CORTE DI APPELLO MILANO – Sentenza 15 giugno 2021, n. 633
Diniego dell’agevolazione economica, cd. bonus asilo, ai soli stranieri titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo – Carattere discriminatorio della condotta – Parità di trattamento tra cittadini di paesi terzi e cittadini degli stati membri
Motivi della decisione
Con ordinanza del 9.11.20 resa ex art. 28 D. Lgs 150/11 e TU Immigrazione 189/20 il giudice del lavoro del tribunale di Milano, dichiarata la propria incompetenza territoriale in relazione alla posizione di ASGI – Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione ritenendo competente il tribunale di Torino avanti al quale rimetteva le parti, dichiarava il carattere discriminatorio della condotta posta in essere dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e da Inps consistente nel diniego dell’agevolazione economica di cui all’art. 1 co. 355 L. 232/16 (cd. bonus asilo) ai soli stranieri titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo, ordinava agli stessi di cessare la condotta discriminatoria e di rimuoverne gli effetti riconoscendo l’agevolazione economica in oggetto agli stranieri regolarmente soggiornanti che avessero i requisiti prescritti dall’art. 1 co. 355 L. 232/16 come integrato nel resto dal DPCM 17.2.17;
compensava per la metà le spese tra A.P.N. e L. e gli enti resistenti e condannava INPS e la Presidenza del Consiglio dei Ministri in solido al pagamento del residuo.
Il giudice accoglieva l’eccezione di incompetenza territoriale del tribunale di Milano sollevata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri osservando che ASGI aveva sede a Torino e che, secondo l’art. 28 D. Lgs 150/11, la competenza era del tribunale nel luogo in cui il ricorrente ha il domicilio; respingeva l’istanza di sospensione del processo in attesa della decisione della Corte di Giustizia atteso che la questione rimessa a tale Corte riguardava un istituto diverso (assegno di natalità e di maternità) e quindi non ricorrevano le condizioni di cui all’art. 295 cpc; respingeva l’eccezione di carenza di legittimazione attiva in capo a A.P.N. richiamando la sentenza di questa Corte di Appello 617/2018; ravvisava la legittimazione ad agire dell’interveniente L. alla luce di quanto previsto dagli artt. 2 e 4 della L. 67/2006; respingeva l’eccezione di carenza di giurisdizione sollevata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri in quanto, rispetto agli enti convenuti, un comportamento discriminatorio poteva essere integrato anche dall’emanazione di atti come il DPCM.
Nel merito riteneva privo di fondamento quanto dedotto dalla ricorrente con riguardo al preteso contrasto del DPCM con l’art. 1 co. 355 L. 232/2016 rientrando la specificazione dei requisiti anche soggettivi nella sfera di quanto demandato a esso dalla legge istitutiva del beneficio mentre, esaminata la compatibilità o meno della disciplina introdotta dal DPCM e dalla circolare Inps con l’ordinamento comunitario, riteneva la sussistenza di una discriminazione per nazionalità a fronte del diverso trattamento introdotto dagli atti in esame derivante dal possesso di un determinato titolo di soggiorno e quindi in danno dei migranti regolarmente presenti in Italia.
Inps (RG 1068/20) ha impugnato l’ordinanza per i seguenti motivi:
1- non aver accolto l’istanza di sospensione del giudizio o comunque di differimento dello stesso in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia Europea: Inps ripropone in questa fase analoga richiesta ravvisando una condizione di sospensione necessaria del giudizio ex art. 295 cpc;.
2- non aver accolto l’eccezione di inammissibilità del ricorso ritenendo sussistente la legittimazione ad agire delle associazioni ricorrenti, l’interesse ad agire delle stesse e la legittimazione passiva dell’istituto. Osserva che nel caso di specie non si verte in materia di tutela di diritti umani e di libertà fondamentali in quanto il “bonus asilo nido” fuoriesce e non è collegato ai bisogni primari della personalità e che quindi alcun valido riferimento può essere fatto all’art. 43 D.Lgs 286/1998.
In particolare rileva: (i) che non possono dirsi soddisfatte le condizioni di cui agli artt. 4 e 4bis D. Lgs 215/2003 in quanto tali norme presuppongono che vi sia un soggetto, persona fisica, direttamente interessato dall’atto discriminatorio in nome e per conto o a sostegno del quale le associazioni possono intervenire mentre nel caso di specie le associazione sono le uniche parti attive del giudizio; (ii) che nessuna legittimazione può essere rinvenuta sulla base del D.Lgs 215/2003 non rientrando la prestazione in oggetto tra le prestazioni previdenziali, sociali o di sicurezza sociale, o tra le prestazioni essenziali finalizzate alla conservazione dell’integrità fisica o al sostentamento; (iii) che l’art. 3 co. 2 D. Lgs 215/03 precisa che “il presente decreto legislativo non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e non pregiudica le disposizioni nazionali e le condizioni relative all’ingresso, al soggiorno, all’accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello stato né qualsiasi trattamento, adottato sulla base della legge, derivante dalla condizione giuridica dei predetti soggetti”; (iv) che infine non ricorre la condizione per l’azione collettiva stante la non individuabilità in modo diretto e immediato delle persone lese dalla discriminazione. In punto a carenza di interesse ad agire delle associazioni rileva che manca un interesse concreto e attuale all’azione derivante da una lesione ravvisabile solo in capo al soggetto richiedente la prestazione
3- avere il giudice erratamente configurato come discriminatorie le limitazioni soggettive previste dal DPCM e di riflesso dalla circolare dell’Inps. Osserva che “la prestazione, così come concepita dal legislatore, costituisce un bonus ovvero una sorta di “rimborso spesa”, diretto a sostenere le famiglie mediante un ristoro delle spese sostenute, limitando l’intervento nell’ambito del territorio nazionale. Lo strumento attraverso il quale il legislatore ha ritenuto di dover realizzare lo scopo prefissato è stato individuato, appunto, nella corresponsione di una somma di denaro quantificata in base alla condizione economica del nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente. Stante gli elementi costitutivi della provvidenza sopra richiamati la medesima non rientra de plano né tra le prestazioni poste a tutela della sicurezza sociale (ai sensi del regolamento 883) né tra quelle di assistenza sociale”.
