CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 25 novembre 2016, n. 250
Appalti pubblici – Arbitrato nelle controversie su diritti soggettivi derivanti dall’esecuzione dei contratti relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee – Presidente del collegio – Incompatibilità. – Decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), art. 241, comma 5, nel testo modificato dall’art. 5, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53 (Attuazione della direttiva 2007/66/CE che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE per quanto riguarda il miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia d’aggiudicazione degli appalti pubblici).
Ritenuto in fatto
1.- Il Collegio arbitrale di Roma, con ordinanza del 24 gennaio 2014, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 11, 24, 33, quinto comma, 35, 41, 76, 77, 102, 108, 111 e 117 (recte: primo comma) della Costituzione ed in relazione agli artt. 26, 45, 46, 49, 50, 56 e 57 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), questione di legittimità costituzionale dell’art. 241, comma 5, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) (d’ora in avanti, anche codice dei contratti pubblici), nel testo modificato dall’art. 5, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53 (Attuazione della direttiva 2007/66/CE che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE per quanto riguarda il miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia d’aggiudicazione degli appalti pubblici), nella parte in cui prevede che il presidente del collegio arbitrale deve essere scelto tra coloro che nell’ultimo triennio non hanno esercitato le funzioni di arbitro di parte o di difensore in giudizi arbitrali disciplinati da detta norma e che la nomina effettuata in violazione di tale previsione determina la nullità del lodo.
2.- L’ordinanza di rimessione premette che, nel corso dell’esecuzione di un contratto di appalto stipulato in data 18 gennaio 1996 dal Ministero dei Trasporti e della Navigazione con la G. spa, sono sorte contestazioni in ordine alla ripartizione tra i contraenti dei contributi versati a titolo di oneri di urbanizzazione. La G. spa, in virtù della clausola compromissoria dell’art. 19 del contratto, ha notificato, in data 17 settembre 2007, domanda di arbitrato (designando il proprio arbitro), chiedendo che sia accertato e dichiarato «che il Ministero dei Trasporti si è reso inadempiente rispetto alle obbligazioni assunte», con condanna dello stesso a pagare la somma di euro 34.183,14, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria. Tale clausola compromissoria stabilisce, infatti, che «ogni eventuale controversia in ordine al presente contratto d’appalto» sarà devoluta ad un collegio arbitrale, a norma degli artt. 43 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 16 luglio 1962, n. 1063 (Approvazione del capitolato generale d’appalto per le opere di competenza del Ministero dei lavori pubblici), e tuttavia, come precisato nella domanda, dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 163 del 2006 il procedimento arbitrale è disciplinato dalle disposizioni di quest’ultimo atto normativo.
Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, con atto notificato il 19 novembre 2007, ha nominato il proprio arbitro, il quale ha rassegnato le dimissioni dall’incarico; a seguito dell’inerzia del Ministero nel sostituirlo, il Presidente del Tribunale Ordinario di Roma, su istanza ai sensi dell’art. 810 del codice di procedura civile dell’Impresa P. & C. spa
(succeduta alla G. spa), con provvedimento del 20 giugno 2012, ha nominato un nuovo arbitro per il convenuto.
Il Collegio arbitrale, riunitosi in Roma il 21 dicembre 2012, ha designato il terzo arbitro, con funzioni di Presidente, il quale, all’udienza dell’8 luglio 2013, ha informato le parti della sussistenza di un’eventuale irregolarità nella costituzione del Collegio. Egli, infatti, ha espletato nel triennio precedente incarichi di arbitro di parte e di difensore in giudizi arbitrali disciplinati dall’art. 241 del d.lgs. n. 163 del 2006 e, quindi, versa nella situazione di incompatibilità prevista dal comma 5 di detta norma.
La parte attrice ha insistito per la prosecuzione del procedimento, eccependo, sotto molteplici profili, l’illegittimità costituzionale del citato art. 241, comma 5, eccezione giudicata dal rimettente non manifestamente infondata.
2.1.- L’ordinanza di rimessione ritiene anzitutto rilevante la sollevata questione.
Sussiste infatti, in riferimento al Presidente del Collegio arbitrale, la situazione prevista dal censurato art. 241, comma 5, in virtù della quale la nomina del presidente effettuata in violazione dello stesso «determina la nullità del lodo ai sensi dell’articolo 829, primo comma, n. 3, del codice di procedura civile», con la conseguenza che soltanto l’accoglimento della questione permetterebbe l’utile prosecuzione del giudizio principale.
2.2.- Nel merito, il rimettente deduce anzitutto che il citato art. 241, comma 5, violerebbe gli artt. 76 e 77 Cost., «per eccesso di delega e/o difetto di delega».
