CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 4636 del 9 marzo 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO – LICENZIAMENTO PER RIDUZIONE DI PERSONALE – PROCEDURA DI MOBILITA’ – CRITERI – GENERICITA’ DELLA COMUNICAZIONE – ACCERTAMENTO
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Torino, con sentenza depositata il 18 marzo 2013, ha confermato la decisione di primo grado, che aveva rigettato la domanda proposta da L.L. nei confronti della s.r.l. S.G.S. Italia s.r.I., volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento per riduzione di personale intimatogli all’esito della procedura di cui alla legge n. 223/91.
La Corte anzidetta, nel premettere che la procedura di mobilità aveva interessato 139 unità operanti presso lo stabilimento di Savigliano, ha osservato che l’eccezione di genericità della comunicazione di apertura della procedura era tardiva non essendo stata mai sollevata in primo grado; che la società aveva individuato i lavoratori da porre in mobilità in base ai vari accordi sindacali intervenuti dopo la procedura; che la procedura di mobilità era stata effettuata in ossequio alle previsioni di cui alla legge n. 223/91; che in particolare erano stati rispettati i criteri di carichi di famiglia, anzianità ed esigenze tecnico-produttive ed organizzative; che erano stati osservati dalla società anche i principi di buona fede e correttezza; che i criteri adottati erano stati esplicitati con chiarezza nella comunicazione finale, alla quale era stata allegata una tabella riepilogativa contenente, nel rispetto del dovere di trasparenza, le modalità applicative con riferimento a ciascun dipendente. Per la cassazione di questa sentenza propone ricorso il dipendente sulla base di due motivi.
Resiste con controricorso la società.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 cod. civ. nonché omessa,insufficiente o contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia.
Rileva che la sentenza impugnata, nel ritenere che la società nell’individuare i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare abbia rispettato i principi di correttezza e buona fede, ha svolto un percorso argomentativo insufficiente e contraddittorio sotto il profilo logico-giuridico, non tenendo conto che la società, pur affermando la sussistenza di uno stato di crisi con conseguente necessità di riduzione di personale, ha richiesto ai personale in forza ed a quello in cassa integrazione, richiamato in servizio, prestazioni di lavoro straordinario. Inoltre, la Corte di merito non ha considerato talune circostanze di fatto pacifiche, e cioè: che egli aveva 23 anni di servizio; che al momento del decesso era rappresentante sindacale; che non gli è stato attribuito alcun punteggio per la professionalità, nonostante il predetto servizio svolto; che l’accordo del 25 giugno 2009 prevedeva meccanismi di rotazione; che le organizzazioni sindacali avevano lamentato inadempienze nell’attuazione degli accordi; che esso ricorrente era stato fatto rientrare in servizio, in due anni di cassa integrazione, solo per 17 giorni, sul rilievo – smentito dalla prova testimoniale – di una sua mancata esperienza e precedente formazione; che era in possesso del diploma di elettromeccanico ed elettricista installatore e che nel dicembre 2010 erano in servizio presso la società, quali elettromeccanici, due unità; che nel gennaio 2011 la società ha assunto una unità con mansioni di manutentore elettromeccanico; che i criteri di scelta sono stati elaborati in via del tutto unilaterale dalla società e non secondo gli accordi sindacali.
Inoltre la Corte di merito ha reso una motivazione contraddittoria, avendo prima affermato che i principi di buona fede e correttezza devono essere contrassegnati dai caratteri della obiettività, della ragionevolezza e della non discriminazione, e poi omesso di verificare tali elementi. Parimenti, ad avviso del ricorrente, la “sentenza impugnata manifesta carenza di motivazione ovvero una motivazione illogica e incongrua nello svolgimento del percorso argomentativo”, laddove, nell’individuare le posizioni professionali ai fini dell’attribuzione dei vari punteggi, la società ha considerato solo le mansioni svolte dai lavoratori nell’ultimo decennio, non attribuendogli alcun punteggio per la professionalità, nonostante dalla documentazione prodotta fosse emerso che le mansioni da lui svolte erano “suscettibili di punteggio ai sensi della griglia predisposta dall’Azienda stessa”. Lamenta ancora il ricorrente che la motivazione della sentenza impugnata è “incongrua”, illogica, carente ed errata con riguardo alla valutazione dei tre criteri legali (carichi di famiglia, anzianità ed esigenze tecnico-produttive) ed in particolare con riferimento alle predette esigenze, ritenute dalla Corte di merito evidenti ed incontestabili; che è altresì carente e insufficiente la sentenza impugnata, laddove la Corte di merito ha ritenuto che non sia stato riservato un trattamento più favorevole ad altri colleghi, essendo viceversa emerso cosa diversa dalla documentazione prodotta. Sostiene infine il ricorrente che la Corte anzidetta avrebbe dovuto riconoscere la sussistenza di “una situazione di abuso del diritto da parte dell’Azienda, che ha utilizzato i poteri, le facoltà e le prerogative accordati dall’ordinamento con modalità tali da ledere irreparabilmente…..l’affidamento che il dipendente L.L. poteva porre sulla prosecuzione del rapporto di lavoro”.
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ. nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia.