Non trattandosi di una misura previdenziale o assistenziale, essa rimane esclusa dal contesto della disciplina comunitaria richiamata dal giudice e dalle relative pronunce giurisprudenziali. Inoltre nella struttura e nella ratio dell’istituto de quo è immanente che la sua erogazione venga disciplinata, in modo non irragionevole, in correlazione alla presenza stabile del genitore richiedente sul territorio. In altri termini, la prestazione, che non ha all’evidenza carattere di mezzo atto a rimediare a situazioni di particolare urgenza o a particolari necessità relative a diritti fondamentali della persona, posta la sua natura di rimborso e ristoro delle spese affrontate dalla famiglia per il servizio asilo nido, può legittimamente essere riconosciuta dal legislatore subordinatamente a condizioni e criteri rispondenti a ragionevolezza come è avvenuto con il DPCM qui contestato che ha indicato quale criterio necessario un collegamento territoriale duraturo nel rispetto delle indicazioni della legge.
In conclusioni rileva che “la circolare censurata appare certamente legittima e conforme al DPCM attuativo ed entrambi appaiono comunque legittimi e coerenti non solo con la voluntas legis espressa dal legislatore con la norma di cui all’art. 1, comma 355, della L. n. 232/2016, ma anche con il fondamentale canone costituzionale di ragionevolezza sopra citato. In sostanza e per quanto detto si ritiene che un’interpretazione della lettera della norma, sulla base della ratio del beneficio in parola, richieda un congruo radicamento del soggetto nella realtà economico-produttiva del paese come correttamente previsto dal decreto attuativo che postula la necessità del permesso di soggiorno di lungo periodo per i cittadini extra UE cui la circolare INPS ha dato necessariamente esecuzione amministrativa”;
4- aver ritenuto di “rimuovere” la condotta giudicata discriminatoria ordinando di cessare la condotta discriminatoria attraverso l’estensione dell’agevolazione economica agli stranieri regolarmente soggiornanti che abbiano gli ulteriori requisiti prescritti dall’art. 1 comma 335 L. 232/2016 come integrato dal DPCM 17/02/17. Osserva che pur essendo consentito al giudice ordinario adito in sede di azione antidiscriminazione l’adozione di provvedimenti idonei a rimuoverne gli effetti – e non già gli atti – non può di certo ritenersi ammissibile una pronuncia giurisdizionale che esorbiti dal potere assegnato al giudice ordinario, al quale non può certo richiedersi, neppure ai fini che qui interessano, la rimozione e/o l’annullamento dell’atto amministrativo “incriminato” né l’adozione di un nuovo provvedimento con contenuto giudizialmente già predeterminato.
Chiede pertanto la riforma dell’ordinanza con il rigetto delle domande avanzate nel ricorso di primo grado.
Nel giudizio si è costituita la Presidenza del Consiglio dei Ministri proponendo appello incidentale per i seguenti motivi:
1- aver respinto l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice ordinario affermando che “un comportamento discriminatorio può essere integrato anche dall’emanazione di atti come il DPCM per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e la circolare per Inps”: osserva che l’art. 44 D. Lgs 286/1998 in base al quale le associazioni agiscono riconosce la giurisdizione del GO solo nel caso in cui l’amministrazione o un privato pongano in essere esclusivamente comportamenti discriminatori e non atti normativi o provvedimenti; inoltre nel caso di specie nessun diritto soggettivo viene in rilievo essendo ravvisabili solo interessi legittimi dove la pretesa del privato può essere soddisfatta solo nei limiti in cui l’interesse pubblico attribuito alle cure dell’amministrazione lo consente.
2- aver ritenuto ammissibile l’intervento adesivo di L.: osserva che questa non era portatrice di un proprio interesse giuridicamente rilevante non essendo state esplicitate le conseguenze dirette o indirette del giudicato che l’intervento aveva l’obiettivo di evitare e che la pretesa di evitare che persone disabili straniere potessero essere escluse dal beneficio in esame è da ritenersi un interesse di mero fatto.
3- aver ritenuto la legittimazione attiva delle associazioni ASGI, L. e A.P.N.: osserva che L. è legittimata ad agire unicamente in relazione alle discriminazioni di cui ai co. 2 e 3 L. 67/2006 ovvero quelle inerenti alla discriminazione delle persone con disabilità e tale non è il caso in esame; inoltre le associazioni non hanno dedotto con sufficiente chiarezza gli elementi minimi per apprezzare la natura collettiva dei comportamenti discriminatori denunciati;
4- non avere accolto l’eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività affermando che il DPCM, contenendo una disciplina generale, pur contestata per aver introdotto una discriminazione collettiva, non era soggetto al termine di impugnazione di 60 giorni: osserva al contrario che il DPCM in questione aveva un contenuto non solo generale e astratto come i provvedimenti normativi ma si rivolgeva a una categoria determinata di soggetti di cui ledeva direttamente gli interessi per cui avrebbe dovuto essere impugnato entro il termine di decadenza di 60 giorni,
5- aver ritenuto il potere giurisdizionale in ordine alla disapplicazione del DPCM 17.2.17: osserva che nel caso in esame non si trattava di una mera disapplicazione incidentale in quanto i ricorrenti pretendevano che il giudice ordinario operasse una disapplicazione principale cosicché l’atto, considerato fonte diretta della lesione, fosse posto nel nulla; richiesta non accoglibile in quanto al GO non è attribuita la cognizione di controversie aventi come oggetto principale la legittimità di provvedimenti amministrativi;
6- aver ravvisato una discriminazione per nazionalità non esistente atteso che si trattava di un incentivo posto a sostegno della famiglia e che esigenze di bilancio, di contenimento della spesa pubblica e di selezione di soggetti più legati al territorio nazionale come i soggiornanti di lungo periodo rappresentavano giustificazioni idonee a sorreggere la scelta legislativa effettuata in un sistema in cui le risorse pubbliche sono sempre più limitate e considerato che il requisito del radicamento territoriale poteva fungere da ragionevole criterio selettivo in relazione a provvidenze, quale il bonus per la frequenza di asili nido o per l’assistenza di figlio disabile, non correlate a situazioni di bisogno o di disagio e quindi dirette a soddisfare finalità eccedenti il nucleo intangibile dei diritti fondamentali della persona;
7- aver ravvisato la discriminazione delle persone con disabilità atteso che il beneficio viene erogato non solo a favore dei bambini che frequentano l’asilo e sono disabili ma anche in favore dei minori che, a causa della loro disabilità grave, non possono frequentare l’asilo e necessitano di assistenza domiciliare.