Tale norma, nel testo censurato, è stata introdotta dall’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 53 del 2010, emanato in forza della legge-delega 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2008), che ha attribuito al Governo il potere di stabilire «disposizioni razionalizzatrici dell’arbitrato»,nell’osservanza dei criteri espressamente enunciati, nessuno dei quali autorizzava il legislatore delegato a disciplinare la composizione dei collegi arbitrali ed a prevedere cause «di incompatibilità speciali a carico del Presidente del collegio arbitrale, non contemplate» dagli artt. 51 e 815 cod. proc. civ. I principi ed i criteri direttivi della legge-delega, secondo la giurisprudenza costituzionale, vanno interpretati alla luce delle finalità ispiratrici della delega e la norma censurata sarebbe in contrasto con la ratio della legge-delega (indicata nella finalità di realizzare una razionalizzazione «del sistema dell’arbitrato nel settore dell’esecuzione dei contratti pubblici»), poiché non ragionevolmente ostacola «l’utile ricorso a questi strumenti di deflazione del contenzioso ordinario». Peraltro, neppure la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2007, n. 2007/66/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE del Consiglio per quanto riguarda il miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia d’aggiudicazione degli appalti pubblici), la cui attuazione costituiva oggetto della legge-delega, contemplava la composizione dei collegi arbitrali e, comunque, è priva di indicazioni in ordine a questo profilo.
Secondo il rimettente, i lavori preparatori (analiticamente approfonditi nell’ordinanza di rimessione) conforterebbero tale considerazione, tenuto conto, in particolare, del parere reso sullo schema di decreto delegato dalla XIV Commissione permanente della Camera dei deputati, nonché dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati in ordine al profilo in esame nel corso del dibattito in seno alle Commissioni riunite II (Giustizia) e VIII (Ambiente, territorio e lavori pubblici) della Camera dei deputati.
2.3.- Il citato art. 241, comma 5, prosegue l’ordinanza di rimessione, si porrebbe in contrasto anche con l’art. 3 Cost.
La norma realizzerebbe, infatti, una ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina stabilita dal codice di rito civile, in quanto prevede che la richiamata situazione di incompatibilità è causa di nullità del lodo. Inoltre, sarebbe priva di ragionevole giustificazione e pregiudicherebbe la finalità di scegliere il presidente del collegio arbitrale tra soggetti dotati di specifica competenza, in contrasto con la previsione, pure contenuta nella stessa norma, diretta a valorizzare la pregressa esperienza professionale.
L’art. 3 Cost. sarebbe altresì leso perché la norma esclude la causa di incompatibilità in esame, qualora «l’esercizio della difesa costituisca adempimento di dovere d’ufficio del difensore dipendente pubblico», caso in cui sussiste addirittura un rapporto di subordinazione gerarchica del presidente del collegio rispetto ad una parte del giudizio. La differenziazione della disciplina dei requisiti del presidente e degli arbitri che compongono il collegio non sarebbe poi giustificata, poiché sono tutti soggetti agli stessi obblighi, svolgono le medesime funzioni ed il presidente riveste il ruolo di mero primus inter pares. La norma, non ragionevolmente, ha infine stabilito un’identica preclusione per due situazioni non omologhe, quali il pregresso svolgimento delle attività di arbitro di parte e di difensore.
2.4.- Secondo l’ordinanza di rimessione, la norma censurata recherebbe altresì vulnus agli artt. 108 e 111 Cost.
La disciplina in esame non garantirebbe la parità delle armi e l’indipendenza del presidente del collegio arbitrale ed avrebbe determinato «un nuovo e ingiustificato privilegio processuale per la Pubblica Amministrazione, che può far nominare propri dipendenti quali presidenti dei collegi arbitrali». Il privilegio sarebbe palese nell’arbitrato “amministrato” (art. 243 del d.lgs. n. 163 del 2006), nel quale, in difetto di accordo delle parti, la scelta del presidente del collegio spetta alla Camera arbitrale, organo privo dei necessari requisiti di indipendenza.
2.5.- Ad avviso del rimettente, il citato art. 241, comma 5, violerebbe poi l’art. 3 Cost., «in congiunzione con gli artt. 33 comma 5, 35 e 41 Cost.»: perché discriminerebbe coloro i quali hanno svolto le funzioni di arbitro di parte o di avvocato difensore in giudizi arbitrali nell’intero settore dei contratti pubblici, attività queste che costituiscono prestazioni professionali, cui sono riferibili i principi di libertà di lavoro autonomo e di prestazione di servizi, tutelati dagli artt. 33, quinto comma, e 41 Cost.; poiché violerebbe l’affidamento di quanti hanno svolto dette attività, senza potere prevedere le «conseguenze negative sul piano dei servizi arbitrali esercitabili in futuro».
