. Come quattordicesimo motivo, per tutti i ricorrenti, si lamenta “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 comma 1 lett. b) della L. n. 223 del 1991, per avere la Corte ritenuto ragionevole che l’azienda abbia considerato i carichi di famiglia secondo criteri fiscali, sulla base degli elementi risultanti dalla percezione degli assegni familiari, senza un accertamento della situazione familiare dei singoli lavoratori e del numero delle persone a suo carico.

15. Come quindicesimo motivo, per tutti i lavoratori, si deduce “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 4 e 5 della L.n. 223 del 1991 e dell’art. 2697 c.c., con riferimento all’asserita necessità di “effettuare una “prova di resistenza” mediante la comparazione del punteggio di tutti i lavoratori licenziati con il punteggio di tutti i lavoratori che licenziati non siano stati”; violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 132 comma due n. 4 c.p.c. per omessa motivazione”.

Si sostiene che l’interpretazione adottata dalla Corte d’appello in ordine alla necessità di tale “prova di resistenza” sarebbe in contrasto sia con le previsioni della procedimentalizzazione dei licenziamenti collettivi, sia con i relativi obblighi di comunicazione e informazione, sia con il contenuto dell’articolo 2697 c.c., ed imporrebbe al lavoratore una probatio diabolica, considerato che egli non dispone di strumenti per conoscere tutte le situazioni dei dipendenti dell’azienda.

16. Come sedicesimo motivo, per tutti i lavoratori, si deduce “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello con il quale si lamenta che il tribunale non ammette l’istruttoria sullo svolgimento di mansioni nei vari reparti e poi afferma che i ricorrenti non hanno offerto di provare tale circostanza”.

17. Come diciassettesimo motivo, per (…) , si deduce “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello che censura la contraddittorietà e illogicità della sentenza di primo grado tra la parte in cui essa riconosce che il lavoratore ha svolto anche la mansione di taglio dei profili e il passo successivo in cui si afferma che è stato adibito solo alle macchine a controllo numerico”.

18. Come diciottesimo motivo, per (…), (…), (…), si deduce “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello che censura il fatto che la sentenza di primo grado ha deciso sull’attribuzione di punteggi senza aver ammesso la prova testimoniale sulle mansioni svolte avendola ritenuta “irrilevante”.

19. Come diciannovesimo motivo, per (…) , si deduce “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello che censura la contraddittorietà della sentenza di primo grado che afferma, con riferimento all’attribuzione dei punteggi relativi ai carichi familiari, che la moglie e due figli non sono interamente a carico (e dunque lo sono almeno in parte), ma avalla la scelta dell’azienda di non tenerne affatto conto e con riferimento all’attribuzione dei punteggi relativi ai carichi familiari, che gli assegni di mantenimento sarebbero di misura irrisoria (mentre sono pari ad oltre il 25% del reddito del 2009 e ad oltre 115% del reddito del 2010 del lavoratore)”.

20. Come ventesimo motivo, per (…) 5 (…), (…), si lamenta “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.,

omesso esame del motivo d’appello che censura la violazione della normativa a tutela dell’occupazione femminile; violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 comma 2 della L.n. 223 del 1991 e dell’articolo 2697 c.c. nella parte in cui la Corte afferma che con riferimento alla discriminazione di genere “l’assunto potrebbe fondarsi soltanto su dati numerici specifici, suscettibili di fondare una presunzione di discriminazione. I dati sono stati contestati dalla società appellata che ha prospettato dati diversi. E gli appellanti non hanno replicato in proposito. Quindi le discriminazioni non possono essere ritenuta sussistente”; violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 132 comma due numero quattro c.p.c. per omessa motivazione.

Si sostiene che la soluzione adottata dalla Corte, oltre a non tenere conto delle argomentazioni degli appellanti, violerebbe sia l’art. 5 comma 2 della e n. 223 del 1991, che prevede che «L’impresa non può altresì collocare in mobilità una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione», sia l’art. 2697 cc, che prevede che «chi vuoi far valere un diritto giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento»: il lavoratore che lamenti l’illegittimità del licenziamento deve dedurre i dati numerici sulla base dei quali ritiene che vi sia stata una discriminazione e provarli; ciò è esattamente quanto hanno fatto le lavoratrici.