Conclude quindi chiedendo di dichiarare il difetto di giurisdizione e di legittimazione attiva delle associazioni e di rigettare nel merito le domande avversarie ovvero, in subordine, di circoscrivere i soggetti beneficiari al soli stranieri titolari di permesso di lavoro e di carta blu.
Si sono costituite altresì A.P.N. e L..
A.P.N. chiede la conferma della sentenza opponendosi a tutti i motivi proposti da Inps ed eccependo l’inammissibilità e tardività dell’appello incidentale della Presidenza del Consiglio. Su questo secondo punto osserva che la statuizione del giudice riguardava due atti distinti: il DPCM 17.2.2017 e la Circolare INPS 27/2020; che, per quanto i due atti non fossero stati espressamente richiamati nel dispositivo, era evidente che l’ordine si riferisse agli atti di competenza di ciascuno, così come l’accertamento che ne era il presupposto; che l’ordine e l’accertamento riguardanti il DPCM non erano stati impugnati tempestivamente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (unica legittimata a farlo) che lo ha fatto solo con impugnazione incidentale tardiva depositata il 19.1.2021; che pertanto l’interesse all’impugnazione del DPCM derivava dalla sua originaria soccombenza e non dalla intervenuta impugnazione dell’INPS e che essendo decorso il termine di cui all’art. 702 quater cpc, la decisione relativa al carattere discriminatorio del DPCM (in parte qua) e all’ordine di rimozione deve ritenersi definitiva e passata in giudicato per quanto riguardava la sua posizione.
L. ribadisce la propria legittimazione a intervenire e il proprio interesse ad agire. Osserva che la limitazione del godimento del beneficio del c.d. bonus asilo nido ai soli stranieri lungo soggiornanti doveva essere considerata anche una discriminazione inerente la disabilità incidente sulla categoria di soggetti da lei tutelati e sottolinea come negare il bonus asilo nido alle famiglie straniere regolarmente soggiornanti ma prive del permesso di lungo periodo oltre a colpire in maniera negativa direttamente tutti i bambini stranieri arrivati da poco tempo in Italia, mette in una condizione di particolare svantaggio soprattutto i bambini stranieri con disabilità, i quali subiscono gli effetti maggiormente discriminanti dal non poter usufruire di questo contributo a causa della loro notoria condizione di maggiore fragilità.
Chiede pertanto il rigetto dell’appello di Inps e dell’appello incidentale di Presidenza del Consiglio.
Con un separato ricorso (RG 1145/20) ASGI ha impugnato l’ordinanza censurando la dichiarata incompetenza territoriale nei suoi confronti. Osserva che le due associazioni (ASGI e ANP) non avevano proposto due diverse domande connesse per l’oggetto e per il titolo, ma avevano proposto, congiuntamente, un’unica domanda consistente nell’accertamento di un unico “comportamento amministrativo”, posto in essere dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con il DPCM 17.2.2017 e dall’INPS con la circolare n. 27 del 14.2.2020 in violazione dei diritti di un medesimo soggetto (l’insieme dei cittadini stranieri privi di un determinato titolo di soggiorno) e rileva che la competenza territoriale ex art. 28 co. 2 D.Lgs 150/11, in caso di azione collettiva, va ritenuta derogabile quanto meno in forza di un’interpretazione costituzionalmente e comunitariamente orientata proponendo in subordine eccezione di legittimità costituzionale.
Nel merito l’Associazione richiama quanto già esposto nel ricorso di primo grado in punto a illegittimità della limitazione in base al titolo di soggiorno per contrasto con la norma istitutiva del cd. “bonus asili nido” che ne prevedeva l’erogazione in relazione ai “nati a decorrere dal 1.1.2006”, senza indicare alcun requisito connesso alla cittadinanza o al titolo di soggiorno e demandando al DPCM l’adozione delle “disposizioni necessarie per l’attuazione” tra le quali tuttavia non potevano ricomprendersi le limitazioni poi introdotte.
Ribadisce altresì il contrasto con la direttiva 2011/98 UE e con l’art. 14 direttiva 2009/50 UE nonché la violazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità
Chiede la riforma della sentenza e l’accoglimento delle domande di cui al ricorso di primo grado.
Ha resistito la Presidenza del Consiglio dei Ministri riproponendo con appello incidentale i motivi già esposti nel giudizio di appello introdotto da Inps e insistendo sull’incompetenza territoriale del giudice adito con riferimento alla censura sollevata da ASGI. Osserva che l’art. 28 D. Lgs 150/2011 prevede la competenza territoriale del luogo del domicilio dell’attore, competenza da ritenersi funzionale e inderogabile come osservato dalla Suprema Corte nel caso di azioni collettive (Cass. 2441/13) e che il testo normativo non prevede alcuna distinzione tra azioni individuali e collettive.
Si è costituita altresì Inps riproponendo le medesime osservazioni già svolte nel suo ricorso in appello.
All’udienza, riuniti i giudizi di appello (RG 1068/20 e RG 1145/20) essendo stati proposti contro la medesima ordinanza, la causa era discussa e decisa come da dispositivo riportato in calce.
A) L’appello proposto da Inps non può trovare accoglimento per le ragioni che seguono.
Sospensione del giudizio
Deve preliminarmente essere respinta l’istanza di sospensione del giudizio ( già correttamente respinta in primo grado e riproposta in questa fase) in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia Europea non essendo ravvisabili le condizioni di cui all’art. 295 cpc. Alla Corte di Giustizia è stato chiesto di chiarire se la normativa italiana che subordina alla titolarità del permesso per soggiornanti UE di lungo periodo la concessione agli stranieri degli assegni di natalità e di maternità era compatibile con l’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE che prevede il diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e con l’art. 12 paragrafo 1 lett.e) della direttiva 2011/98/UE sulla parità di trattamento tra cittadini di paesi terzi e cittadini degli stati membri.