2.6.- L’ordinanza di rimessione deduce, infine, che la norma in questione si porrebbe in contrasto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in quanto sarebbe lesiva delle «libertà economiche previste nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea» stabilite dagli artt. 26, 45, 46, 49, 50, 56 e 57 e, in particolare, del diritto alla libera prestazione dei servizi (artt. 56, 57 TFUE), che comprende l’esercizio dell’attività libero professionale.
I servizi resi nell’ambito delle controversie relative all’esecuzione degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture costituirebbero una porzione significativa di mercato nell’ambito dei servizi di conciliazione e d’arbitrato, circostanza non esclusa dall’inapplicabilità della direttiva 31 marzo 2004, n. 2004/18/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi) ai servizi di arbitrato e di conciliazione. Pertanto, non risulterebbero osservate le condizioni che, secondo la Corte di giustizia (sono richiamate le sentenze 31 marzo 1993, C-19/92; 30 novembre 1995, C-55/94), rendono legittime prescrizioni suscettibili di ostacolare o scoraggiare l’esercizio delle libertà fondamentali e sarebbe realizzata una «difficoltà di raccordo con le legislazioni degli Stati dell’Unione Europea che non prevedono simili limitazioni nella scelta degli arbitri, allontanando pertanto la disciplina nazionale da quella degli altri Paesi membri».
3.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. La disciplina delle cause di incompatibilità da parte della norma censurata si inscriverebbe, a suo avviso, nel quadro della ridefinizione della disciplina dell’arbitrato nei lavori pubblici, delegata al Governo dalla legge n. 88 del 2009, che fissa quale criterio direttivo, tra gli altri, quello di emanare disposizioni razionalizzatrici dell’istituto. L’art. 3, commi 19 e seguenti, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)», aveva vietato l’arbitrato per le controversie in materia di appalti pubblici (a far data dal 1° gennaio 2008), ma l’entrata in vigore del divieto è stata differita e lo stesso è stato, infine, eliminato dal d.lgs. n. 53 del 2010. La delega in esame era preordinata allo scopo di porre rimedio alle «distorsioni» che, in passato, avevano suggerito di introdurre detto divieto, in considerazione delle criticità dell’istituto, individuate, tra l’altro, nell’essere gli arbitrati connotati da «scarsa imparzialità ed indipendenza». Nondimeno, il divieto di arbitrato impediva, non ragionevolmente, il ricorso a questo rimedio alternativo di definizione delle controversie nel settore degli appalti pubblici.
Le norme in materia di arbitrato introdotte dal d.lgs. n. 53 del 2010, secondo l’interveniente, mirano, quindi, a «delineare un istituto profondamente rinnovato», allo scopo di garantire «maggiore imparzialità ed indipendenza del Collegio giudicante». La disciplina delle situazioni di incompatibilità del presidente del collegio arbitrale concorrerebbe a delineare il rinnovato istituto dell’arbitrato, unitamente ad ulteriori profili (quali: la facoltatività dell’arbitrato per entrambe le parti; la regolamentazione dei casi di impugnabilità del lodo; il contenimento dei costi del giudizio arbitrale).
3.1.- Secondo l’interveniente, le censure riferite all’art. 3 Cost. sarebbero infondate, poiché la specialità dell’arbitrato relativo ai contratti pubblici giustificherebbe la previsione di una disciplina diversa rispetto a quella prevista dal codice di rito civile. Non sussisterebbe poi la «eccepita disparità di trattamento tra gli avvocati del libero Foro e gli avvocati “pubblici”» e l’incompatibilità riguarda anche gli avvocati “pubblici”, dato che la deroga concerne esclusivamente il caso dell’espletamento della difesa, quale adempimento di un dovere d’ufficio. Il rigore della disciplina delle cause di incompatibilità concernenti il solo presidente del collegio arbitrale sarebbe, infine, giustificata dalla finalità di garantire l’imparzialità di giudizio del collegio, tenuto conto che egli costituisce «l’elemento di equilibrio e di imparzialità» di quest’ultimo.
3.2.- L’infondatezza delle censure sollevate in riferimento agli artt. 108 e 111 Cost., ad avviso dell’Avvocatura generale, conseguirebbe invece alla considerazione che la natura di organo amministrativo della Camera arbitrale non ne pregiudicherebbe l’autonomia e l’indipendenza, garantite dall’art. 242 del d.lgs. n. 163 del 2006.
3.3.- Le censure sollevate in relazione agli artt. 33, quinto comma, 35 e 41 Cost., secondo l’interveniente, non sarebbero meritevoli di accoglimento, in quanto il divieto di retroattività riguarda la materia penale e, comunque, la norma «si limita a fissare regole di incompatibilità rispetto all’attività svolta in precedenza». Il richiamo dell’art. 16 della direttiva n. 2004/18/CE non sarebbe poi pertinente e gli evocati principi stabiliti dal TFUE non sarebbero lesi, in quanto la norma censurata si limita a stabilire più rigorose cause di incompatibilità per il presidente del collegio arbitrale, allo scopo di perseguire le finalità dianzi richiamate.