Queste infatti avevano indicato il totale dei lavoratori con mansioni di operaio che vi erano prima del licenziamento (106) e il numero di donne tra di essi (27); quindi avevano indicato il numero di lavoratori svolgenti mansioni da operai (54) e il numero di donne tra di essi (9). Ciò, hanno rilevato le lavoratrici, ha determinato la riduzione della percentuale di manodopera occupata dal 25,47% al 16,66% e comporta l’illegittimità dei licenziamenti.

Si aggiunge che le lavoratrici avevano dimostrato, sulla base dei cedolini di busta paga, dal libro matricola e dal LUL depositati dall’azienda, quali fossero le specifiche mansioni da ciascuna svolte, sicché anche a voler seguire la tesi del Tribunale secondo la quale il calcolo per il rispetto della percentuale di manodopera andrebbe fatto in base alle specifiche mansioni svolte dal lavoratore licenziato, la società avrebbe violato la disciplina a tutela dell’occupazione femminile.

Inoltre, l’affermazione della Corte secondo la quale “l’assunto della discriminazione potrebbe fondarsi soltanto su dati numerici specifici, suscettibili di fondare una presunzione di discriminazione, ma i dati fomiti dalle lavoratrici sono stati contestati dalla società appellata (che ha prospettato dati diversi), senza che gli appellanti abbiano replicato in proposito, così che le discriminazioni non possono essere ritenute sussistenti”, sarebbe immotivato e violerebbe l’art. 2697 cc che prevede che chi agisce in giudizio debba provare i fatti che fondano il diritto fatto valere, e non anche la contro-contestazione dei fatti come prospettati dalla controparte, essendo semmai onere del giudice accertare quale delle due prospettazioni sia fornita di prova (evidentemente quella delle lavoratrici, fondata sulle prove documentali del LUL, del libro matricola e dei cedolini di busta paga). La società peraltro non aveva contestato i dati numerici, ma semmai i criteri da prendere in considerazione per il calcolo delle percentuali (qualifica o mansioni).

21. Come ventunesimo motivo, per (…) e (…) si deduce “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.; omesso esame del motivi d’appello con il quale si censura la sentenza del Tribunale nella parte in cui ha omesso di considerare la prova del collocamento obbligatorio conseguentemente di dichiarare la violazione della quota del collocamento obbligatorio”.

22. Come ventiduesimo motivo, per (…) e (…) si deduce: “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello con il quale si censura l’omessa pronuncia da parte del tribunale sul carattere discriminatorio del licenziamento ai sensi del combinato disposto degli art. 2 comma uno del D.lgs n. 216 del 2003 e 15 della legge n. 300 del 1970 conseguentemente alla mancata ammissione da parte del tribunale, in quanto irrilevante, della prova testimoniale sulle circostanze di fatto relativa all’effettivo svolgimento delle mansioni dedotte”.

23. Come ventitreesimo motivo, per (…) si deduce “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello con il quale si censura la sentenza di primo grado in quanto viziata da contraddittorietà ed illogicità dal momento che non ammette la prova testimoniale, perché la considera irrilevante però la prende in considerazione con riferimento al periodo di svolgimento delle mansioni diverse”.

24. Come ventiquattresimo motivo, per (…) si deduce: “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello con il quale si censura il capo della sentenza di primo grado sul divieto di licenziamento in periodo di fruizione del congedo straordinario”.

25. Come venticinquesimo motivo, per (…) si deduce: “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello con il quale si censura la sentenza di primo grado nella parte in cui ha omesso di rilevare la piena prova per mancata contestazione della controparte ex articolo 115 comma uno c.p.c. sia con riferimento alla circostanza che i lavoratori non licenziati (…), (…), (…), (…); hanno appresso la propria professionalità del Signor (…) sia con riferimento alla circostanza che il signor (…) è un operaio specializzato”.

26. Come ventiseiesimo motivo, per (…) si deduce: “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello con il quale si censura la sentenza di primo grado nella parte in cui ha omesso qualsiasi pronuncia sull’ illegittima valutazione e quantificazione dell’anzianità”.

27. Come ventisettesimo motivo, per (…) si deduce: “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello con il quale si censura la contraddittorietà della sentenza di primo grado che ha ritenuto che il signor (…) non abbia precisato né offerto di precisare la circostanza relativa allo svolgimento di mansioni nei vari reparti, nonostante tale circostanza sia stata capitolata e ne sia stata chiesta la prova del ricorso introduttivo”.

