CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 27474 del 30 dicembre 2016
IN FATTO
La L s.r.l. propone ricorso, con quattro motivi, per la cassazione della sentenza n. 17/12/09, pronunciata il 17/11/2008 e depositata il 18/2/2009, della Commissione Tributaria Regionale del Lazio, che ha accolto l’appello proposto dal Comune di Roma avverso la decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Roma che aveva rilevato la tardività, ai sensi dell’art. 31 D.Lgs. n. 546 del 1992, del deposito dei documenti destinati a provare la notifica degli avvisi di accertamento ICI, per gli anni d’imposta dal 1998 al 2002, atti prodromici alla cartella di pagamento impugnata dalla contribuente, e dichiarato la decadenza dall’esercizio del potere di accertamento, ai sensi dell’art. 11 D.Lgs. n. 504 del 1992. Osservava il Giudice di appello, in particolare, che la documentazione prodotta, sia pure tardivamente, in primo grado, poteva essere valutata ai fini della decisione in sede di gravame e che la stessa dimostrava l’intervenuta notificazione degli avvisi di accertamento ICI direttamente a mezzo del servizio postale e, dunque, la legittimità della successiva cartella di pagamento impugnata dalla società Lancio. Il Comune di Roma ed Equitalia Gerit s.p.a. resistono con controricorso.
IN DIRITTO
La ricorrente deduce, con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., violazione dell’art. 11, comma 2, D.Lgs. n. 504 del 1992, trovando applicazione l’art. 32, comma 1, D.Lgs. n. 546 del 1992, giacché la CTR ha escluso la fondatezza della eccezione di decadenza del Comune di Roma, costituitosi nel giudizio di primo grado all’udienza di discussione, dalla facoltà di depositare documentazione (“copia dei cinque avvisi di accertamento e copia della distinta di consegna e di un avviso di ricevimento relativo alla A/R n. 116008990360”) al fine di dimostrare la ritualità della notificazione degli avvisi di accertamento prodromici alla cartella di pagamento n. 09720050016183981, contenuti in un’unica busta raccomandata, oggetto d’impugnazione. Conclude con la formulazione del quesito di diritto con cui si chiede che la Corte dica “se nel caso in cui si verifichi la violazione della disposizione di cui all’art. 32 D.Lgs. n. 546/1992, la decisione non può basarsi sulla documentazione tardivamente prodotta in violazione del termine perentorio di cui all’art. 32 D.Lgs. n. 546/1992 e che avendo ad oggetto tale produzione documentale atti ortodromici alla cartella di pagamento, in mancanza di prova della loro notificazione, la susseguente cartella di pagamento debba ritenersi nulla per la violazione della disposizione di cui all’art. 11 del D.Lgs. n 504/1992, e se, quindi, la CTR abbia errato nel non accogliere l’eccezione di decadenza formulata dalla parte ricorrente, ritenendo formatasi la prova in ordine alla notificazione degli atti prodromici alla notificazione della cartella di pagamento. Dica, quindi, la Corte che ove intervenga la produzione documentale oltre il termine perentorio di cui all’art. 32 del D.Lgs. n. 546/1992, comporti la nullità della successiva attività processuale posta in essere dalla parte che a tale tardività ha dato luogo, per violazione delle disposizioni di cui all’art. 11 del D.Lgs. n 504/1992 e, se, quindi, abbia errato la CTR nel non accogliere l’eccezione sollevata, ritualmente, dal contribuente, relativa alla decadenza dell’ufficio dalla facoltà o dal potere di effettuare la tardiva produzione documentale”.
Il motivo di ricorso è infondato.
E’ principio pacifico, in tema di contenzioso tributario, che “la costituzione in giudizio della parte resistente deve avvenire, ai sensi dell’art. 23 del D.Lgs. n. 546 del 1992, entro sessanta giorni dalla notifica del ricorso, a pena di decadenza dalla facoltà di proporre eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio e di fare istanza per la chiamata di terzi, sicché, qualora tali difese non siano state concretamente esercitate, nessun altro pregiudizio può derivare al resistente, al quale va riconosciuto il diritto di negare i fatti costitutivi della pretesa attrice, di contestare l’applicabilità delle norme di diritto invocate, nonché di produrre documenti ai sensi degli artt. 24 e 32 del D.Lgs. n. 546 del 1992” (Cass. n. 6734/2015).