4.- Nel giudizio davanti alla Corte si è costituita l’Impresa P. & C. spa, parte del giudizio principale, chiedendo che la questione sia accolta e svolgendo, nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, argomentazioni sostanzialmente coincidenti con quelle dell’ordinanza di rimessione.
Secondo la parte, la sopravvenuta abrogazione della norma censurata da parte dell’art. 217 del decreto legislativo 19 aprile 2016, n. 50 (Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture), non escluderebbe la perdurante rilevanza della questione, perché la stessa, ratione temporis, è applicabile nel giudizio arbitrale.
Inoltre, sarebbe stata riprodotta nell’art. 209, comma 6, di tale atto normativo, il quale ha anzi esteso la contestata causa di incompatibilità a tutti i componenti del collegio arbitrale, con la conseguenza che quest’ultima norma sarebbe, a sua volta, costituzionalmente illegittima, in riferimento ai vizi denunciati dal rimettente, diversi ed ulteriori rispetto a quello costituito dal difetto di delega.
Considerato in diritto
1.- Il Collegio arbitrale di Roma, con ordinanza del 24 gennaio 2014, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 11, 24, 33, quinto comma, 35, 41, 76, 77, 102, 108, 111 e 117 (recte, 117, primo comma) della Costituzione ed in relazione agli artt. 26, 45, 46, 49, 50, 56 e 57 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), questione di legittimità costituzionale dell’art. 241, comma 5, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, recante il «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE» (d’ora in avanti, codice dei contratti pubblici), nel testo modificato dall’art. 5, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53 (Attuazione della direttiva 2007/66/CE che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE per quanto riguarda il miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia d’aggiudicazione degli appalti pubblici).
2.- Il citato art. 241, comma 5, nella formulazione introdotta dall’art. 5, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 53 del 2010, stabilisce che il presidente del collegio arbitrale al quale possono essere deferite le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, deve, tra l’altro, essere scelto «tra coloro che nell’ultimo triennio non hanno esercitato le funzioni di arbitro di parte o di difensore in giudizi arbitrali disciplinati dal presente articolo» e che «la nomina del presidente del collegio effettuata in violazione del presente articolo determina la nullità del lodo ai sensi dell’articolo 829, primo comma, n. 3, del codice di procedura civile». Secondo il rimettente, detta norma è applicabile nel giudizio principale e, poiché il Presidente del Collegio versa nella suindicata condizione di incompatibilità – la cui sussistenza «determina la nullità del lodo ai sensi dell’articolo 829, primo comma, n. 3, del codice di procedura civile» – l’utile prosecuzione del giudizio principale sarebbe possibile esclusivamente qualora sia accolta la sollevata questione, che sarebbe perciò rilevante.
L’art. 241, comma 5, del d.lgs. n. 163 del 2006, ad avviso del Collegio arbitrale, violerebbe anzitutto gli artt. 76 e 77 Cost. La norma, nel testo censurato, è stata così modificata dall’art. 5, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 53 del 2010, emanato in virtù della legge-delega 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2008). Quest’ultima legge avrebbe attribuito al Governo il potere di emanare disposizioni razionalizzatrici dell’arbitrato, stabilendo (negli artt. 1, 2 e 44) principi e criteri direttivi, nessuno dei quali autorizzava il legislatore delegato a disciplinare la composizione dei collegi arbitrali ed a prevedere cause «di incompatibilità speciali a carico del Presidente del collegio arbitrale, non contemplate» dagli artt. 51 e 815 cod. proc. civ. e la suindicata causa di nullità del lodo. La norma sarebbe in contrasto anche con la ratio della legge-delega, indicata nella finalità di razionalizzare la disciplina «dell’arbitrato nel settore dell’esecuzione dei contratti pubblici, in quanto non ragionevolmente ostacola l’utile ricorso agli «strumenti di deflazione del contenzioso ordinario».
Inoltre, la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2007, n. 2007/66/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE del Consiglio per quanto riguarda il miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia d’aggiudicazione degli appalti pubblici), la cui attuazione costituiva oggetto della legge-delega, neppure contemplava la composizione dei collegi arbitrali e, comunque, è priva di indicazioni in ordine a questo profilo. I lavori preparatori (diffusamente esaminati nell’ordinanza di rimessione) conforterebbero la sussistenza del vizio denunciato. La censura, come è reso chiaro dalla motivazione dell’ordinanza di rimessione, investe la previsione sia del requisito, sia degli effetti conseguenti al difetto dello stesso, entrambi introdotti con la modifica realizzata dal citato art. 5, comma 1, lettera c).