28. Come ventottesimo motivo, per (…) si deduce: “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello con il quale si censura la contraddittorietà della sentenza di primo grado che ha ritenuto che il signor (omissis) non abbia dimostrato di avere familiari a proprio carico nonostante egli abbia formulato nel ricorso introduttivo del giudizio la richiesta di ordinare all’ambasciata del (…) l’esibizione del certificato attestante lo stato di famiglia e i carichi di famiglia e il tribunale non l’abbia ammessa, non pronunciandosi su tale richiesta”.

29. Come ventinovesimo motivo, per (…) e (…) si deduce: “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello con il quale si censura la contraddittorietà della sentenza di primo grado che ha ritenuto che i signori (…) e (…) non abbiano precisato né offerto di precisare la circostanza relativa lo svolgimento di mansioni nei vari reparti, nonostante tale circostanza sia stata capitolata e mi sia stata chiesta la prova nel ricorso introduttivo”.

30. Come trentesimo motivo, per (…) si deduce: “violazione o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello con il quale si censura la sentenza di primo grado nella parte in cui la stessa viola il principio del chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c. con riferimento all’illegittima valutazione e quantificazione dell’anzianità”.

31. Come trentunesimo motivo, per (…) si deduce: “violazione o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello con il quale si censura la sentenza di primo grado nella parte in cui la stessa omette di  rilevare la piena prova per mancata contestazione della controparte ex articolo 115 comma uno c.p.c. del fatto che il signor (…) era addetto all’officina al momento del licenziamento e non all’ossidazione con conseguente illegittimità della procedura”

32. Come trentaduesimo motivo, per (…) si deduce: “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello con il quale si censura la sentenza di primo grado nella parte in cui omette qualsiasi pronuncia sul peso riconosciuto al criterio delle esigenze produttive ed organizzative rispetto ad altre”.

33. Come trentatreesimo motivo, per (…) si deduce: “violazione o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello con il quale si censura la sentenza di primo grado nella parte in cui, ritenuta la causa matura per la decisione, non ammette la prova sullo svolgimento di mansioni in altri reparti e afferma che la signora (…) non abbia offerto di provare tale circostanza”.

34. Come trentaquattresimo motivo, per (…) si deduce: “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello con il quale si censura la sentenza di primo grado nella parte in cui, ritenuta la causa matura per la decisione, non ammette la prova sullo svolgimento di mansioni in altri reparti”.

35. Come trentacinquesimo motivo, per (…) e (…) si deduce: “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello con il quale si censura la sentenza di primo grado nella parte in cui, ritenuta la causa matura per la decisione, non ammette la prova sul svolgimento di mansioni in altri reparti”.

36. Come trentaseiesimo motivo, per tutti i lavoratori si deduce: “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame del motivo d’appello con il quale si censura l’omessa motivazione da parte del Tribunale in merito al carattere non discriminatorio dei licenziamenti sotto il profilo sindacale; violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c. e dell’articolo 15 della L.n. 300 del 1970 da parte della sentenza della Corte, nella parte in cui afferma che con riferimento alla discriminazione sindacale l’assunto “potrebbe fondarsi soltanto su dati numerici specifici, suscettibili di fondare una presunzione di discriminazione. I dati sono stati contestati dalla società appellata, che ha prospettato dati diversi. E gli appellati non hanno replicato in proposito. Quindi le discriminazioni non possono essere ritenute sussistenti”; violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 132 comma 2 n. 4 c.p.c. per omessa motivazione”.

Si lamenta che la Corte territoriale non si sia pronunciata sul relativo motivo d’appello e si sostiene che l’affermazione sopra riportata violerebbe articolo 2697 c.c. Si riferisce che con gli atti di appello le sentenze di primo grado erano state censurate perché il Tribunale non aveva motivato con riferimento al fatto che non vi sarebbe stato alcun intento discriminatorio, rimuovendo le risultanze delle trattenute sindacali riportate nei cedolini di busta paga depositati dall’azienda: come accertato dalle sentenza di primo grado, prima dei licenziamenti collettivi in azienda erano occupati 66 lavoratori iscritti alla Fiom Cgil su 118 mentre dopo i licenziamenti i lavoratori iscritti alla Fiom Cgil sono 29 su 60 in termini assoluti la Fiom Cgil si è vista quindi licenziare più di metà degli iscritti. Inoltre, l’affermazione della Corte violerebbe l’articolo 2697 c.c. che prevede che chi agisce in giudizio debba provare i fatti che fondano il diritto fatto valere e non anche la controcontestazione dei fatti come prospettati dalla controparte, essendo semmai onere del giudice accertare quale delle due prospettazioni sia fornita di prova.