Non si ravvisa tra questo contenzioso e quello in oggetto alcuna pregiudizialità tale per cui debba farsi dipendere la definizione di questa controversia dalla decisione dei giudizi pendenti avanti alla Corte di Giustizia attinenti a due distinte provvidenze.
Legittimazione e interesse ad agire di ASGI, A.P.N. e L.
Vanno altresì respinte le censure sollevate in punto a sussistenza della legittimazione e dell’interesse ad agire delle Associazioni (ASGI, A.P.N. e L.)
Non pare dubitabile che la discriminazione lamentata sia una discriminazione per nazionalità considerato che la differenziazione di trattamento che le associazioni contestano è basata sul titolo di soggiorno e quindi sulla nazionalità.
Considerato che la maggior parte dei migranti presenti in Italia sono cittadini non comunitari appare evidente che il criterio della nazionalità, apparentemente neutro, viene di fatto ad assumere un connotato discriminatorio determinando uno svantaggio per tali soggetti.
Ciò posto, in punto a legittimazione ad agire delle associazioni il Collegio richiama i precedenti di questa Corte (tra cui nr. 110/15, 617/18) il cui orientamento ha trovato conferma nelle sentenze della Corte di Cassazione nr.11165/17, 11166/17 e 28745/2019. Le motivazioni svolte da Inps invero non appaiono idonee a intaccare la convincente elaborazione svolta nei precedenti citati.
In particolare con la sentenza 28745/2019 la Suprema Corte ha ribadito che: “gli enti e associazioni iscritti nell’elenco di cui all’art 5 D. Lgs 215/2003 hanno legittimazione attiva non solo nelle controversie in materia di discriminazione basate sulla etnia e razza ma anche in quelle basate sulla nazionalità. La legittimazione degli enti collettivi in materia di discriminazione costituisce infatti una regola generale, funzionale all’esigenza di apprestare la tutela attraverso un rimedio di natura inibitoria a una serie indeterminata di soggetti per contrastare il rischio di una lesione avente natura diffusiva e che perciò deve essere per quanto possibile prevenuta e circoscritta nella sua portata offensiva; conseguentemente non sarebbe ammissibile un’interpretazione delle norme che per il solo fattore della nazionalità escluda tale legittimazione che è invece prevista per tutti gli altri fattori”.
Costituirebbe invero una vistosa eccezione il mancato conferimento della legittimazione ad agire in capo a un ente esponenziale in caso di discriminazione collettiva per il fattore nazionalità. Un’eccezione che non è giustificabile, alla luce del fatto che esso risulta fattore discriminatorio parimenti vietato in ogni campo della vita sociale (lavorativa ed extralavorativa) ai sensi dell’art. 43 TU immigrazione.
Né l’esclusione prevista dall’art. 3 co. 2 D.Lgs 215 citato, ribadita da Inps che sostiene che la legittimazione processuale a esperire l’azione collettiva costituirebbe un’eccezione consentita solo per le fattispecie tassativamente previste dall’ordinamento e non sarebbe quindi suscettibile di interpretazione analogica, può costituire argomento ostativo:”si tratta di una disposizione di carattere generale diretta a delimitare, sulla base della previsione della direttiva da cui deriva (art.3 co.2 Direttiva 2000/43/CE), il campo di applicazione dell’intervento normativo allo scopo di riservare allo Stato la regolazione sostanziale del trattamento dello straniero. Essa però, ad avviso del collegio, non interferisce in alcun modo con le regole processuali in materia di discriminazioni di cui qui si discorre, anche a fronte delle specifiche disposizioni presenti nel medesimo testo di legge. Le “differenze di trattamento basate sulla nazionalità” di cui si discute alla luce della disposizione in oggetto, presente nel D. Lgs.215/2003 non potrebbero comunque giustificare trattamenti illeciti e oscurare le esigenze di protezione nascenti da discriminazioni collettive per nazionalità (già disciplinate dall’ordinamento), che lo stesso testo normativo riconosce esplicitamente e alle quali intende volgere la tutela processuale ivi regolata.”
Le associazioni in questione, in base all’art. 5 dello stesso D. Lgs 215, sono quelle iscritte nell’elenco approvato con decreto ministeriale (previsto appunto dall’art.5 del d.lgs. 215/2003) per le finalità programmatiche che le contraddistingue; tali associazioni, in base all’art. 52 del DPR 349/1999, devono essere qualificate dallo svolgimento di “attività a favore degli stranieri immigrati” e dallo “svolgimento di attività per favorire l’integrazione sociale degli stranieri” (non quindi testualmente in relazione alla razza o etnia).
Affermare che esse possano agire in giudizio solo per le discriminazioni per razza o etnia e non per il fattore della nazionalità che serve a qualificarle, non è solo palesemente illogico, ma introdurrebbe un ulteriore difetto di coordinamento tra norme di diverso livello, in quanto porterebbe a ipotizzare che la legittimazione ad agire per un certo tipo di discriminazioni (razza o etnia) sia stata conferita a enti che si occupano di un fattore di discriminazione che viene ritenuto dall’ordinamento del tutto differente, di diverso contenuto e rilevanza (come appunto la nazionalità straniera).
Quanto poi alla censura mossa all’ordinanza nella parte in cui ha ritenuto sussistente il presupposto di cui all’art. 3 co. 3 D. Lgs 215/2003 il collegio osserva che destinatari della circolare Inps in questione sono indistintamente tutti gli stranieri che possono beneficiare del bonus in esame nel momento in cui si trovano nelle condizioni previste dalla legge per poterne usufruire. L’azione collettiva svolta dalle associazioni ha come oggetto la rimozione a monte di un atto “potenzialmente discriminatorio” nei confronti di soggetti difficilmente identificabili, come tale pertanto essa risponde perfettamente alla ratio di cui alla norma sopra indicata.
Per quanto poi attiene la specifica legittimazione a intervenire nel giudizio di L., censurata dall’appellante, si osserva che si tratta di associazione che promuove e difende i diritti delle persone con disabilità e opera per rimuovere ogni ostacolo che impedisce la piena inclusione sociale e il pieno sviluppo umano delle persone con disabilità in attuazione del dettato dell’articolo 3 della Costituzione e della Convenzione delle Nazioni Unite dei diritti delle persone con disabilità, ratificata dallo Stato Italiano con Legge n. 18 del 3/3/2009.