3.- Le censure sollevate in relazione all’art. 76 Cost. (le uniche scrutinabili nel merito, essendo inconferente il riferimento all’art. 77 Cost.) devono essere esaminate in via preliminare. Spetta, infatti, a questa Corte «valutare il complesso delle eccezioni e delle questioni costituenti il thema decidendum devoluto al suo esame» e «stabilire, anche per economia di giudizio, l’ordine con cui affrontarle nella sentenza e dichiarare assorbite le altre» (ex plurimis, sentenza n. 293 del 2010). E’, quindi, palese la pregiudizialità logico-giuridica delle censure concernenti detto parametro costituzionale, in quanto investono il corretto esercizio della funzione legislativa: la loro eventuale fondatezza elide, in radice, ogni questione in ordine al contenuto precettivo della norma in esame e determina l’assorbimento di quelle riferite agli ulteriori parametri costituzionali dianzi indicati.
4.- La questione sollevata in riferimento all’art. 76 Cost. è rilevante ed ammissibile.
4.1.- In linea preliminare, va ribadita la legittimazione degli arbitri rituali (qualificazione riconoscibile al Collegio arbitrale rimettente) a sollevare questione di legittimità costituzionale delle norme che sono chiamati ad applicare (da ultimo, sentenze n. 262 e n. 108 del 2015; ordinanza n. 99 del 2016).
4.2.- Il giudizio principale deve, inoltre, ritenersi disciplinato dalle norme del Codice dei contratti pubblici, benché la clausola compromissoria contenuta nel contratto di appalto stipulato tra le parti il 18 gennaio 1996 preveda il deferimento di «ogni eventuale controversia» sorta nell’esecuzione dello stesso ad un collegio arbitrale, a norma degli artt. 43 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 16 luglio 1962, n. 1063 (Approvazione del capitolato generale d’appalto per le opere di competenza del Ministero dei lavori pubblici). L’art. 253, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006 stabilisce, infatti, che quest’ultimo richiamo «deve intendersi riferito ai collegi da nominare con le nuove procedure secondo le modalità previste dal codice e i relativi giudizi si svolgono secondo la disciplina ivi fissata» e non sussistono i presupposti di ultrattività del d.P.R. n. 1063 del 1962, indicati da detta norma, tenuto conto della data di costituzione del collegio arbitrale, quale precisata nell’ordinanza di rimessione. Quest’ultima rende, altresì, palese, in primo luogo, che, in virtù dell’art. 1, comma 25, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), per l’arbitrato in esame non occorreva l’autorizzazione prevista dall’art. 241, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006, nel testo modificato dall’art. 1, comma 19, della legge n. 190 del 2012; in secondo luogo, che allo stesso è applicabile la norma censurata, nella formulazione introdotta dall’art. 5, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 53 del 2010.
4.3.- L’ordinanza di rimessione ha anche non implausibilmente motivato in ordine alla circostanza che il Presidente del Collegio arbitrale versa nella situazione di incompatibilità prevista dalla norma in esame e che questa condiziona l’utile svolgimento del giudizio arbitrale, con conseguente rilevanza, sotto questo ulteriore profilo, della sollevata questione.
4.4.- Il citato art. 241, comma 5, è stato abrogato dall’art. 217, comma 1, lettera e), del sopravvenuto decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture), a decorrere dal 19 aprile 2016, mentre l’art. 209, commi 4, 6 e 7, di tale atto normativo ha introdotto una nuova disciplina delle modalità della nomina, dei requisiti degli arbitri e degli effetti conseguenti alla mancanza degli stessi. L’intervenuta abrogazione e la nuova regolamentazione del profilo in esame non assumono tuttavia rilievo, atteso che lo jus superveniens, privo di efficacia retroattiva, non può venire in evidenza nel giudizio principale, che continua ad essere disciplinato dal citato art. 241, comma 5. In particolare, non influisce sul vizio (avente carattere preliminare rispetto agli altri denunciati dal rimettente) di difetto di delega.
5.- Nel merito, la questione è fondata.
5.1.- Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il controllo di conformità della norma delegata alla norma delegante richiede un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l’uno, relativo alle norme che determinano l’oggetto, i principi ed i criteri direttivi indicati dalla delega, da svolgere tenendo conto del complessivo contesto in cui si collocano ed individuando le ragioni e le finalità poste a fondamento della legge di delegazione; l’altro, relativo alle norme poste dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi ed i criteri direttivi della delega (tra le tante, sentenze n. 194 del 2015, n. 229 del 2014).