37. Come trentasettesimo ed ultimo motivo, per tutti i lavoratori si deduce: “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c. nella parte in cui la sentenza della Corte pronuncia ultra petita, non essendo state devolute alla cognizione del giudice d’appello: la sussistenza di un errore imprenditoriale nella limitazione dei licenziamenti collettivi, la sussistenza di un solo opificio, il ricorso collaborazioni con partite Iva, la scelta del criterio delle mansioni svolte con riferimento all’idoneità allo svolgimento di diverse mansioni”.

II. Esame dei motivi.

1. Occorre premettere che costituisce orientamento consolidato di questa Corte (Cass. n. 17049 del 20/08/2015, n. 21083 del 07/10/2014) quello secondo il quale è inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non siano compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’ esame dei fascicoli di ufficio o di parte.

Nel caso, gli atti processuali sono stati riportati con la tecnica dell’assemblaggio,essendo trascritti gli atti introduttivi , le sentenze di primo grado ed i ricorsi in appello nelle prime 106 pagine del ricorso.

Parimenti reiterato è l’assunto secondo il quale la modalità con cui l’atto iniziale è stato confezionato (cosiddetto “assemblaggio”) può determinare la violazione – per eccesso – del principio di autosufficienza, quando la riproduzione integrale di una serie di atti processuali sia effettuata con modalità tali da richiederne una lettura integrale, onde effettuare la selezione di quanto effettivamente rilevante in ordine ai motivi di ricorso (Sez. U, n. 5698 del 11/04/2012, Cass. ord. n. 17002 del 09/07/2013); di contro, non può profilarsi alcuna violazione del predetto principio quando alla riproduzione degli atti si accompagni una parte espositiva che contenga una chiara sintesi dei punti rilevanti per la risoluzione della questione dedotta (Cass. Sez. U, ord. n.4324 del 24/02/2014; Cass. ord. n. 20393 del 22/09/2009).

Nel caso, dopo avere trascritto come detto gli atti processuali con la tecnica dell’assemblaggio, i ricorrenti nel corpo di quasi tutti i motivi formulati per “violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.; omesso esame di un motivo d’appello” non richiamano specificamente né il passaggio dell’atto di appello in cui il motivo è stato formulato, né le ragioni per le quali la valutazione (asseritamente omessa) del motivo sarebbe stata idonea a determinare una diversa decisione.

Ciò determina l’inammissibilità dei motivi rubricati ai nn. 1, 2, 3, 5, 16, 17, 18, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35.

2. Occorre altresì premettere che al presente giudizio si applica ratione temporis la formulazione dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. introdotta dall’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che prevede come quinto motivo di ricorso per cassazione “l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. La disposizione ha modificato la precedente locuzione , che contemplava 1’ “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, introdotta dalla riforma del giudizio di Cassazione operata con la legge n. 40 del 2006, che aveva a sua volta sostituito il concetto di “punto decisivo della controversia” con quello di “fatto controverso e decisivo”.

Gli aspetti salienti della riforma consistono in primo luogo nell’eliminazione del riferimento alla motivazione, sicché si è rilevato che l’eventuale carenza o difetto di tale parte della sentenza può avere rilievo solo ove trasmodi in vizio processuale ex art. 360 n. 4) c.p.c.

E’ stato invece mantenuto il riferimento al “fatto controverso e decisivo”, in relazione al quale l’elaborazione sviluppatasi nella giurisprudenza di questa Corte aveva già chiarito che per tale deve intendersi “un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè un fatto costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo) o anche, secondo parte della dottrina e giurisprudenza, un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso e decisivo.” (così, Cass. 29 luglio 2011, n. 16655, conf., Sez. L, Sentenza n. 18368 del 31/07/2013; Cass. (ord.) 5 febbraio 2011, n. 2805).

Le Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 8053 del 07/04/2014 hanno al riguardo precisato che, con la riformulazione dell’art. 360, n. 5 cit., è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione.