La sua legittimazione ad agire si fonda sull’espressa legittimazione riconosciuta agli Enti iscritti nell’apposito elenco tenuto dal Ministero alla luce della previsione dell’art. 4 L. 67/2006 che stabilisce “1. Sono altresì legittimati ad agire ai sensi dell’articolo 3 in forza di delega rilasciata per atto pubblico o per scrittura privata autenticata a pena di nullità, in nome e per conto del soggetto passivo della discriminazione, le associazioni e gli enti individuati con decreto del Ministro per le pari opportunità, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sulla base della finalità statutaria e della stabilità dell’organizzazione. 2. Le associazioni e gli enti di cui al comma 1 possono intervenire nei giudizi per danno subìto dalle persone con disabilità e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti lesivi degli interessi delle persone stesse. 3. Le associazioni e gli enti di cui al comma 1 sono altresì legittimati ad agire, in relazione ai comportamenti discriminatori di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 2, quando questi assumano carattere collettivo”.
Quanto all’interesse a intervenire esso va ravvisato nella rilevanza che le limitazioni introdotte dai provvedimenti in esame sono in grado determinare anche nei confronti di famiglie straniere con bambini con disabilità che, solo in ragione della mancanza di uno specifico titolo di soggiorno, verrebbero a sopportare un ulteriore ingiustificato trattamento differenziato.
Legittimazione passiva di Inps
Va respinta la censura mossa in ordine all’eccepito difetto di legittimazione passiva di Inps.
La tesi secondo la quale l’istituto non avrebbe legittimazione passiva in quanto vincolato a rispettare norme di legge esistenti non è condivisibile. Va ribadito che allorché queste violano, con la loro applicazione, l’obbligo di parità di trattamento fissato dall’Unione Europea, viene posto in essere un comportamento discriminatorio di cui viene chiamato a rispondere l’agente.
La tesi sostenuta dall’istituto è contraddetta peraltro dal fatto che nel caso di specie nella circolare in oggetto il diritto al bonus è stato esteso ai titolari di protezione internazionale e ai familiari di cittadini italiani che il DPCM non aveva considerato; scelta che evidenzia la consapevolezza della necessità di dover intervenire al fine evitare un diverso ingiustificato trattamento tra due categorie aventi diritto a un medesimo trattamento.
Il fatto che lo stesso istituto non abbia ritenuto invece di estendere il beneficio agli stranieri non in possesso di permesso di soggiorno UE è conseguente a una sua specifica valutazione e non rileva con una carenza di legittimazione passiva
Contenuto discriminatorio della circolare 27/2020
L’art.1 co. 355 L. 232/16 introduce una prestazione economica a sostegno del reddito delle famiglie per il pagamento di rette legate alla frequenza di asili nido pubblici e privati e a sostegno di forme di assistenza familiare in favore di bambini con meno di tre anni affetti da gravi patologie croniche rimandando a un DPCM di stabilire, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge, le disposizioni necessarie per l’attuazione del presente comma
Con DPCM del 17/02/2017 si è stabilito che:
“1. Ai fini del presente decreto si intende per «genitore richiedente»: il genitore in possesso dei requisiti di cui al comma 2, che, relativamente al beneficio di cui all’art. 3, sostiene l’onere della retta e che, relativamente al beneficio di cui all’art. 4, sia convivente con il figlio.
2. Il genitore richiedente deve essere in possesso dei seguenti requisiti:
a) cittadinanza italiana, oppure di uno Stato membro dell’Unione europea oppure, in caso di cittadino di Stato extracomunitario, permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo di cui all’art. 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e successive modificazioni;
b) residenza in Italia”.
Infine con la circolare Inps n. 27/2020 è stata confermata la necessità per gli stranieri del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, pur estendendo l’ambito di applicazione del beneficio oggetto di causa ai rifugiati politici e a coloro che godono di protezione sussidiaria.
Sostiene Inps che il bonus in esame si configura come una sorta di “rimborso spesa diretto a sostenere le famiglie mediante un ristoro delle spese sostenute, limitando l’intervento al territorio nazionale” e che esso è individuato nella corresponsione di una somma di denaro quantificata in base alla condizione economica del nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente con la conseguenza che esso non rientra né tra le prestazioni poste a tutela della sicurezza sociale ai sensi del regolamento 883/2004 né di quelle di assistenza sociale.
La tesi non è condivisibile
La Direttiva n. 2011/98/UE, all’art. 12, prevede che:
“i lavoratori di cui al paragrafo 1, lettere b) e c) beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne: (…) c) i settori della sicurezza sociale come definiti dal regolamento CE 883/2004”.
Il citato paragrafo 1, alle lettere b) e c), menziona:
“b) i cittadini dei paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare (…); c) i cittadini dei paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi”.
Il Regolamento 883/2004, al quale l’art. 12 sopra riportato fa rinvio per la definizione dei settori della “sicurezza sociale”, contempla quelli “contributivi e non contributivi” compresi nell’elenco di cui al primo comma del medesimo art. 3, che indica alla lettera j) le “prestazioni familiari”.
L’art. 1 del Regolamento definisce quali prestazioni familiari “tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni di nascita o di adozione menzionati nell’allegato 1”, dove l’espressione “compensare i carichi familiari” deve essere interpretata, secondo quanto affermato dalla CGUE, con riferimento a un contributo pubblico al bilancio familiare destinato ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli (cfr. CGUE 19.9.13 causa C-216/12 e C-217/12).
Alla luce delle citate disposizioni, è certamente possibile qualificare la prestazione in esame come rientrante nell’ambito delle prestazioni familiari atteso che presuppone l’esistenza di un nucleo familiare, composto quanto meno da un genitore e da un minore di età inferiore a 3 anni, interviene nei primi tre anni di vita del bambino quando il bilancio familiare subisce un evidente aggravamento, è correlata all’ ISEE familiare che misura la ricchezza del nucleo familiare e può essere chiesta indifferentemente dalla madre o dal padre riguardando la famiglia nel suo insieme.