Il contenuto della delega e dei principi e criteri direttivi deve essere identificato accertando il complessivo contesto normativo e le finalità che la ispirano, tenendo conto che i principi posti dal legislatore delegante costituiscono non solo la base e il limite delle norme delegate, ma strumenti per l’interpretazione della loro portata. Queste vanno, quindi, lette, fintanto che sia possibile, nel significato compatibile con detti principi, i quali, a loro volta, vanno interpretati avendo riguardo alla ratio della legge delega ed al complessivo quadro di riferimento in cui si inscrivono (sentenza n. 210 del 2015). Peraltro, l’art. 76 Cost. permette la delimitazione dell’area della delega mediante il ricorso a clausole generali, ferma la necessità che queste siano accompagnate dall’indicazione di precisi principi (sentenza n. 159 del 2001).
Nel caso di delega per l’attuazione di una direttiva comunitaria, i principi che quest’ultima esprime si aggiungono a quelli dettati dal legislatore nazionale e assumono valore di parametro interposto (tra le più recenti, sentenza n. 210 del 2015 e le altre in questa richiamate).
Al legislatore delegato, secondo la giurisprudenza costituzionale, spettano poi margini di discrezionalità nell’attuazione della delega, sempre che ne sia rispettata la ratio e che l’attività del delegato si inserisca in modo coerente nel complessivo quadro normativo (sentenze n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, n. 119 del 2013). L’art. 76 Cost. non riduce, infatti, la funzione del legislatore delegato ad una mera scansione linguistica delle previsioni stabilite dal legislatore delegante e, tuttavia, «per quanta ampiezza possa riconoscersi al potere di riempimento del legislatore delegato, “il libero apprezzamento” del medesimo “non può mai assurgere a principio od a criterio direttivo, in quanto agli antipodi di una legislazione vincolata, quale è, per definizione, la legislazione su delega”» (sentenza n. 293 del 2010).
Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che, nel caso di delega per il riordino normativo, al legislatore delegato spetta un limitato margine di discrezionalità per l’introduzione di soluzioni innovative, le quali devono attenersi strettamente ai principi e ai criteri direttivi enunciati dal legislatore delegante (ex plurimis, sentenze n. 94, n. 73 e n. 5 del 2014, n. 80 del 2012) e, comunque, sono legittime «soltanto se siano stabiliti principi e criteri direttivi volti a definire in tal senso l’oggetto della delega ed a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato» (sentenze n. 170 del 2007, n. 239 del 2003 e n. 354 del 1998).
5.2.- In applicazione di tali principi, va osservato che il d.lgs. n. 53 del 2010 è stato emanato in virtù della delega conferita con la legge n. 88 del 2009, recante la «Legge comunitaria 2008», e appunto per questo caratterizzata dall’eterogeneità delle materie, in considerazione della diversità dei contenuti delle molteplici direttive oggetto di attuazione.
I principi ed i criteri direttivi concernenti tutte le direttive sono contenuti negli artt. 1 e 2 di detta legge-delega, nei quali non si fa cenno alla disciplina dell’arbitrato; è, quindi, l’art. 44 della stessa che reca quelli relativi ai decreti legislativi di recepimento della direttiva n. 2007/66/CE, e nel comma 3, lettera m), stabilisce i criteri che si imponevano al legislatore delegato, nel «dettare disposizioni razionalizzatrici dell’arbitrato».
Nessuno dei criteri fissati nel richiamato art. 44, comma 3, lettera m), concerneva il profilo in esame, come si evince dal loro oggetto: l’incentivazione dello «accordo bonario» (enunciata nel n.1); la previsione dell’arbitrato «come ordinario rimedio alternativo al giudizio civile» (oggetto del n. 2); il tempo ed il modo della previsione della clausola compromissoria (enunciati nel n. 3); il contenimento dei «costi del giudizio arbitrale» (cui è dedicato il n. 4); l’introduzione di «misure acceleratorie del giudizio di impugnazione del lodo arbitrale» (contenuta nel n. 5). Manca nella norma qualsiasi indicazione in ordine ai requisiti degli arbitri, ad una diversificazione degli stessi con riguardo al presidente del collegio arbitrale, alle conseguenze del difetto dei requisiti stabiliti per quest’ultimo.
Questa carenza, anche tenendo conto della direttiva che prescrive l’obiettivo della «razionalizzazione» della disciplina dell’arbitrato nel settore dei contratti pubblici, è univocamente espressiva della mancanza di base giuridica della previsione. Si tratta di una conclusione confortata dalla constatazione che l’art. 241 del d.lgs. n. 163 del 2006, nel testo vigente alla data della legge-delega n. 88 del 2009, disciplinava specificamente i requisiti degli arbitri e del presidente del collegio. In particolare, non era prevista nessuna differenziazione tra le due figure (per entrambe i commi 4 e 5, con formulazione identica, disponevano che la scelta doveva cadere su «soggetti di particolare esperienza nella materia oggetto del contratto cui l’arbitrato si riferisce»), mentre si prevedevano, nel comma 6, cause di ricusazione degli arbitri, ulteriori rispetto a quelle stabilite dal codice di rito civile, senza nulla precisare in ordine agli effetti conseguenti alla carenza degli stessi.