In tal senso, la lacunosità e la contraddittorietà della motivazione possono essere censurate solo quando il vizio sia talmente grave da ridondare in una sostanziale omissione, né può fondare il motivo in questione l’omesso esame di una risultanza probatoria, quando essa attenga ad una circostanza che è stata comunque valutata dal giudice del merito.

Sulla base di tali premesse, per tutti i motivi formulati sotto il profilo del vizio di motivazione, prescindendo dalla poco indicativa rubrica di stile, è da escludere che ci si trovi innanzi a una di quelle patologie estreme dell’apparato argomentativo tale da rientrare in quel “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, delineato dalle Sezioni Unite, considerato che gli aspetti riguardati sono stati tutti esaminati dalla Corte territoriale, sicché la motivazione non può dirsi omessa, né può quindi procedersi in questa sede a nuova valutazione delle medesime circostanze.

3. Passando quindi ad esaminare i restanti motivi sotto i profili ulteriori rispetto a quelli che – per i motivi sopra indicati – risultano inammissibili, ne risulta che i motivi n. 4 e 8, da trattarsi congiuntamente in quanto connessi, non sono fondati.

In relazione alla necessità che il datore di lavoro, per assolvere l’onere imposto dall’art. 4 comma 3 della L. n. 223 del 1991, deduca e dimostri la non programmabilità di eventuali azioni per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale della procedura, e non solo con riferimento agli ammortizzatori sociali, questa Corte ha affermato, con orientamento cui occorre dare continuità, che la comunicazione di avvio della procedura ex art. 4, comma 3, della legge 23 luglio 1991, n. 223 rappresenta una cadenza essenziale per la proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato e per la trasparenza del processo decisionale del datore di lavoro, e che il lavoratore è legittimato a far valere l’incompletezza dell’informazione (Cass. n. 6959 del 20/03/2013, n. 5582 del 06/04/2012). Si è poi aggiunto, nella vigenza del testo del comma 12 dell’art. 4 della L. n. 223 del 1991 anteriore alle modifiche apportatevi dalla L. n. 92 del 2012, che il successivo raggiungimento di un accordo sindacale, pur essendo rilevante ai fini del giudizio retrospettivo sull’adeguatezza della comunicazione, non sana “ex se” il “deficit” informativo, atteso che il giudice di merito può accertare che il sindacato partecipò alla trattativa, sfociata nell’intesa, senza piena consapevolezza dei dati di fatto (Cass. n. 5582 del 06/04/2012, cit., Cass. n. 7490 del 2015). La comunicazione, in quanto atto di avvio, deve quindi essere adeguata e completa proprio per consentire l’effettiva partecipazione sindacale al processo decisionale che conduce alla riduzione di personale. Quanto detto non comporta però che la comunicazione di apertura debba contenere tutti gli elementi che caratterizzeranno il successivo accordo, né tantomeno gli estremi del futuro licenziamento collettivo, compresa l’individuazione specifica dei singoli lavoratori in esubero, essendo richiesta solo, a tale proposito, l’indicazione del numero, della collocazione aziendale e dei profili professionali del personale eccedente nonché del personale abitualmente impiegato; l’individuazione dei lavoratori da licenziare in concreto può infatti essere effettuata solo dopo la consultazione sindacale e la definizione delle caratteristiche qualitative e quantitative della riduzione di personale, in applicazione dei criteri di scelta come previsti dall’art. 5 della stessa L. n. 223.

Nel caso, non risulta peraltro che le informative fossero idonee in concreto a fuorviare o ledere l’esercizio dei poteri di controllo preventivo attribuiti alle organizzazioni sindacali, con ricadute pregiudizievoli per i lavoratori, considerato che la Corte ha argomentato in ordine alla non praticabilità del ricorso agli ammortizzatori sociali, né è stato dedotto che vi fossero possibilità sottaciute alla parte sindacale.

4. I motivi n. 6, 7 e 11, da valutarsi congiuntamente in quanto connessi, sono inammissibili.

La Corte ha motivato in merito al ricorso della società al lavoro straordinario ed alle esternalizzazioni, come riportato nello storico di lite, formulando un giudizio di valore, desunto dal rapporto tra il ricorso agli straordinari ed alle esternalizzazioni e la situazione aziendale nella quale si collocavano. Il motivo si traduce quindi nella richiesta di una diversa valutazione del materiale probatorio, che non è specificamente confutata con riferimento a circostanze che sarebbero state ignorate o travisate, né viene dedotto in quale sede sarebbe stata ritualmente dedotta prova testimoniale sul punto, che si asserisce non ammessa.