La censura della ricorrente ricomprende l’esame del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, in considerazione dell’affermazione, contenuta nella decisione impugnata, della utilizzabilità delle prove documentali prodotte, a sostegno delle proprie difese, dal Comune di Roma, tardivamente, in primo grado, e riprodotte in grado di appello ed alla stregua dell’uniforme orientamento di questa Corte – avvalorato dal dato normativo testuale del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58 – in ordine alla specialità del rito tributario, che non consente un automatico rinvio formale all’art. 345 c.p.c. ed alle condizioni ivi previste di ammissibilità di nuove prove documentali in grado di appello (Cass. n. 6734/2015; n. 20109/2012; n. 18907/2011; n. 1915/2007).
Il richiamato art. 58, comma 2, infatti, espressamente prevede e consente la produzione di nuovi documenti in appello, con la conseguenza che, nel processo tributario, mentre prove ulteriori, rispetto a quelle già acquisite nel giudizio di primo grado, non possono essere disposte in grado d’appello, salvo che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio, i documenti possono essere liberamente prodotti anche in sede di gravame, ancorché preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado (Cass. n. 22776/2015; n. 3661/2015), a nulla rilevando l’eventuale irritualità della loro produzione in primo grado (Cass.n. 22776/2015; n. 23616/2011).
Orbene, la CTR del Lazio ha fatto corretta applicazione delle norme processuali invocate dall’allora appellante allorché ha ritenuto valutabili i documenti in questione, acquisiti al fascicolo processuale, in quanto comunque prodotti in grado di appello e, sotto tale profilo, la sentenza impugnata non merita di essere cassata, atteso che “il giudice d’appello può fondare la propria decisione sui documenti tardivamente prodotti in primo grado, purché acquisiti al fascicolo processuale in quanto tempestivamente e ritualmente prodotti in sede di gravame entro il termine perentorio di cui all’art. 32, comma 1, del D.Lgs. n. 546 del 1992, di venti giorni liberi prima dell’udienza, applicabile in secondo grado stante il richiamo, operato dall’art. 61 del citato decreto, alle norme relative al giudizio di primo grado” (Cass. n. 3661/2015 cit.).
Deduce, con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., violazione dell’art. 26, D.P.R. n. 602 del 1973, giacché la CTR ha erroneamente omesso di rilevare la inesistenza della notificazione eseguita, a mezzo del servizio postale, direttamente dal Concessionario (ora Equitalia Gerit s.p.a.), soggetto diverso da quelli previsti dalla disposizione, che fa riferimento all’art. 60, D.P.R. n. 600 del 1973, in forza del quale le notifiche, pur con alcune particolarità, devono eseguirsi secondo le norme stabile dagli artt. 137 ss.gg. del codice di rito. Conclude con la formulazione del quesito di diritto con cui si chiede che la Corte dica “che la notifica della cartella esattoriale deve essere eseguita ai sensi dell’art. 26 D.P.R. n. 602 del 1973 e che la violazione di tale norma comporta l’inesistenza della notificazione della cartella, rilevabile d’ufficio dal Giudice in ogni stato e grado del giudizio e se, quindi, abbia errato la CTr nel non rilevare d’ufficio la violazione di tale norma per non aver l’Ufficio Finanziario eseguito la notificazione della cartella n. 09720050016183981 in ossequio alla normativa sopra richiamata”. Il motivo di ricorso è infondato. La questione posta dalla società ricorrente trova soluzione nella univoca giurisprudenza di questa Corte secondo cui “in materia d’imposte dirette, qualora la notifica della cartella di pagamento sia eseguita, ai sensi dell’art. 26, primo comma, seconda parte, del D.P.R. n. 602 del 1973, mediante invio diretto di raccomandata con avviso di ricevimento, il soggetto legittimato alla notifica è il concessionario, agente della riscossione, mentre il soggetto che in concreto consegna la cartella all’ufficio postale opera come mero “nuncius”, sicché la sua identità (o la sua giuridica inesistenza) non incidono sulla validità del procedimento di notificazione”, restando “tale modalità di notifica – alternativa a quella di cui alla prima parte dell’art. 26, comma 1, prima parte, cit., questa sì di competenza esclusivamente dei soli soggetti ivi indicati – del