CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 17950 depositata il 22 giugno 2023
Lavoro – Licenziamento – Reintegrazione del lavoratore – Risarcimento – Mobilità – Graduatoria – Articolo 5, Legge n. 223/1991 – Criteri di scelta oggettivi – Esigenze tecnico produttive – Inammissibilità
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Catanzaro, con la sentenza impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado, ha annullato il licenziamento intimato ad A.G., addetto al reparto tubi, da C.M.S. s.p.a., all’esito di una procedura ex lege n. 223 del 1991, condannando la società alla reintegrazione del lavoratore oltre al risarcimento nella misura pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto ex art. 18, comma 4, legge n. 300 del 1970.
2. La Corte ha accolto il secondo e il terzo motivo di gravame del lavoratore reclamante, i quali censuravano sia “la scelta della società di selezionare il personale da collocare in mobilità facendo riferimento a quello addetto al settore da sopprimere, ossia il reparto tubi, cui era addetto l’odierno reclamante, anziché tenendo conto di tutti gli operai addetti all’attività produttiva nel suo complesso, stante la fungibilità delle mansioni”, sia “l’attribuzione del punteggio massimo di 50 punti a seconda delle mansioni espletate”.
Ha premesso in fatto che nella comunicazione di chiusura della procedura ex art. 4, comma 9, l. n. 223 del 1991, la società, nel dare atto di come erano stati applicati i criteri di scelta, aveva stilato una graduatoria che, avuto riguardo al criterio delle esigenze tecnico produttive, valorizzava quattro aspetti nell’attribuzione dei punteggi: il livello (per cui veniva assegnato un punteggio decrescente a seconda del livello di inquadramento); il reparto (per cui venivano attribuiti 5 punti ai dipendenti addetti al reparto mescole che era destinato a rimanere in funzione e 0 punti ai dipendenti addetti al reparto tubi soppresso); la mansione (con l’attribuzione di 50 punti come massimo a ciascun dipendente a seconda del profilo professionale e, quindi, della mansione svolta); la fungibilità (con l’attribuzione di 10 punti ai dipendenti con profilo professionale fungibile e 0 punti ai dipendenti con profilo professionale infungibile).
La Corte, poi, esaminando le difese della reclamata, ha così argomentato: “per stessa ammissione della società, gli operai erano stati addestrati all’uso dei nuovi macchinari in funzione presso il reparto mescole – e tra questi il Sig. G. – e, quindi, erano in grado di lavorare, indifferentemente, presso l’uno e l’altro reparto, tant’è che viene prevista l’attribuzione di un punteggio massimo di 10 punti per ‘fungibilità delle mansioni’. Pertanto, l’attribuzione del punteggio pari a 0 per gli addetti al reparto tubi e pari a 5 per quelli del reparto mescole appare del tutto irrazionale”. Ha aggiunto: “Considerazioni analoghe valgono per l’attribuzione del punteggio massimo di 50 punti in relazione alle mansioni svolte. Invero, la società sostiene la centralità, nel processo produttivo, delle figure professionali di mescolatorista e bamburista, e tanto dovrebbe giustificare, dal punto di vista logico, l’attribuzione di tale punteggio ai soli operai che a queste mansioni sono adibiti; sennonché, dalla disamina dell’elenco allegato alla comunicazione ex articolo 4, comma nove, emerge che il punteggio di 50 è stato attribuito anche a dipendenti con mansioni diverse dalle suddette”. La Corte territoriale ha, quindi, concluso: “Va dunque condivisa l’affermazione del reclamante secondo cui i sotto-criteri del criterio delle esigenze tecnico produttive presentano margini di discrezionalità ed irrazionalità che non consentono il controllo sulla correttezza delle scelte operate”.
3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente con un motivo articolato in plurime censure; ha resistito con controricorso l’intimato.
La Procura Generale ha depositato memoria scritta, concludendo per il rigetto del ricorso.
La parte ricorrente ha comunicato memoria ex art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Il motivo di ricorso è rubricato “Violazione e falsa applicazione dell’art. 5 l. n. 223 del 1991 – violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. – error in procedendo – error in iudicando” e si articola promiscuamente su più censure, tra la violazione e falsa applicazione di legge, l’invocazione del canone della violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e la nullità della sentenza per apparenza di motivazione.
Si critica la sentenza impugnata per non avere fatto buon governo del disposto di cui all’art. 5, l. n. 223/1991, avendo la Corte d’Appello di fatto travalicato i limiti del sindacato giudiziale in materia di licenziamento, atteso che i criteri di attribuzione del punteggio delle mansioni devono ritenersi insindacabili o, quantomeno, non possono giudicarsi apoditticamente irrazionali; si deduce la “erronea valutazione degli atti di causa” o comunque “un non corretto apprezzamento delle emergenze processuali”; si sostiene che la Corte territoriale avrebbe introdotto fatti nuovi e si contesta che la stessa, “mediante una motivazione apparente e fondata su di una categoria quasi metafisica quale quella della irrazionalità”, finisce per affermare la violazione dell’art. 5, l. n. 223/1991 “a prescindere”; si eccepisce che, anche a voler ritenere l’irrazionalità dei punteggi, dalla stessa non potrebbe derivare automaticamente l’illegittimità del licenziamento, ma, semmai, una verifica dei suoi effetti in termini di riformulazione della graduatoria dei lavoratori da licenziare.