Né può assumere alcun rilievo il fatto che la prestazione faccia riferimento a una specifica voce di costo quale è l’iscrizione all’asilo nido
Peraltro già in passato la CGUE, con sentenza del 21.6.17 causa C-449/16 (così come nella sentenza del 24.10.2013 causa C-177/12) aveva affermato che la qualificazione della singola prestazione ai fini in questione deve operarsi avendo riguardo ai relativi “elementi costitutivi” quali “le sue finalità” e i “presupposti per la sua attribuzione e che prestazioni attribuite automaticamente alle famiglie che rispondono a determinati criteri obiettivi riguardanti segnatamente le loro dimensioni, il loro reddito e le loro risorse di capitale prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali e destinate a compensare i carichi familiari devono essere considerate prestazioni di sicurezza sociale”.
Del resto lo stesso istituto appellante osserva che il bonus in oggetto è “misura meramente finalizzata a sostenere le famiglie” che usufruiscono dell’asilo nido o che si attivano presso il loro domicilio a fronte di determinate fragilità.
La prestazione qui in esame rientra sicuramente in tale categoria perché è erogata sulla base di criteri predeterminati e dunque ricade nell’ambito di applicazione del Regolamento 883/04 e, conseguentemente, dell’art. 12 direttiva 2011/98.
La norma sovranazionale, laddove prevede che i lavoratori di cui al paragrafo 1 lett. b) e c) (quale pacificamente è l’odierna appellante) “beneficiano dello stesso trattamento” riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano, appare all’evidenza chiara e incondizionata, risultando pertanto dotata di efficacia diretta e di portata auto esecutiva nel senso che trova ingresso nell’ordinamento interno senza necessità di alcuna norma di recepimento e si colloca, per la gerarchia delle fonti normative, al di sopra della legislazione nazionale imponendone la disapplicazione in caso di contrasto. Ne consegue che la disposizione nazionale la quale ponga lo straniero lavoratore in una posizione di svantaggio rispetto al cittadino italiano riveste un’illegittima portata discriminatoria.
Il contenuto discriminatorio della circolare Inps in esame emerge comunque anche sotto il profilo del contrasto con la norma di legge istitutiva.
L’art. 1 comma 355 L.232/2016 ha previsto l’erogazione del bonus a favore dei “nati a decorrere dal 1.1.2006”, senza indicare alcun requisito connesso alla cittadinanza o al titolo di soggiorno e demandando al DPCM l’adozione delle “disposizioni necessarie per l’attuazione”.
L’art. 1 del DPCM 17.2.2017 ha invece introdotto la limitazione ai soli titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo e la successiva circolare INPS 27/2020 ha confermato detta limitazione, ammettendo tuttavia alla prestazione, in difformità rispetto al DPCM, anche i familiari di cittadini UE e i titolari di protezione internazionale.
Sia il DPCM sia la circolare si pongono pertanto in conflitto con la disposizione legislativa atteso che la previsione del legislatore era nel senso di una prestazione riconosciuta a tutti i residenti, mentre il DPCM e la circolare Inps hanno ristretto la platea dei beneficiari del bonus, derogando alla disposizione di legge.
La delega era contenuta nei limiti di ciò che era “necessario per l’attuazione” della norma di legge con evidente riferimento a modalità concrete di esecuzione ma con altrettanto evidente esclusione della possibilità di introdurre limiti in ragione della cittadinanza o del titolo di soggiorno.
Così facendo il DPCM e la circolare Inps si sono arrogati il potere di imporre in sede amministrativa condizioni o requisiti che la legge non ha né previsto né disciplinato, di introdurre modifiche a una norma di fonte primaria e di restringere, di conseguenza, la platea delle destinatarie del beneficio.
Nello specifico l’illegittimità della condotta dell’Istituto è ravvisabile proprio nell’aver voluto emettere circolari che attribuiscono alla legge un contenuto diverso da quello espresso dal legislatore.
Così facendo Inps non solo con una propria circolare ha derogato alla norma di legge disponendo diversamente da quanto prescritto da quest’ultima ma lo ha fatto introducendo disposizioni evidentemente discriminatorie per nazionalità in quanto, ancorando la possibilità di ottenere il beneficio a una condizione quale il possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, ha introdotto una differenza di trattamento non giustificata da alcuna ragionevole e oggettiva finalità.
Sostiene infine l’Istituto che dal riferimento all’imponibile fiscale è possibile evincere, implicitamente, la volontà del legislatore di collegare il riconoscimento della provvidenza al radicamento dei destinatari nella comunità produttiva statale con un minimo di stabilità.
Premesso che tale interpretazione non appare sorretta da alcun elemento concreto avendo in realtà il legislatore scelto di non circoscrivere in alcun modo la platea dei destinatari, anche volendo ritenere che sia stato introdotto il requisito del “radicamento sul territorio” in quanto il destinatario deve essere soggetto fiscale in Italia, il beneficio non può che essere riconosciuto a tutti i nuclei familiari che, in quanto residenti sul territorio nazionale, sono tenuti agli obblighi fiscali indipendentemente dal possesso di un permesso di soggiorno ordinario o di un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.
La tesi sostenuta da Inps peraltro si scontra con il fatto che, stando alla circolare, il bonus verrebbe comunque riconosciuto ai cittadini non comunitari in possesso dello status di rifugiato politico e protezione sussidiaria benché a essi non sia consentito richiedere il permesso UE per lungo periodo e benché nei loro confronti non pare potersi ravvisare un pari radicamento sul territorio.
La natura discriminatoria della circolare in esame emerge anche in relazione alla posizione di stranieri con minori di tre anni affetti da disabilità, come evidenziato da L..
Si osserva che la prestazione in oggetto, normalmente corrisposta a fronte del pagamento della retta per il nido, può essere corrisposta anche in assenza di questa, quale forma di “supporto presso la propria abitazione in favore dei bambini al di sotto dei tre anni affetti da gravi patologie croniche”. La previsione quindi è estesa allorquando la disabilità comporti l’impossibilità del bambino a frequentare l’asilo nido così da ostacolarne la “piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di uguaglianza con gli altri” (come affermato all’art. 1 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità – ratificata dall’Italia con L. 1/2009).