Lamenta che la Corte territoriale ha deciso la controversia ignorando in parte le prove raccolte nel giudizio di merito. Inoltre la stessa Corte ha riportato in sentenza alcuni passi della decisione adottati in precedenti controversie analoghe alla presente. Aggiunge che vi è contrasto tra la decisione impugnata e l’evidenza delle prove raccolte nel corso del giudizio di merito, specie con riguardo all’arbitrarietà e discriminatorietà nell’utilizzo della rotazione dei lavoratori posti in cassa integrazione. Reitera talune censure formulate con il precedente motivo; richiama le deposizioni di taluni testi nonché la documentazione prodotta; evidenzia che la sentenza impugnata appare carente, insufficiente e contraddittoria laddove, con riguardo ai meccanismi di rotazione che la società si era obbligata ad adottare con l’accordo del 25 settembre 2009, “giustifica l’operato aziendale richiamando esattamente gli assunti aziendali, già rivelatisi manifestamente infondati a fronte dei numerosi riscontri fattuali reperibili in atti e tutti deponenti in senso contrario alle affermazioni dell’azienda”. Ribadisce ancora che la motivazione della sentenza impugnata è carente e insufficiente per non avere la Corte di merito considerato che dall’istruttoria era emerso un comportamento della società non improntato a buona fede e correttezza.
Infine, lamenta la mancata ammissione di un capitolo di prova che avrebbe “potuto dimostrare che le mansioni dei L. (linea chiusa all’avvio della procedura di mobilità) e quelle dello Stratificato (linea rimasta produttiva) si equiparano e sono simili, e che è sufficiente un breve periodo di formazione per aggiornarsi”.
3. Il ricorso, i cui motivi vanno esaminati congiuntamente in ragione della loro connessione, è inammissibile.
L’art. 360, primo comma, n. 5) cod. proc. civ., nell’attuale versione, qui applicabile (la sentenza impugnata è stata depositata il 18 marzo 2013), nel sostituire il testo precedente, ha disposto che il ricorso per cessazione può essere proposto “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ” e non più “per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficiò.
Al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 8053/14, hanno affermato che la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cessazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (conforme: Cass. 8 ottobre 2014 n. 21257).
Nella specie non si ravvisa siffatta anomalia, avendo la Corte di merito dato ampiamente conto delle ragioni della decisione, osservando che il motivo relativo alla genericità della comunicazione di avvio della procedura di mobilità era inammissibile, trattandosi di questione nuova non proposta in primo grado; che nella comunicazione conclusiva della procedura erano state riportate le modalità applicative della stessa; che erano stati rispettati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, in base ai vari accordi intervenuti in sede sindacale; che la comunicazione finale della procedura conteneva in allegato la tabella riepilogativa del personale operaio, che evidenziava le modalità applicative dei criteri di scelta; che la datrice di lavoro aveva altresì allegato alla comunicazione le schede individuali di ciascun lavoratore, così rendendo più agevole il riscontro dell’operazione compiuta; che erano stati rispettati i requisiti della trasparenza e della specificità nonché il principio di ragionevolezza e della equilibrata proporzione; che non erano ravvisabili elementi discriminatori a causa dell’attività sindacale svolta dal dipendente, elementi peraltro enunciati ma non supportati da riscontri; che infine l’azienda aveva giustificato l’accesso del lavoratore alla CIGS in base ad elementi oggettivi.
A fronte di tali argomentazioni, tutte le censure formulate dal ricorrente lamentano vizi di motivazione ed in particolare: “percorso argomentativo insufficiente e contraddittorio” in ordine alla ritenuta insussistenza della violazione dei principi di correttezza e buona fede; “manifesta carenza di motivazione ovvero motivazione illogica e incongrua nello svolgimento del percorso argomentativo” con riguardo alla individuazione delle posizioni professionali ai fini dell’attribuzione dei vari punteggi; motivazione incongrua, illogica, carente ed errata in ordine alla valutazione dei tre criteri legali (carichi di famiglia, anzianità ed esigenze tecnico-produttive) ed in particolare con riferimento alle predette esigenze, ritenute evidenti ed incontestabili dalla sentenza impugnata; carenza e insufficienza della motivazione, laddove la Corte di merito ha ritenuto che non sia stato riservato un trattamento più favorevole ad altri colleghi; contrasto tra la decisione impugnata e l’evidenza delle prove raccolte nel corso del giudizio di merito, specie con riguardo all’arbitrarietà e discriminatorietà nell’utilizzo della rotazione dei lavoratori posti in cassa integrazione; carenza, insufficienza e contraddittoria motivazione in ordine ai meccanismi di rotazione che la società si era obbligata ad adottare con l’accordo del 25 settembre 2009; mancata considerazione, in parte, delle prove raccolte nel giudizio di merito. Censure queste tutte attinenti, come risulta anche dalle rubriche dei due motivi, alla omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, formula questa prevista dall’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. cìv., nel testo anteriore, non più in vigore, alla novella del 2012. L’unica censura di violazione e falsa applicazione di norme di diritto, richiamata nella rubrica del primo motivo, riguarda gli artt. 1175 e 1375 cod. civ., ma essa è posta sempre con riferimento al vizio di motivazione, avendo anche qui il ricorrente dedotto che la motivazione della sentenza impugnata era “carente e insufficiente per non avere la Corte di merito considerato che dall’istruttoria era emerso un comportamento della società non improntato a buona fede e correttezza”.
Deve aggiungersi che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, censurabile ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass. Sez. Un. n. 8053/14 cit; Cass. 27 novembre 2014 n. 25216).
4. Inammissibile è infine la censura relativa alla mancata ammissione del capitolo di prova menzionato a chiusura del secondo motivo, posto che, a prescindere dalla rilevanza di tale capitolo, l’ammissione dei mezzi istruttori e la sufficienza ed adeguatezza di quelli disposti involgono un giudizio di opportunità rimesso ad un apprezzamento meramente discrezionale del giudice di merito, che può essere sottoposto al sindacato di legittimità soltanto qualora la sentenza di merito non adduca una adeguata spiegazione in ordine alla decisione adottata.
5. In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ricorrono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in € 100,00 per esborsi ed € 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
Ai sensi all’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
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