5.2.1.- Volgendo l’attenzione al contesto nel quale è stata emanata la legge-delega in esame, rileva che, successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 163 del 2006, la disciplina della figura del presidente del collegio arbitrale aveva costituito oggetto di dibattito anche quanto alle modalità della nomina (l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, nella relazione annuale per il 2006, presentata al Senato il 16 luglio 2007, aveva suggerito che il potere di nomina del predetto fosse attribuito alla camera arbitrale). Nondimeno, il legislatore delegante aveva ritenuto di non intervenire sulla questione e sui requisiti del presidente del collegio arbitrale, significativamente omettendo di fornire indicazioni al riguardo e prescrivendo la sola finalità, espressamente enunciata, di «razionalizzazione» della disciplina vigente, priva di ogni indicazione che potesse deporre per l’attribuzione del potere di introdurre prescrizioni marcatamente innovative in ordine a tale profilo.
5.2.2.- Un principio e un criterio riferiti al profilo in esame neanche sono desumibili dalla direttiva comunitaria n. 2007/66/CE, che, come sopra precisato, assume rilievo, allo scopo di stabilire il contenuto del potere del legislatore delegato. E’ stato, infatti, esattamente osservato che in questa direttiva mancano prescrizioni che esigessero una normativa di attuazione relativamente alla disciplina dell’arbitrato dettata dal d.lgs. n. 163 del 2006, in quanto essa si occupava di modificare precedenti direttive per quanto riguarda le procedure di ricorso relative alla fase dell’affidamento dell’appalto.
Le indicazioni contenute nel “considerando” di detta direttiva non offrono elementi congruenti al riguardo, essendo dubbia la riferibilità dell’art. 1 della stessa (nella parte in cui ha modificato l’art. 2 della direttiva 21 dicembre 1989, n. 89/665/CEE, recante «Direttiva del Consiglio che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori») all’arbitrato in esame e mancando, comunque, precise indicazioni sul requisito del presidente del collegio arbitrale e sulle conseguenze della carenza dello stesso, con riguardo al profilo in esame.
5.2.3.- Il difetto di base giuridica della norma censurata è suffragato dai lavori preparatori del d.lgs. n. 53 del 2010.
Nessuna esplicitazione in ordine alle ragioni ed al titolo di legittimazione ad introdurre la contestata prescrizione è desumibile dalla Relazione ministeriale allo schema di decreto legislativo (poi approvato come d.lgs. n. 53 del 2010). Argomentate obiezioni sul potere del legislatore delegato di introdurla furono sollevate sia nel corso delle audizioni effettuate l’11 febbraio 2010 dalle Commissioni riunite II e VIII della Camera dei deputati (riprodotte nell’ordinanza di rimessione), sia nel corso del dibattito in data 23 febbraio 2010, proprio sul rilievo che l’art. 44 della legge-delega n. 88 del 2009 e la direttiva n. 2007/66/CE non prevedevano il potere del legislatore delegato di introdurla. Tali Commissioni il 3 marzo 2010 espressero parere favorevole sullo schema di decreto legislativo, ma evidenziarono anche il possibile difetto di delega che sembrava viziare la previsione in esame e suggerirono di valutare l’opportunità di sopprimerla, proprio nella parte concernente la previsione del nuovo requisito e, nel caso di mancanza dello stesso, della nullità del lodo.
Il Consiglio di Stato, nel rendere parere favorevole su detto schema, aveva dal suo canto osservato che «la delega per il recepimento della direttiva ricorsi contiene, inoltre, alcuni criteri in materia di accordo bonario e arbitrato, che sono temi che esulano dall’ambito della direttiva ricorsi, e sui quali non vi sono vincoli comunitari» (Sezione normativa, parere 5098/2009, trasmesso il 1° febbraio 2010).
Il parere delle Commissioni parlamentari, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non è vincolante e non esprime interpretazioni autentiche della legge di delega (sentenza n. 173 del 1981), ma costituisce pur sempre elemento che, come in generale i lavori preparatori, può contribuire alla corretta esegesi della stessa (sentenze n. 308 e n. 193 del 2002).
5.2.4.- L’unico criterio che avrebbe permesso al legislatore delegato di introdurre la norma censurata – richiamato dall’interveniente quale pregnante argomento per sostenere l’infondatezza della sollevata questione – è dunque quello secondo cui avrebbe potuto «dettare disposizioni razionalizzatrici dell’arbitrato» (art. 44, comma 3, lettera m), della legge n. 88 del 2009), evidentemente insufficiente a questo scopo. Il verbo «razionalizzare», nel lessico comune ed in quello giuridico, identifica le finalità del riordino e della riorganizzazione di una normativa già vigente. La giurisprudenza costituzionale, nel caso di delega volta appunto alla «razionalizzazione», «ha sempre inquadrato in limiti rigorosi l’esercizio, da parte del legislatore delegato, di poteri innovativi della normazione vigente, non strettamente necessari in rapporto alla finalità di ricomposizione sistematica perseguita con l’operazione di riordino o riassetto» (sentenza n. 162 del 2012; analogamente, sentenze n. 94 e n. 50 del 2014). Tale principio è imposto dall’essere la legislazione su delega una legislazione vincolata, che rende imprescindibile la fissazione di precisi principi e criteri direttivi, qualora a tale ultima finalità si intenda aggiungere quella di innovare la disciplina oggetto di riorganizzazione.