5. I motivi n. 9 e 10. da valutarsi congiuntamente in quanto connessi, non sono fondati.

In tema di procedura di mobilità, il datore di lavoro, nella comunicazione preventiva con cui dà inizio alla stessa, deve compiutamente e correttamente adempiere l’obbligo di fornire le informazioni specificate dall’art. 4, comma terzo, della legge n. 223 del 1991. La valutazione dell’ adeguatezza della comunicazione spetta tuttavia al giudice di merito, e dev’essere compiuta anche in relazione al fine che la comunicazione stessa persegue, che è quello di sollecitare e favorire la gestione contrattata della crisi (Cass. n. 84 del 07/01/2009, n. 9015 del 05/06/2003). Nel caso in esame, la Corte di merito ha ritenuto che la mancanza di una specifica indicazione dei tempi di attuazione del programma (realizzata mediante l’inciso “nel più breve tempo possibile”) non determinasse un pregiudizio per la correttezza dell’operazione di riduzione di personale, non essendo stata denunciata né essendo configurabile alcuna incidenza sulla partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato e sulla trasparenza del processo decisionale datoriale. Trattasi di argomentazione idonea a superare quindi la censura proposta, che neppure individua quali sarebbero state in concreto le ripercussioni di tale mancata specificazione.

6. Il motivo n. 12 è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza del ricorso, che risulta ora tradotto nelle puntuali e definitive disposizioni contenute negli artt. 366, co. 1, n.6 e 369, co. 2, n. 4 cod. proc. civ.

Non viene specificato infatti da quali circostanze fattuali risulterebbe la discrasia tra la comunicazione di apertura della procedura e la comunicazione finale, né il contenuto di tali comunicazioni viene riprodotto nel ricorso od allegato allo stesso, sicché neppure è possibile comprendere l’incidenza della questione denunciata.

7. I motivi n. 13, 14 e 15 attengono all’applicazione dei criteri di scelta legali.

Essi sono inammissibili e comunque infondati.

Occorre premettere che grava sul datore di lavoro l’onere di allegazione dei criteri di scelta applicati e la prova della loro piena applicazione individuale nei confronti dei lavoratori licenziati, con indicazione, in relazione a ciascuno di questi ultimi (qualora siano stati utilizzati i criteri legali dei carichi familiari, della anzianità e delle esigenze tecnico produttive) dello stato familiare, dell’anzianità e delle mansioni, mentre grava sul lavoratore l’onere di dimostrare l’illegittimità della scelta, con indicazione dei lavoratori in relazione ai quali la scelta sarebbe stata falsamente o illegittimamente applicata (Cass. 5358/98; Cass. 5718/99; Cass. 12711/2000).

Nel caso, le censure non sono accompagnate da tale seconda indicazione, considerato che, al di là della generica doglianza di errata applicazione del criterio, non risulta quali ne sarebbero state le conseguenze nel caso concreto, neppure con riferimento ad uno solo dei lavoratori non licenziati.

7.1. Si aggiunge che neppure sono fondate le critiche mosse dai ricorrenti all’interpretazione data dalla Corte di merito ai criteri di scelta previsti dall’art. 5 della L. n. 223 del 1991.

In merito al criterio dell’ anzianità, il riferimento all’anzianità di servizio è stato ritenuto corretto da questa Corte nelle pronunce n. 2046 del 2012 (ord.), n. 4685 del 1997 e n. 9169 del 2000, quest’ultima con riferimento all’analoga locuzione contenuta nell’art. 2 u.c. dell’Accordo interconfederale del 5 maggio 1965, ed a tale soluzione occorre dare continuità, per la ragionevolezza dell’opzione ermeneutica che privilegia la professionalità acquisita dal dipendente e la “fedeltà” all’azienda.

7.2. Quanto ai carichi di famiglia, il criterio è stato copiato dal citato accordo interconfederale del 1965, il quale a sua volta era ispirato a quello del 1950 ove era previsto anche uno specifico criterio avente ad oggetto la “situazione economica”. Dal riferimento ai “carichi” e dalla necessità di tutelare maggiormente i lavoratori più onerati discende che la valutazione deve avere riguardo al fabbisogno economico determinato dalla situazione familiare e quindi alle persone effettivamente a carico del lavoratore, come comunicate al datore di lavoro, e non solo alla situazione che determina il diritto alla fruizione degli assegni familiari, che può quindi risultare riduttiva.

