CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 2934 del 16 febbraio 2016
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – LICENZIAMENTO – CONDANNA PENALE PASSATA IN GIUDICATO – RIASSUNZIONE IN SERVIZIO – IMPOSSIBILITA’
L’art. 10, comma 3, l. n. 19 del 1990 stabilisce che la riammissione (dopo la destituzione di diritto) è concessa solo se all’esito del procedimento disciplinare, che deve essere proseguito o promosso entro novanta giorni dalla ricezione della domanda di riammissione da parte dell’amministrazione competente e che deve essere concluso entro i successivi novanta giorni, non venga inflitta la destituzione.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 10 gennaio 2012 la Corte d’appello di Genova confermava la decisione di primo grado con cui il Tribunale aveva rigettato la domanda proposta da (…) contro il Comune ed intesa alla riassunzione in servizio ed al pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno del suo arresto per una imputazione penale, poi seguita da condanna passata in giudicato.
La Corte osservava che, dopo la conclusione del procedimento penale, il Comune aveva licenziato il (…) per giusta causa ed il provvedimento era stato ritenuto legittimo dal Consiglio di Stato con decisione passata in giudicato. Non esisteva alcuna norma che gli attribuisse il diritto alla riassunzione. In particolare, l’invocato art. 10 l. 7 febbraio 1990 n. 19 prevedeva espressamente la riammissione in servizio solo se all’impiegato condannato in sede penale non fosse stata in sede disciplinare inflitta la destituzione, eventualità che non si era verificata nel caso di specie.
La decisione del Consiglio di Stato, che aveva riconosciuto soltanto le spettanze “di garanzia e di mantenimento”, era passata in giudicato onde il giudice ordinario di primo grado esattamente aveva il diritto alle retribuzioni.
Contro questa sentenza ricorre per cassazione il (…) mentre il Comune di Genova resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 3, 35, 97 Cost., 12 preleggi e 101. n. 19 del 1990, osservando che, subita dal pubblico impiegato un’applicazione di pena ex art. 444 cod. proc. pen., la legge non vieta la riammissione in servizio dopo l’espiazione, ed anzi la tutela costituzionale dell’eguaglianza sostanziale, del lavoro e del buon andamento della pubblica amministrazione dovrebbero indurre a colmare la lacuna normativa nel senso favorevole al lavoratore.
Il motivo non è fondato.
Non esiste nel caso di specie alcuna lacuna normativa ma l’invocato art. 10, comma 3, l. n. 19 del 1990 stabilisce al contrario: “La riammissione (dopo la destituzione di diritto) è concessa solo se all’esito del procedimento disciplinare, che deve essere proseguito o promosso entro novanta giorni dalla ricezione della domanda di riammissione da parte dell’amministrazione competente e che deve essere concluso entro i successivi novanta giorni, non venga inflitta la destituzione”.
Nel caso in esame l’espulsione è stata inflitta con provvedimento dichiarato legittimo dal Consiglio di Stato, la cui decisione è passata in giudicato, con la conseguente esattezza della sentenza qui impugnata.
Col secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art.2909 cod. civ. e difetto di motivazione. Egli trascrive un brano della sentenza del T.A.R. Liguria n.455 del 1998, in cui si parla di difetto “di congrua motivazione” del provvedimento comunale di destituzione; afferma la mancanza d’impugnazione di questa affermazione, posta a base della sentenza di accoglimento dell’impugnativa dello stesso provvedimento, e di conseguenza assume la violazione, da parte della sentenza qui impugnata, dì quella che secondo lui è una cosa giudicata.
Il motivo è inammissibile per inosservanza dell’art. 366 n.4 cod. proc. civ. e del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, in esso espresso.
Infetti per verificare la fondatezza della doglianza il ricorrente avrebbe dovuto trascrivere, nella parte che qui interessa, l’atto d’appello del Comune contro la sentenza del T.A.R., ciò che avrebbe permesso di identificare la parte di essa asseritamente non toccata dall’impugnazione.
Rigettato il ricorso, le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in euro cento/00, oltre ad euro quattromila per compenso professionale, più accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.p.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.