tutto affidata al concessionario, che può darvi corso nelle modalità ritenute più opportune, nonché all’ufficiale postale”, per cui è quest’ultimo “a garantire, dandone atto nell’avviso di ricevimento, che la notifica sia stata effettuata su istanza del soggetto legittimato ad essa (in tale ipotesi, il concessionario), a prescindere da colui che gli abbia materialmente consegnato il plico, e che vi sia effettiva coincidenza tra il soggetto cui la cartella è destinata e quello cui essa è, in concreto, consegnata” (ex multis, Cass. n. 6198/2015; da ultimo, n. 12351/2016). Quanto al profilo concernente i vizi della notifica della cartella di pagamento, giova anche evidenziare la intervenuta tempestiva proposizione della impugnazione dell’atto, da parte della società contribuente, atteso che “La nullità della notifica della cartella esattoriale, atto avente duplice natura di comunicazione dell’estratto di ruolo e di intimazione ad adempiere, corrispondente al titolo esecutivo e all’atto di precetto nel rito ordinario, è suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo ai sensi degli artt. 156 e 160 c.p.c., atteso l’espresso richiamo, operato dall’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973, alle norme sulle notificazioni del codice di rito” (Cass. n. 7157/2016; n. 384/2016; n. 5057/2015). E, sempre in tema di ICI, questa Corte ha avuto modo di precisare che “la spedizione di plurimi avvisi di accertamento in un’unica busta raccomandata non integra alcuna nullità, riverberando esclusivamente sul piano delle mere irregolarità formali, laddove non venga accertato un effettivo pregiudizio all’esercizio, da parte del destinatario, del diritto di difesa” (Cass. n. 27165/2011), questione che la società contribuente, peraltro, non ha posto in termini specifici. A questi principi si è puntualmente attenuta la CTR nel ritenere validamente eseguita la notificazione degli avvisi di accertamento ICI alla società contribuente e nell’affermare “la legittimità della successiva cartella di pagamento (oggetto del presente giudizio)” in quanto insussistente il dedotto vizio di omessa notificazione dell’atto presupposto.
Deduce, con il terzo motivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., violazione e/o falsa applicazione dell’art. 14, comma 1, D.Lgs. n. 546 del 1992, giacché mentre il ricorso introduttivo del giudizio è stato notificato anche nei confronti del Concessionario della Provincia di Roma, Monte dei paschi di Siena s.p.a., rimasto contumace, l’appello proposto dal Comune di Roma, avverso la sentenza di prime cure, non risulta notificato a detta parte processuale, pur ricorrendo una ipotesi di litisconsorzio necessario processuale, vertendo la controversia anche su profili attinenti alla regolarità formale della cartella esattoriale e dovendosi quindi integrare il contraddittorio nei confronti del litisconsorte pretermesso. Conclude con la formulazione del quesito di diritto con cui si chiede che la Corte dica “se, ove nel giudizio di primo grado vi siano più parti, l’atto di appello debba essere notificato a tutte le parti del giudizio, verificandosi in tal caso un litisconsorzio necessario processuale ex art. 14, comma 1, D.Lgs. n. 454 del 1992 e 102 c.p.c., rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio e che la mancata integrazione del contraddittorio comporta la nullità del procedimento e della sentenza e se, quindi, la CTR abbia errato nel non ravvisare il litisconsorzio necessario processuale, omettendo di disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti del Concessionario, determinando la nullità del giudizio d’appello e della decisione”. Il motivo di ricorso è infondato. Questa Corte, anche di recente, ha avuto modo di precisare che, “in tema d’impugnazioni civili, anche con riguardo al contenzioso tributario, l’integrazione del contraddittorio è obbligatoria, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., non solo in ipotesi di litisconsorzio necessario sostanziale (cd. cause inscindibili), ma altresì nell’ipotesi di cause che, pur scindibili, riguardano rapporti logicamente interdipendenti tra loro o dipendenti da un presupposto di fatto comune (cd. cause dipendenti), quando siano state decise nel precedente grado di giudizio in un unico processo, al fine di evitare che le successive vicende processuali conducano