2. Il Collegio giudica il ricorso inammissibile.
2.1. Opportuno premettere taluni principi regolatori della materia, più volte ribaditi da questa Corte (ancora da ultimo v. Cass. n. 33623 del 2022).
La legge n. 223 del 1991, art. 5, comma 1, stabilisce che “l’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati di cui all’art. 4, comma 2, ovvero, in mancanza di questi contratti, nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: a) carichi di famiglia; b) anzianità; c) esigenze tecnico-produttive ed organizzative”.
A mente dell’art. 4, comma 9, della stessa legge, l’impresa deve comunicare per iscritto agli organi competenti, tra l’altro, la “puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all’art. 5, comma 1”.
Dalla lettura di tali disposizioni emerge che, per garantire la trasparenza della procedura, il criterio o i criteri prescelti devono essere oggettivi e non possono trovare applicazione discrezionale. Un criterio basato sulla discrezionalità non è verificabile, mentre la legge impone “il rispetto dei criteri” e quindi dà per presupposto che la loro applicazione sia verificabile. Un criterio non verificabile, in realtà, non è un criterio di scelta, è un diverso modo di fondare il potere di scelta, che prescinde dal rispetto di un criterio oggettivo (cfr. Cass. n. 12544 del 2011). Non vi può essere un’area residua di discrezionalità di scelta da parte del datore di lavoro nella quale non risulti operante un criterio predeterminato, al fine di evitare che egli possa scegliere a sua discrezione quali lavoratori in concreto licenziare in occasione di una riduzione di personale (Cass. n. 10424 del 2012). Nella giurisprudenza di questa Corte si è specificato dunque che, ai fini della individuazione dei lavoratori da collocare in cassa integrazione o da porre in mobilità, i criteri di scelta devono consentire di formare una graduatoria rigida che consenta di essere controllata, non potendo sussistere un margine di discrezionalità da parte del datore di lavoro (cfr.: Cass. n. 6765 del 2002; Cass. n. 14728 del 2006; Cass. n. 6841 del 2010; Cass. n. 5582 del 2012). Persino nel caso in cui sia stato individuato un unico criterio di scelta, di per sé oggettivo, costituito dalla presenza in capo ai lavoratori dei requisiti per il collocamento in pensione, si è ritenuto che tale criterio possa divenire illegittimo in tutti i casi in cui la scelta contiene un elemento di discrezionalità tale da vanificare la trasparenza della procedura regolata dalla legge n. 223 del 1991 (Cass. n. 1938 del 2011; Cass. n. 9866 del 2007; Cass. n. 21541 del 2006; Cass. n. 12781 del 2003). Si è aggiunto che se il datore di lavoro comunica un criterio vago, il lavoratore è privato della tutela assicuratagli dalla legge predetta, perché la scelta in concreto effettuata dal datore di lavoro non è raffrontabile con alcun criterio oggettivamente predeterminato (Cass. n. 23041 del 2018) e si finirebbe in realtà per predicare l’assoluta discrezionalità del datore di lavoro nell’individuazione dei lavoratori da licenziare (cfr. Cass. n. 27165 del 2009; Cass. n. 16588 del 2004). Ancora da ultimo si è ribadito che i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità devono essere, tutti ed integralmente, basati su elementi oggettivi e verificabili, in modo da consentire la formazione di una graduatoria rigida e da essere controllabili in fase applicativa, e non possono implicare valutazioni di carattere discrezionale, neanche sotto forma di possibile deroga all’applicazione di criteri in sé oggettivi (Cass. n. 10119 del 2022).
2.2. Ciò posto, chiaramente la valutazione nella fattispecie concreta della oggettività del criterio di scelta, finanche laddove concordato con le organizzazioni sindacali, e del margine di discrezionalità lasciato al datore di lavoro che risulti incompatibile con le esigenze di trasparenza e verificabilità della procedura spetta al giudice del merito (così Cass. n. 33623/2022 cit.).
E’ quanto accaduto nella controversia all’attenzione del Collegio, laddove la Corte di Appello, evidentemente consapevole dei principi di diritto innanzi richiamati, ha ritenuto che, pur in presenza di una graduatoria, il criterio elaborato nella specie avuto riguardo alle esigenze tecnico produttive presentasse “margini di discrezionalità ed irrazionalità che non consentono il controllo sulla correttezza delle scelte operate”, esprimendo un apprezzamento di merito che non è suscettibile di sindacato in questa sede di legittimità, tanto più quando si lamenta – come nel motivo in esame – una “erronea valutazione degli atti di causa” o comunque “un non corretto apprezzamento delle emergenze processuali”.
Invero, è condiviso il principio di questa Corte per il quale è inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione o falsa applicazione di norme di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio o di omessa pronuncia miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (vedi, per tutte: Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019 e Cass. n. 8758 del 2017).
3. Conclusivamente il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con spese regolate secondo soccombenza e liquidate come da dispositivo, con attribuzione all’Avv. T.F.P. che ha dichiarato di averne fatto anticipo.
Occorre, altresì, dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012, per il pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ove dovuto (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%, da distrarsi.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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