Rilevato che l’art. 3 della citata Convenzione vieta ogni discriminazione in danno del disabile, mentre l’art. 28 impone agli stati aderenti di garantire “i tipi di assistenza per i bisogni derivanti dalla disabilità che siano appropriati e a costi accessibili”, nonché di garantire “l’accesso all’aiuto pubblico per sostenere le spese collegate alle disabilità…” emerge che l’esclusione di determinate famiglie di disabili, pur regolarmente residenti, solo perché prive di un determinato titolo di soggiorno costituisce un’ingiustificata disparità di trattamento e dunque discriminazione; discriminazione in questo caso duplice in quanto relativa sia alla nazionalità sia alla disabilità essendo escluse tutte e solo famiglie con figli disabili.
In conclusione, l’individuazione dei requisiti fatta da Inps va qualificata come discriminatoria escludendo dal beneficio, per ragioni di nazionalità e senza alcuna ragionevole motivazione, una parte dei cittadini stranieri residenti in Italia per i quali ricorrono le condizioni previste dall’art. 1, comma 355 L. 232/2016.
La stessa si configura come discriminazione indiretta così come riportato dall’art. 43 del D. Lgs. 286/98 secondo il quale “costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica“.
In ogni caso compie un atto di discriminazione: “… c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente a una determinata razza, religione, etnia o nazionalità,…”.
Modalità di rimozione della condotta discriminatoria
Va respinto altresì l’ultimo motivo di censura in punto a modalità fissate dal giudice per la cessazione della condotta ritenuta discriminatoria atteso che, ai sensi dell’art. 28 D, Lgs 150/11 il giudice deve intervenite adottando ogni provvedimento utile alla rimozione della discriminazione e al ripristino del diritto; cosa che nel caso in esame non poteva che essere soddisfatta riconoscendo l’agevolazione economica agli stranieri regolarmente soggiornanti, che abbiano gli ulteriori requisiti prescritti.
B) In relazione agli appelli incidentali proposti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri si osserva quanto segue.
Va respinta l’eccezione di inammissibilità dell’appello incidentale proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nell’ambito del giudizio apertosi a seguito dell’appello avanzato da Inps.
Come ripetutamente affermato dalla Corte di Cassazione l’impugnazione incidentale tardiva è sempre ammissibile, a tutela della reale utilità della parte, ove l’impugnazione principale metta in discussione l’assetto di interessi derivanti dalla sentenza cui la parte non impugnante aveva prestato acquiescenza, atteso che l’interesse a impugnare sorge, anche nelle cause scindibili, dall’eventualità che l’accoglimento dell’impugnazione principale modifichi tale assetto giuridico. (Cass. n. 23396/2015, n.1879/2018, n.14596/2020, n 25285/2020).
Nel caso di specie è vero che l’ordinanza impugnata si pronunciava su due atti distinti, il DPCM 17.2.17 e la circolare Inps nr. 27/2020 e che il giudice dichiarava il carattere discriminatorio della condotta posta in essere da ciascun resistente ordinando a ciascun soggetto di cessare la condotta discriminatoria e di rimuoverne gli effetti, ciascuno per quanto di sua competenza. Ma è indubbio che con il suo appello Inps ha rimesso in discussione l’intero provvedimento e che l’impugnazione incidentale della Presidenza del Consiglio pur riguardando un capo della decisione diverso da quello oggetto del gravame principale è strettamente connessa a quest’ultimo con la conseguenza che la decisione su di esso viene direttamente a incidere altresì sul DPCM che è l’atto prodromico sulla base del quale era emessa la circolare INPS.
Ciò posto, l’appello incidentale della Presidenza del Consiglio va accolto nella parte in cui censura il rigetto dell’eccezione di carenza di giurisdizione del GO sollevata in primo grado.
Il DPCM 17.2.17 invero è un atto normativo regolamentare con un contenuto generale e astratto rispetto al quale il giudice ordinario non ha il potere di disporre direttamente il suo annullamento o di ordinarne la modifica indicandone il contenuto. Nel caso di specie gli originari ricorrenti non chiedevano al giudice di operare una disapplicazione dell’atto amministrativo ritenuto illegittimo ma di accertarne la illegittimità in quanto discriminatorio e di ordinare alla Presidenza del Consiglio dei Ministri di modificarne il contenuto nei termini indicati nell’ordinanza così da garantire l’accesso alla prestazione, a parità di condizioni con i cittadini italiani, a tutti i cittadini stranieri regolarmene soggiornanti.
Sotto questo profilo va pertanto ritenuta la carenza di giurisdizione rimanendo di conseguenza assorbite tutte le ulteriori censure sollevate dalla Presidenza del Consiglio.
C) In relazione all’appello promosso da ASGI deve trovare accoglimento la censura proposta in punto a incompetenza territoriale.
Non appare condivisibile la tesi svolta nell’ordinanza impugnata nella parte in cui viene escluso che la competenza territoriale in esame possa essere derogata operando un’analogia con ipotesi di litisconsorzio facoltativo attivo quale quella di più lavoratori che agiscono davanti al medesimo giudice per ottenere un determinato trattamento pensionistico.
Come ben osservato dall’appellante infatti le situazioni non sono sovrapponibili.
In questo secondo caso i diversi lavoratori richiedono ciascuno per sé un diverso “bene della vita” e prospettano la possibilità del simultaneus processus stante una connessione tra le cause di ciascuno di essi “per l’oggetto o per il titolo dal quale dipendono”; la decisione invocata tuttavia, anche se basata sulla soluzione della medesima questione di diritto, attribuirà a ciascun lavoratore il trattamento specifico da lui richiesto.
Nel caso in esame invece le due associazioni (A.P.N. e ASGI) non hanno proposto due diverse domande connesse per l’oggetto e per il titolo, ma hanno proposto, congiuntamente, un’unica domanda consistente nell’accertamento di un unico comportamento (la limitazione all’accesso del bonus asilo nido prevista dal DPCM 17.2.2017 e dalla circolare INPS 27/2020) posto in essere in violazione dei diritti di parità previsti dal diritto nazionale e dal diritto dell’UE di un medesimo soggetto (l’insieme dei cittadini privi di un determinato titolo di soggiorno).