Il lavoratore deve però deve indicare quali sarebbero e da dove risulterebbero gli elementi non valutati ed ulteriori rispetto a quelli risultanti dalla fruizione degli assegni familiari, che determinerebbero risultati differenti ai fini della graduatoria dei licenziandi. Nel caso, infatti, si addebita alla Corte di avere fatto riferimento a criteri “fiscali e non civilistici”, senza specificare la doglianza esplicitando in che cosa in concreto ciò si sia tradotto, sicché il motivo risulta per tale aspetto inammissibilmente generico.

8. Il motivo n. 19 è inammissibile.

Non risulta quali circostanze fattuali sarebbero state erroneamente valutate o travisate, neppure venendo trascritta e allegata la dichiarazione dei redditi del (…). Non risulta inoltre quale sia l’incidenza della valutazione sul punteggio finale e sulla graduatoria dei licenziati.

9. Neppure il motivo n. 20 è fondato.

L’art. 5 comma 2 della L. n. 223 del 1991 prevede che “Nell’operare la scelta dei lavoratori da collocare in mobilità, l’impresa è tenuta al rispetto dell’articolo 9 ultimo comma, del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, della legge 25 marzo 1983, n. 79. L’impresa non può altresì collocare in mobilità (“licenziare” per effetto della modifica apportata dall’art. 2 comma 73 della L. 92/2012) una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione”.

In proposito, questa Corte ( sent. n. 14206 del 05/06/2013) ha chiarito che “in tema di comportamenti datoriali discriminatori, l’art. 40 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 – nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità – non stabilisce un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime probatorio ordinario, prevedendo a carico del soggetto convenuto, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia Ue 21 luglio 2011, C-104/10), l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma ciò solo dopo che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamentati, purché idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso”.

La Corte territoriale si è quindi attenuta a tali principi, laddove ha affermato che la sussistenza della discriminazione avrebbe potuto fondarsi soltanto su dati numerici specifici, che nel caso difettavano avendo la società contestato i dati numerici fomiti dalle ricorrenti.

Nel ricorso peraltro le stesse riproducono le deduzioni fattuali riportate nei ricorsi di primo grado in merito ai dati numerici relativi all’asserita discriminazione per ragione di sesso, senza riprodurre né allegare la documentazione che richiamano a sostegno e senza tenere conto dello sviluppo processuale che ha portato il Tribunale a disattenderle, con valutazioni che sono state confermate nella motivazione della Corte d’appello.

Né tale ricostruzione può essere censurata sotto il profilo del vizio di motivazione, per essere stata la questione esaminata nella motivazione della Corte territoriale.

10. Il motivo n. 36 è inammissibile.

Fermo restando che l’onere di deduzione dei dati fattuali che determinerebbero la denunciata discriminazione resta a carico del denunciante, anche in tale caso la Corte di merito ha ritenuto che tali dati fattuali non fossero risultati, all’esito della ricostruzione delle deduzioni e della posizione processuale assunta dalle parti. Ricostruzione che, sotto il profilo della valutazione delle risultanze fattuali, non può essere qui posta in discussione.

11. Il motivo n. 37 è inammissibile per difetto di interesse dei lavoratori, considerato che la motivazione della Corte territoriale su circostanze di fatto non devolute al suo esame ( e sulle quali la sentenza del Tribunale aveva disatteso le loro prospettazioni) non ha determinato un pregiudizio sotto il profilo processuale né decisionale.

III. Conclusioni.

Conclusivamente, il ricorso dev’essere rigettato.

La complessità dell’accertamento fattuale compiuto dai giudici di merito e l’essere intervenuti solo successivamente alla proposizione del ricorso i chiarimenti delle Sezioni Unite di questa Corte in ordine alla portata della riformulazione dell’art. 360, n. 5), cod. proc. civ., disposta con l’art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, determinano la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.

In considerazione della data di notifica del ricorso, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al primo periodo dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dal comma 17 dell’art. 1 della Legge 24 dicembre 2012, n. 228, ai fini del raddoppio del contributo unificato per i casi di impugnazione respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile.

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.