Sotto il profilo sistematico, va osservato che l’art. 829, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. prevede l’impugnabilità per nullità del lodo pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro a norma dell’art. 812 di detto codice, il quale stabilisce che «non può essere arbitro chi è privo, in tutto o in parte, della capacità legale di agire». I vizi relativi alle forme ed ai modi della nomina rendono il lodo impugnabile per nullità, «purché la nullità sia stata dedotta nel giudizio arbitrale» (art. 829, primo comma, n. 2, cod. proc. civ.), mentre la mancanza delle qualifiche convenute dalle parti, ovvero l’esistenza di situazioni di incompatibilità, integrano una causa di ricusazione (art. 815 cod. proc. civ.) che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, deve essere fatta valere mediante la relativa istanza (da proporre nei modi e nei termini previsti dall’art. 815 cod. proc. civ.). Sono pertanto irrilevanti, ai fini della validità del lodo, le situazioni d’incompatibilità di cui la parte sia venuta a conoscenza dopo la decisione, che, ove non si traducano in una incapacità assoluta all’esercizio della funzione arbitrale e, in genere, della funzione giudiziaria, non possono essere fatte valere mediante l’impugnazione per nullità, tenuto conto dell’acquisita efficacia vincolante del lodo e della lettera dell’art. 829, primo comma, n. 2, cod. proc. civ., che circoscrive l’incapacità ad essere arbitro alle ipotesi tassativamente previste dall’art. 812 cod. proc. civ. (Cassazione, sentenza 13 ottobre 2015, n. 20558).
Dunque, anche la previsione delle conseguenze del difetto del requisito in esame – pure introdotta con la modifica realizzata dal citato art. 5, comma 1, lettera c) – eccede l’ambito della mera razionalizzazione e riorganizzazione della disciplina, risultando peraltro la stessa inscindibilmente correlata e connessa al nuovo requisito introdotto dal legislatore.
5.3.- In definitiva, la legge-delega n. 88 del 2009 non permetteva di introdurre una disciplina dei requisiti per lo svolgimento della funzione di presidente del collegio arbitrale, realizzata stabilendone uno nuovo ed ulteriore esclusivamente per quest’ultimo e regolamentando innovativamente gli effetti conseguenti al difetto degli stessi.
Deve essere, pertanto, dichiarata, per violazione dell’art. 76 Cost., l’illegittimità costituzionale dell’art. 241, comma 5, del d.lgs. n. 163 del 2006, nel testo modificato dall’art. 5, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 53 del 2010 nella parte in cui ha previsto per il presidente del collegio arbitrale il nuovo requisito dianzi indicato (la dichiarazione deve investire anche la previsione derogatoria di detto requisito, perché priva di autonomia normativa), nonché (nell’ultima proposizione) la nullità del lodo, pronunciato nel caso di nomina effettuata in violazione di detta norma.
6.- La pronuncia di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 76 Cost., da un canto, determina l’assorbimento delle ulteriori questioni concernenti il contenuto precettivo della norma, poste con riferimento agliartt. 3, 11, 24, 33, quinto comma, 35, 41, 102, 108, 111 e 117, primo comma, Cost. ed in relazione agli artt. 26, 45, 46, 49, 50, 56 e 57 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea; da un altro canto, comporta che in nessun modo ed in nessun punto la stessa investe le successive norme che hanno disciplinato ex novo la materia.
P.Q.M.
Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 241, comma 5, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), nel testo modificato dall’art. 5, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53 (Attuazione della direttiva 2007/66/CE che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE per quanto riguarda il miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia d’aggiudicazione degli appalti pubblici), nella parte in cui stabilisce che il presidente del collegio arbitrale è scelto «comunque tra coloro che nell’ultimo triennio non hanno esercitato le funzioni di arbitro di parte o di difensore in giudizi arbitrali disciplinati dal presente articolo, ad eccezione delle ipotesi in cui l’esercizio della difesa costituisca adempimento di dovere d’ufficio del difensore dipendente pubblico. La nomina del presidente del collegio effettuata in violazione del presente articolo determina la nullità del lodo ai sensi dell’articolo 829, primo comma, n. 3, del codice di procedura civile».