a pronunce definitive di contenuto diverso” (Cass. n. 14253/2016) è senz’altro applicabile il principio per cui “in tema di disciplina della riscossione delle imposte mediante iscrizione nei ruoli, nell’ipotesi di giudizio relativo a vizi dell’atto afferenti il procedimento di notifica della cartella, non sussiste litisconsorzio necessario tra l’Amministrazione Finanziaria ed il Concessionario alla riscossione, né dal lato passivo, spettando la relativa legittimazione all’ente titolare del credito tributario con onere del concessionario, ove destinatario dell’impugnazione, di chiamare in giudizio il primo se non voglia rispondere delle conseguenze della lite, né da quello attivo, dovendosi, peraltro, riconoscere ad entrambi il diritto all’impugnazione nei diversi gradi del processo tributario” (Cass. n. 9762/2004), sicché del tutto correttamente la CTR non ha provveduto a disporre l’integrazione del contraddittorio in sede di impugnazione, non ricorrendo alcuna altra ipotesi di interdipendenza o dipendenza di cause, nei termini sopra considerati, avuto riguardo alla posizione processuale assunta dal Comune di Roma, che si era limitato a chiedere il rigetto del ricorso della contribuente, e dal Concessionario (Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a.), che aveva scelto di rimanere contumace.
Deduce, con il quarto motivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7, comma 2, L. n. 212 del 2000, per omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo, giacché la CTR non si è pronunciata sulla dedotta nullità della cartella di pagamento per mancanza di allegazione degli atti cui essa fa riferimento ed indicazione dell’organo preposto al riesame in sede di autotutela. Conclude con la formulazione del quesito di diritto con cui si chiede che la Corte dica “che la mancata indicazione dell’organo o l’autorità amministrativa presso i quali è possibile promuovere un riesame, anche nel merito dell’atto in sede di autotutela, nella cartella di pagamento, comporta la nullità della stessa per la violazione dell’art. 7, comma 2, lett. b) della L. n. 212/2000 e se, quindi, sia viziata dalla violazione di tale norma la sentenza della CTR che ha omesso di decidere su tale punto decisivo della controversia”. Il motivo è inammissibile prima che infondato. Questa Corte ha avuto modo di affermare che “l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello e, in genere, su una domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio, integra una violazione dell’art. 112 c. p. c., che deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, dello stesso codice, che consente alla parte di chiedere – e al giudice di legittimità di effettuare – l’esame degli atti del giudizio di merito, nonché, specificamente, dell’atto di appello, mentre è inammissibile ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5, c. p. c.” (Cass. n. 22759/2014; n. 1755/2006). In ogni caso, va ricordato che “la cartella esattoriale che ometta di indicare il responsabile del procedimento, se riferita a ruoli consegnati – come nel caso di specie – agli agenti della riscossione in data anteriore giugno 2008, non è affetta da nullità, atteso che l’art. 36, comma 4 ter, D.L. n. 248 del 2007, convertito nella L. n. 31 del 2008, ha previsto tale sanzione solo in relazione alle cartelle riferite ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere da tale data, e neppure è annullabile, essendo la disposizione di cui all’art. 7 della L. n. 212 del 2000 priva di sanzione, trovando peraltro applicazione l’art. 21 octies della L. n. 241 del 1990, che esclude tale esito ove il provvedimento, adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, per la natura vincolata dello stesso non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato” (Cass. 332/2016; n. 4516/2012). Alla stregua delle considerazioni che precedono, s’impone il rigetto del ricorso e, per la soccombenza, la condanna della società al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.
P. Q. M.
La Corte respinge il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate, in favore di ciascuna parte controricorrente, in complessivi Euro 4.000,00, per compensi professionali, oltre spese forfettarie ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 25 novembre 2016.
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