L’art. 28 comma 2 d.lgs. n. 150/2011 introduce un foro esclusivo che è tuttavia derogabile atteso che le ipotesi di inderogabilità sono espressamente previste dalla legge.
Peraltro la derogabilità del foro risponde alla volontà del legislatore di favorire il ricorrente discriminato così da consentirgli di agire nel luogo per lui più accessibile.
La connessione oggettiva consente di realizzare il simultaneus processus a condizione che venga in considerazione una competenza territoriale derogabile ma l’art. 33 c.p.c sembra limitare gli effetti derogativi della connessione alle sole ipotesi di «cause proposte contro più persone».
Come osservato nell’ordinanza del 18.7.16 del Tribunale di Brescia (confermata dalla Corte di Appello di Brescia con sentenza 337/19), che il collegio richiama condividendone lo sviluppo, “se la disposizione (art 28 D. Lgs 150/2011) fosse interpretata alla lettera, nel caso di specie si avrebbe una proliferazione di cause – aventi il medesimo oggetto – in tribunali diversi, in ragione dell’impossibilità di cumulare i giudizi in presenza di un litisconsorzio attivo.
La soluzione contrasta con evidenti ragioni di economia processuale e favorisce possibili conflitti di giudicati sulla medesima questione sostanziale.
Trattandosi di diritti fondamentali – il principio di uguaglianza è sancito dall’art. 3 Cost. e trova riscontro nell’art. 14 CEDU – l’esigenza di evitare che la stessa condotta sia ritenuta
discriminatoria da un giudice e legittima da un altro è massima.
È allora ragionevole ritenere che, in presenza di una connessione oggettiva, più attori possano agire nei confronti del medesimo soggetto autore della discriminazione, selezionando, quale foro, quello del domicilio di uno dei ricorrenti”.
Tanto più laddove, come nel caso in esame, la connessione che consente il simultaneus processus, non è impropria, per identità di questioni, bensì propria, perché la lesione lamentata dalle associazioni discende da una condotta unitaria.
La situazione appare del tutto assimilabile a quella in tema di foro del consumatore dove la norma regolante la competenza territoriale è stata dettata dall’intento di favorire la proposizione di azioni in forma collettiva finalizzate a una concentrazione di controversie individuali davanti a un unico giudice allo scopo di realizzare economia processuale e conformità di giudicato.
Anche in questo caso l’affermazione della derogabilità della competenza in caso di pluralità di associazioni è finalizzata a una concentrazione di controversie individuali con identica causa petendi e petitum davanti a un unico giudice allo scopo di realizzare economia processuale e conformità di giudicato.
In tal senso non appare convincente la sentenza nr. 24419/13 della Corte di Cassazione (richiamata dall’Avvocatura dello Stato) ove pur ribadendo che la derogabilità della competenza territoriale in tema di foro del consumatore “è stata dettata da casi di proposizione dell’azione in forma collettiva finalizzata a una concentrazione delle controversie individuali davanti a un unico giudice allo scopo di realizzare economia processuale e conformità del giudicato”, non viene spiegato perché analogo principio non possa essere affermato in un ambito assolutamente equiparabile quale quello in esame.
Un’interpretazione dell’art. 28 cpc nei termini sopra esposti appare pertanto in tal modo conforme ai principi costituzionali e comunitari consentendo di assicurare un uguale trattamento processuale tra situazioni analoghe.
Superata la questione preliminare, nel merito ASGI ripropone le domande avanzate in primo grado ma non esaminate dal giudice in quanto ritenute assorbite dalla decisione assunta sulla competenza territoriale.
Tali domande devono ritenersi fondate alla luce di quanto sopra esposto relativamente al contenuto discriminatorio della circolare Inps e che qui si intende integralmente richiamato
In conclusione e in conseguenza di quanto esaminato, l’ordinanza impugnata va parzialmente riformata nei termini di cui al dispositivo.
Stante la soccombenza di A.P.N. Avvocati per niente, ASGI Associazione studi giuridici sull’immigrazione, L. Lega per i diritti dalle persone con disabilità nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, le stesse vengono condannate in solido al pagamento in suo favore delle spese del doppio grado nella misura di complessivi € 6.000,00 (di cui € 3.000,00 per il primo grado ed 3.000,00 per l’appello) oltre accessori e spese generali.
Inps, stante la soccombenza, viene condanna al pagamento delle spese del doppio grado (così rideterminando anche quelle del primo grado) a favore di A.P.N. Avvocati per niente e ASGI Associazione studi giuridici sull’immigrazione nella misura complessiva di 6.000,00 (di cui € 3.000,00 per il primo grado ed € 3.000,00 per l’appello) oltre accessori e spese generali e a favore di L. Lega per i diritti dalle persone con disabilità nella misura complessiva di 6.000,00 (di cui € 3.000,00 per il primo grado ed € 3.00,00 per l’appello) oltre accessori e spese generali con distrazione a favore dei procuratori costituiti.
Si intendono compensate le spese tra Inps e Presidenza del Consiglio dei Ministri
P.Q.M.
In parziale riforma dell’ordinanza del giudice del lavoro del tribunale di Milano del 10.11.20 (RG 3219/20):
dichiara la competenza territoriale del tribunale di Milano in relazione alle domande avanzate da ASGI;
dichiara la carenza di giurisdizione del giudice ordinario in ordine alle domande avanzate nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri
conferma le restanti statuizioni di merito dell’ordinanza impugnata in relazione alle domande avanzate nei confronti di Inps;
condanna A.P.N. Avvocati per niente, ASGI Associazione studi giuridici sull’immigrazione, L.L. per i diritti dalle persone con disabilità al pagamento delle spese del doppio grado a favore della Presidenza del Consiglio dei Ministri nella misura complessiva di € 6.000,00;
condanna Inps al pagamento delle spese del doppio grado a favore di A.P.N. Avvocati per niente e ASGI Associazione studi giuridici sull’immigrazione nella misura complessiva di € 6.000,00 oltre accessori e spese generali e a favore di L.L. per i diritti dalle persone con disabilità nella misura complessiva di € 6.000,00 oltre accessori e spese generali con distrazione a favore di procuratori costituiti
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