CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 9915 del 13 maggio 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO – LICENZIAMENTO – GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO – INVALIDITA’ DEL LICENZIAMENTO – RISARCIMENTO DEL DANNO ED AUTOMATICITA’
Svolgimento del processo
La Corte d’Appello di Roma confermava la pronuncia del Tribunale della stessa sede con cui era stata accolta la domanda proposta da C.A., intesa a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatole dalla A.I.R.R.I. – Associazione Italiana Riabilitazione Reinserimento invalidi – per giustificato motivo oggettivo, stante la sopravvenuta inidoneità fisica all’espletamento delle mansioni a lei ascritte di fisioterapista accertata ai sensi dell’art. 5 l. 300/70, e la condanna al risarcimento del danno nella misura della retribuzione globale di fatto maturata dal dì del licenziamento sino alla effettiva reintegra.
A fondamento del decisum, la Corte distrettuale poneva l’essenziale rilievo che le condizioni in cui versava la lavoratrice all’epoca di emanazione del provvedimento espulsivo, non erano tali da renderla inidonea permanentemente alle mansioni proprie della qualifica di appartenenza, come desumibile dagli accertamenti di natura medico legale espletati in sede di gravame, reputando assorbite le ulteriori doglianze concernenti la misura del risarcimento del danno liquidato, sollevate dalla Associazione appellante.
Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione la A.I.R.R.I. Associazione Italiana Riabilitazione Reinserimento Invalidi, affidato ad unico motivo illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c. Resiste con controricorso la C.
Motivi della decisione
Con unico mezzo di impugnazione è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 18 L. 300/70 e 1218 c.c., nonché dell’art. 112 c.p.c.
Ci si duole della errata determinazione – conseguente alla conferma della pronuncia impugnata – degli effetti risarcitori conseguenti alla illegittimità del licenziamento sanciti dalla disposizione statutaria, posta in essere dalla Corte distrettuale con riferimento al periodo intercorso fra l’emanazione del provvedimento espulsivo e l’effettiva reintegra.
Si deduce che gli approdi ai quali sono pervenuti i giudici del gravame, contrastano con i principi enucleati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità secondo i quali il lavoratore non ha “diritto al risarcimento del danno – salva sempre la penale minima pari a cinque mensilità – in tutte le ipotesi in cui debba escludersi che l’inadempimento del datore di lavoro sia a lui imputabile”. Si lamenta, quindi, che la pronuncia impugnata sia errata, per aver disatteso i suddetti principi – specificamente richiamati con il sesto motivo di gravame – laddove ha dichiarato “assorbiti gli ulteriori motivi di appello”, così “confermando la (errata) pronuncia di primo grado in ordine all’entità del risarcimento che non tiene conto dei principi sopra espressi”.
Il motivo è fondato nei sensi di seguito precisati.
Appare preliminare il rilievo che il vizio denunciato non risulta ritualmente introdotto in giudizio sotto il profilo di omessa pronuncia, non risultando dedotta espressamente la nullità della sentenza.
Va infatti richiamato il principio, che va qui ribadito, alla cui stregua “Nel giudizio per cassazione – che ha ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1 – il ricorso deve essere articolato in specifici motivi immediatamente ed inequivocabilmente riconducibili ad una delle cinque ragioni di impugnazione previste dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronunzia, la parte della impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni formulate non è necessario che faccia espressa menzione della ricorrenza dell’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (con riferimento all’art. 112 c.p.c.), purché nel motivo si faccia inequivocabilmente riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione.” (vedi Cass. S.U. 24-7-2013 n. 17931, cui adde Cass. 31-10-13 n. 24553).
Calando nella fattispecie in esame il suddetto principio, al quale si intende dare continuità, deve ritenersi che il motivo di ricorso in precedenza riportato non sia scrutinabile ex art. 360 comma primo n. 4 c.p.c., giacché non reca alcun riferimento alla denuncia di vizi dell’attività del giudicante che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, per il pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza di un error in procedendo (cfr. da ultimo, Cass. 28-09-2015 n. 19124).
Non va sottaciuto, peraltro, che la censura può essere, sotto altro versante, sussunta nel vizio dedotto di violazione e falsa applicazione di legge, segnatamente, dell’art. 18 l. 300/70 nella versione di testo applicabile ratione temporis secondo l’interpretazione resa dalla Corte di legittimità, specificamente richiamata dalla Associazione a fondamento del sesto motivo di appello.
Confermando la sentenza di primo grado con cui l’A.I.R.R.I. era stata condannata al pagamento a titolo risarcitorio, delle somme corrispondenti alle retribuzioni dovute dal dì del licenziamento sino a quello della effettiva reintegra, la Corte distrettuale ha infatti disatteso la esegesi della disposizione statutaria elaborata in questa sede di legittimità e che va qui ribadita, secondo cui “la dichiarazione di invalidità del licenziamento a norma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 non comporta automaticamente la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno nella misura stabilita dal quarto comma, con esclusione di ogni rilevanza dei profili del dolo o della colpa nel comportamento del recedente, e cioè per una forma di responsabilità oggettiva. L’irrilevanza degli elementi soggettivi è configurabile, per effetto della rigidità al riguardo della formulazione normativa, limitatamente alla misura minima delle cinque mensilità, la quale è assimilabile ad una sorta di penale avente la sua radice nel rischio di impresa e può assumere la funzione di un assegno, in senso lato, assistenziale nel caso di assenza di una responsabilità di tipo soggettivo in capo al datore di lavoro; la disposizione in esame, invece, – commisurando l’indennità risarcitoria alla retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento – contiene solo una presunzione legale “iuris tantum” circa l’entità del danno subito dal lavoratore, mentre la questione relativa alla sussistenza della responsabilità risarcitoria deve ritenersi regolata dalle norme del codice civile in tema di risarcimento del danno conseguente ad inadempimento delle obbligazioni, non introducendo l’art. 18 dello statuto dei lavoratori elementi distintivi. Ne consegue l’applicabilità dell’art. 1218 cod. civ., secondo cui il debitore non è tenuto al risarcimento del danno nel caso in cui fornisca la prova che l’inadempimento consegue ad impossibilità della prestazione a lui non imputabile” (cfr. Cass. 7-8-2003 n. 11932, Cass. 17-2-2004 n. 3114, Cass. 6-9-2005 n. 17780).
Con la statuizione di assorbimento del relativo mezzo di impugnazione, i giudici del gravame hanno, dunque, sia pur per implicito, confermato l’applicazione della norma statutaria secondo una interpretazione non coerente con la definizione resane, con orientamento consolidato, da questa Corte.
In tal senso, deve affermarsi che risultano realizzati i presupposti per la denunzia di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, prevista dall’art. 360 primo comma, n. 3 cod. proc. civ. ravvisabile in tutti i casi in cui si deducano specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare come anche una pronuncia di mera conferma delle statuizioni della decisione di primo grado (pur realizzata mediante il mero assorbimento dei motivi di censura) – così come le espresse affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata – si traduca in statuizione che si pone in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimità.
In tale prospettiva si colloca la pronuncia della Corte distrettuale che, nel confermare la sentenza impugnata anche sotto il profilo risarcitorio, non si è fatta carico di verificare la corrispondenza della pronuncia ai principi di diritto affermati da questa Corte di legittimità, incorrendo nella violazione di legge denunziata.
La impugnata sentenza va, quindi, cassata e rinviata alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione affinché, nel riesaminare la questione e disponendo anche in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione, provveda, attenendosi al principio di diritto sopra richiamato.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.
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